penna

la Vendetta di Bot

di giorgio vecchi

All’inizio degli anni ’90 ritrovai, quasi per caso, il mio vecchio compagno di scuola Antonio Braga. Ci conoscevamo dai tempi del Romagnosi, lui stava nella sezione B di Ragioneria, io nella A. Non eravamo propriamente amici ma qualche volta ci si vedeva. Le nostre strade, però, si erano separate presto. Quando divenne titolare di una importante galleria d’arte in via Cavour, ebbi occasione di incontrarlo un giorno nella seconda metà degli anni ’70. Speravo che un critico d’arte a lui vicino scrivesse una breve recensione per un amico pittore che esponeva in quei giorni le sue opere nei locali del Grande Albergo Roma. Antonio quella volta non fu particolarmente disponibile ma lui era fatto così, nel suo campo a volte sapeva essere scostante e un pò orso. Non ci vedemmo più per molto tempo. Poi un giorno in occasione della annuale mostra piacentina d’antiquariato che allora si teneva ancora negli ex locali della Fiera in via Emilia Parmense, vidi alcuni quadretti di Bot appesi in uno stand, non molto belli per la verità. Curioso di tutto quanto riguarda il pittore, chiesi ad un giovane che stava lì accanto prezzi e origine delle opere. Questi mi disse che sostituiva momentaneamente il padre e che non ne sapeva nulla. Dovevo rivolgermi al genitore per avere i necessari ragguagli e mi tese un foglietto con un numero telefonico. Venni così a sapere che si trattava del figlio dell’amico Antonio. Quella volta non gli telefonai subito, ormai non abitavo più a Piacenza e non avevo molte occasioni di venire in città; lo feci qualche settimana dopo e convenimmo d’incontrarci nella sua galleria. Antonio sapeva che la mia famiglia aveva avuto rapporti con Oswaldo Bot ai tempi del vecchio Roma per cui si dimostrò molto interessato ai miei quadri. Gli dissi che erano quasi tutti del cosiddetto “periodo africano” dell’artista, dunque risalenti alla seconda metà degli anni trenta. Lui mi fece intendere che stava allestendo una nuova importante mostra di suoi dipinti e che sarebbe stato ben lieto di esporre anche le mie tele che erano praticamente inedite.


bot autoritratto del 1942

Fu così che iniziammo una più stretta relazione. Antonio venne a Montù per visionare i quadri che lo soddisfecero alquanto. Ricordo che ebbe una lunga conversazione con mio padre, allora prossimo ai 97 anni, mostrandogli simpatia e ammirazione, un tratto del suo carattere che non gli conoscevo.. Poi mi propose di far sistemare alcune opere che, essendo polimateriche, si erano un po’ deteriorate con gli anni. Tutti i quadri in mio possesso vennero in seguito diligentemente fotografati e catalogati da Antonio a Piacenza. Alla fine tutto era pronto per la mostra che si tenne con successo nei locali della sua galleria, presenti alcuni critici tra cui Vittorio Sgarbi. Io non andai al vernissage poiché tali manifestazioni non mi hanno mai interessato. Il mio interesse vero era che si acquisisse una più ampia conoscenza dell’artista e dei quadri africani che erano stati fino ad allora un po’ sottovalutati. La manifestazione ebbe come inevitabile corollario un volume curato da Marilena Pasquali, quello in cui si vede sulla copertina il famoso tondo di Enrica Futurista. Da allora ogni volta che capitavo in città ero solito passare un momento in via Cavour per trovare il mio amico. Un giorno agli inizi di primavera ricevetti da lui una telefonata. Si stava allestendo per l’estate a Barcellona un’importante mostra sul futurismo europeo e Antonio si era impegnato ad inviare dei quadri. Lui aveva pensato al mio “Guerriero” e mi chiedeva di poterlo spedire nella città catalana. Ero un po’ scettico sulla faccenda, temevo che il quadro, polimaterico e con numerosi oggetti a mo’ di collana, potesse rischiare qualcosa nel trasporto. Antonio mi rassicurò che ogni suo quadro viaggiava con una completa copertura assicurativa e con un imballaggio perfetto, per cui non c’erano rischi di sorta.


