penna

Fuori dai Consueti Binari, agosto 1908

"racconto di Marzio Gobbi"

Per cogliere il significato della parola routine in tutte le sue sfumature basterebbe appostarsi di buon ora dentro casa mia un qualsiasi giorno feriale. Si noterebbero gli stessi movimenti compiuti con ritualità prima di scendere alla fermata del bus che mi accompagna in stazione, così da raggiungere in treno l’ufficio dove lavoro. E’ la vigilia di Ferragosto e questa mattina il bus è desolatamente vuoto, mi consolo alla vista del conducente, non sono l’unico piacentino che va a lavorare. L’assenza di compagni di viaggio rende questa corsa verso la stazione particolarmente rilassante, distendo le gambe e mi faccio cullare dalle vibrazioni che il mezzo produce ogni volta che arresta il suo cammino. Un simpatico buffetto dell’autista mi riporta nel mondo reale e, quando la sua figura si fa più nitida, rimango colpito dall’abbigliamento vintage del baffuto signore. Sono adagiato su di un comodo e lussuoso sedile in velluto rosso all’interno di un tram su rotaie trascinato da una coppia di cavalli, che ha terminato il suo percorso ed è ora fermo dinanzi ad uno chalet in legno; se si aggiunge il lezzo di stallatico stagionato che aleggia nei paraggi, non sembra certo di stare in centro città. Il piacevole fischiettio del cocchiere si mescola con un fermento corale che si ode in lontananza: decido di imboccare un affaccendato Corso e qualche manifesto che annuncia l’inaugurazione in piazza della nuova linea di tram elettrici non fa altro che pungolare la mia curiosità. Prima di incamminarmi incontro un ambulante che spinge a mano un carretto, richiamando l’attenzione della gente così a gran voce da sovrastare lo stridìo sul selciato delle ruote del tram in partenza ed il toc toc degli zoccoli dei ronzini. La semplicità di quell’uomo contrasta con la ricercatezza di due eleganti signore in abiti estivi intente a ciarlare durante il loro passeggio. La strada è teatro di vita, le persone si conoscono, chiacchierano e si salutano senza la frenesia e l’assurda nevrosi alle quali sono mio malgrado abituato. Ed è da questo stato di calma e di partecipazione collettiva che mi rendo conto di essere in un’epoca così distante dalla mia. Alla cerimonia d’apertura in Piazza ci sono tutti: il sindaco con la fascia tricolore, i reduci dalle battaglie con medaglie e bandiere, i cittadini, i “villani” venuti dalla campagna e naturalmente la banda che fa un gran baccano. Quando la prima vettura si mette in movimento si alza un’ovazione accompagnata dallo sventolio delle bandiere tricolori. Al passaggio della nuova fiammante vettura, una mamma stringe a sé i figli e borbotta: “ Dove si andrà a finire con questi mezzi che scorazzano a tutta velocità per la città? D’ora in poi non si potrà più uscire di casa! “ . Mentre aspetto anch’io la mia corsa per dare un senso compiuto alla giornata, scambio qualche parola con un ragazzo dal curioso abbigliamento; il tipo infatti veste una maglia a righe con maniche a sbuffo con sotto un bustino che mette in evidenza il suo vitino “da vespa”; ai piedi calza delle scarpine leggere e traforate, con lunghe stringhe allacciate alle caviglie, mentre in testa porta un foulard di colore verde pastello. La meridiana solare posta sul palazzo del Governatore è d’altronde lì a rassicurare che l’estate ha ancora qualche guizzo da proporre ed il giovane è confezionato a puntino per farsi traghettare all’isolotto Maggi. Piero, questo è il nome del ragazzo, mi confida che vorrebbe, un giorno, salire sul treno che vede sferragliare sul ponte per vivere un’altra estate, incontrare delle facce diverse, sentire nuovi dialetti. Questo suo desiderio riesce a mitigarlo quando raggiunge il grande fiume e si crogiola sui bianchi dossi di sabbia che brillano al sole sorseggiando una granita al tamarindo. Ora capisco perché nonostante il soffoco aggressivo che attanaglia la testa di chi rimane d’estate in città, le strade sono così pulsanti durante il periodo ferragostano; basta imbarcarsi dalle rive del Po ed approdare su quel lembo di terra che, con i suoi chioschi e le sue cabine, rimane lì, immobile tra i due ponti, per tutta la sua estate rovente, ad ubriacarsi di sole e a riposarsi nell’oscurità punteggiata di vaganti lucciole ammiccanti. La piacevole chiacchierata viene bruscamente interrotta dall’arrivo del tram elettrico, a prima vista non molto diverso da quelli che oggi circolano nelle metropoli. Una volta che si mette in moto, però, percepisco immediatamente l’andamento basculante che lo muove in su e in giù come una barca sulle onde, al punto che alcuni viaggiatori chiedono al manovratore di arrestare la vettura per farli scendere. Riesco così a sedermi e mi faccio cullare dal beccheggio costante e continuo del mezzo. “Sveglia, siamo al capolinea!” tuona l’autista del bus fermo davanti alla stazione ferroviaria. Corro verso le mie abitudini, non devo mancare l’appuntamento con il mio treno, salgo sul vagone e scrutando fuori dal finestrino cerco di sintonizzarmi sulle frequenze della giornata che verrà. Fisso le macchine in coda lungo la strada che costeggia la ferrovia con figure tristemente sole nel loro abitacolo che sembrano inghiottite dai ritmi frenetici del vivere moderno. Apro gli occhi sulla realtà che sto vivendo: sono all’inferno e non me ne sono mai accorto!


piacenza, il tram a cavallo nella piazza