a sinistra guerriero con orecchino dente di cinghiale - a destra senza

Venne lui di persona a ritirare il dipinto e mi promise che mi avrebbe tenuto al corrente della mostra e del suo laborioso allestimento. Passarono almeno due mesi senza che ne sapessi più nulla. Mi chiedevo come fosse andata la cosa e un giorno non potendo più attendere telefonai ad Antonio. Lui doveva essere in un periodo no perché fu gentile ma distante, mi informò sbrigativamente che tutto andava per il meglio ma che c’erano state delle difficoltà per cui l’inaugurazione era stata posticipata e si sarebbe tenuta proprio in quei giorni. Non volli insistere anche perché c’era poco da fare: avevo consentito io a dare il quadro per cui bisognava avere pazienza ed attendere che la faccenda si concludesse al più presto. Qualche settimana dopo fu Antonio a chiamarmi. Era euforico e in vena di chiacchiere, mi mise al corrente che la mostra aveva avuto un ottimo successo e che i quadri di Bot in particolare avevano ottenuto un generale consenso di critica. Sembrava quasi che sotto sotto volesse rimproverarmi per le perplessità che avevo nutrito verso tutta l’operazione. Lo ringraziai rassicurandolo che non mi ero mai sognato di mettere in dubbio la bontà dell’iniziativa poiché, ed ero completamente sincero in questo, tutto ciò che potesse contribuire a far conoscere il nostro andava sostenuto e caldeggiato. Passò altro tempo venne l’estate e l’impegno, per me sempre fastidioso, nella sessione d’esami mi fece scordare la mostra barcellonese. Agli inizi di settembre non avevo ancor avuto alcuna notizia da Antonio. Gli telefonai un po’ seccato chiedendogli quando mi sarebbe stato restituito il quadro. Colsi un attimo di perplessità o d’imbarazzo in lui, cosa alquanto rara, ma subito si riprese e mi informò che aveva già sollecitato la spedizione delle cose da lui inviate, ora che la mostra era stata chiusa. Appena il quadro fosse giunto avrebbe provveduto ad informarmi. Pochi giorni dopo mi richiamò e mi disse bruscamente, senza preamboli, che il mio quadro era stato oggetto di un “deplorevole atto vandalico”, non sapeva bene cosa fosse accaduto, mi avrebbe tenuto informato. Da parte sua, volle rassicurarmi, aveva già inoltrato una richiesta di risarcimento nei confronti della compagnia assicuratrice. Io ero talmente sbigottito che quasi non mi riusciva di dirgli alcunché, cercai di farmi dare maggiori dettagli ma Antonio ribadì che sapeva davvero poco dell’incidente.
E qui la faccenda si fa misteriosa. A posteriori mi sono chiesto perché, se davvero il mio amico non era al corrente di quanto accaduto, avesse fatto in tutta fretta la denuncia all’Assicurazione. Avevo l’impressione che già da tempo ne sapesse molto di più. Che qualcosa non andasse per il verso giusto lo compresi quando Antonio mi informò che il quadro era in arrivo e che il danno subito era minimo. La cosa più sorprendente era che l’Assicurazione aveva già pagato una discreta sommetta a titolo di risarcimento che lui, detratte le sue spettanze, avrebbe provveduto a farmi avere. Anzi, avendo obiettato che avevo difficoltà a recarmi a Piacenza in quei giorni, si offrì lui stesso di portare il denaro dai miei cognati che hanno un negozio non distante da via Cavour. Lo ringraziai e restammo d’accordo che sarei andato a ritirare il quadro appena fosse giunto. Giorni dopo ero a Piacenza e passai dai cognati. Essi, consegnandomi un plico sigillato, mi raccontarono della visita di Antonio e del racconto che lui aveva fatto loro dell’incidente al Guerriero. Con sorpresa udii una versione del fatto totalmente nuova. A quanto risultava un tizio era stato sorpreso dai sorveglianti del museo mentre tentava di filarsela con il mio quadro nascosto sotto il cappotto. Ne era nata una baruffa di cui aveva fatto le spese il dipinto, recuperato, sì, ma con qualche danno. Andai difilato in galleria per parlare con Antonio ma non c’era. Mi chiedevo perché non mi avesse raccontato per bene la storia del tentato furto esponendola invece con dovizia di particolari ai miei parenti. Ancora adesso me lo chiedo poiché successe questo. Antonio scomparve per un po’ dalla circolazione, (seppi poi che aveva iniziato delle terapie per l’insorgere di quel male che doveva alla lunga essergli fatale) il quadro mi venne fatto recapitare attraverso mio cognato e un nuovo fatto sorprendente mi spinse a lasciar cadere ogni velleità investigativa. L’analisi del quadro rivelò che il danno, davvero modesto, consisteva nell’asportazione dell’orecchino che il Guerriero sfoggiava all’orecchio destro.


guerriero con appeso al collo un dente d‘osso

La scoperta ebbe per me un retrogusto tragicomico che merita un doveroso chiarimento. Molti anni prima avevo trovato a Montù Beccaria, nella cantina della casa che era stata di mio zio Angelo, un dente di cinghiale. Non so quale impulso mi fece venire l’idea. A quel tempo non avevo una grande opinione di Bot, lo consideravo una specie di clown della pittura e le sue tele africane un grottesco pastiche di pittura e cianfrusaglie bizzarramente assortite. Il Guerriero, in particolare con quelle labbra rosse che imitano curiosamente un segnale di divieto d’accesso e la collana composta dai materiali più svariati –bottoni, ingranaggi d’orologio, forbici- mi pareva un esempio del peggior kitsch. Ripeto, non so neppur io come mi venne la sciagurata idea di “migliorare” il guerriero libico, aggiungendo a mo’ d’orecchino il dente che avevo rinvenuto in cantina. Non feci altro che infilare la cordicella che lo agganciava a una sporgenza del quadro e voilà il gioco era fatto. Passarono gli anni e dimenticai quell’antica profanazione. Quando Antonio Braga catalogò e fotografò il quadro non mi rammentai di dirgli dell’orecchino. Ora un incidente insperato aveva restituito l’opera alla sua originaria integrità. Come non pensare a una vendetta di Bot. Potete riderne, ve lo concedo, ma io “mi sono fatto persuaso” come direbbe il commissario Montalbano che sia stato proprio il fantasma di Bot ad armare la mano dello sconosciuto a cui rimase forse in ricordo l’orecchino apocrifo. Il bello è che qualche tempo dopo osservando su un catalogo un'altra tela di soggetto “affricano” del nostro vidi con sorpresa che un guerriero, pressappoco simile al mio, aveva appeso al collo un dente d‘osso. Che vi sia stato uno scambio di dente tra i due quadri?.(al solit profesur).