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Camerieri d'Altri Tempi

di giorgio vecchi

Mio padre mi parlava di alcuni mitici camerieri che avevano lavorato al Roma prima della guerra come Carlo Troglio, Giuseppe Torelli e Adamo Poggi. Quest’ultimo lo conobbi anch’io, poiché alla fine degli anni ‘40 veniva ancora a far qualche giornata di lavoro in occasione di grosse tavolate. Mio padre conosceva bene la sua famiglia. Suo fratello Rino, gran pasta d'uomo, che chiamavano "al tartaiòn" a causa di una notevole balbuzie, aveva bottega di barbiere in via Verdi poco oltre l’angolo con il corso Vittorio Emanuele. Fu proprio sopra la Pasticceria Galetti, al secondo piano dell’edificio situato davanti alla sua bottega e di proprietà della famiglia Sangiovanni, (dove lui stesso viveva), che andammo ad abitare in affitto per un paio d’anni quando chiuse il vecchio Roma.


Adamo Poggi in una foto giovanile

Di Giuseppe Torelli dovrei parlare a lungo poiché era un singolare personaggio, in tutto e per tutto degno del gruppo dei pëssgatt che frequentavano il Roma. Già oltre l’ottantina, dimorava presso un ospizio cittadino, credo il Maruffi. Era però ancora in gambissima e poiché mal tollerava quella che lui considerava una specie di clausura le sue uscite, consentite o meno, erano assai frequenti. Inutile dire che la sua meta preferita era il nostro hotel. Era un vecchietto dignitoso e garbato, che non avrebbe sfigurato nella parte di maggiordomo in una classica pellicola inglese, sempre molto ossequioso nei confronti di mio padre che bonariamente gli permetteva di restare nell’albergo ove era stato cameriere fin dai primi anni trenta in cui lui iniziò a gestirlo. Per ricambiare l'ospitalità Torelli cercava ancora di rendersi utile e lo rivedo, a tanti anni di distanza, con un grembiulone bianco, nel cortile dell'hotel a lucidare l'argenteria con il classico "bianchetto". Spesso si univa ai pëssgatt del Roma che oziavano sotto la "topia", l'enorme vite americana che si allargava per buona parte del cortile e dava ombra e fresco alla lieta compagnia. Torelli si limitava ad ascoltare le chiacchiere dei presenti e raramente interveniva a meno che non lo tirassero in ballo pregandolo, come talora accadeva, di raccontare qualche aneddoto o storiella piccante sulla Piacenza dei primi anni del secolo.

Era anche un uomo istruito e possedeva una ventina di volumi rilegati che alla fine mi regalò vedendomi appassionato alla lettura. C’erano tra essi, oltre a una vecchia edizione del Decamerone che fu per me una straordinaria scoperta come racconterò altrove, una pregevole edizione ottocentesca delle opere complete di Manzoni, alcune vecchie edizioni di romanzi di Zola, Maupassant e Hugo, una cronaca della “gloriosa” guerra fascista all’Etiopia del Negus ed altre opere di storia locale assai interessanti. Dove li avesse scovati non seppi mai, forse glieli avevano regalati le famiglie presso cui ebbe a servire negli ultimi anni della professione. Su ognuno di essi il buon uomo aveva avuto cura di porre in bella calligrafia la dicitura: "Proprietà Giuseppe Torelli". Li posseggo ancora e di tanto in tanto li sfoglio ripensando a quel bel tipo.


mio padre, ultimo a destra seduto,
giovane cameriere in un hotel di bergamo

Sedeva in cortile ad uno dei tavolini nella stagione estiva a intrecciare argute conversazioni con le mie zie che un pò lo coccolavano come fosse un loro vecchio zio. Nei freschi mesi autunnali si sistemava con alcune vecchie coperte fornite da zia Mariuccia in una vetusta Bianchi che stazionava perennemente in cortile (era la famosa "Carlotta" di Gino Sormani) che aveva eletto, col consenso del proprietario, a suo occasionale rifugio per la notte specialmente quando non era in grado di rientrare all’ospizio essendo in preda ai fumi dell’alcool. Torelli infatti aveva una debolezza, era un devoto seguace di Bacco. Capitava che spesso le sue apparizioni da noi coincidessero con tavolate e simposi vari. Alla fine di questi Torelli chiedeva a mio padre il permesso di "occuparsi" dei bicchieri semipieni di vino rimasti sulle tavole che lui travasava in bottiglie e bottiglioni spesso senza far distinzione tra rossi e bianchi. I vari recipienti da lui scrupolosamente riempiti li portava all’ospizio distribuendoli poi generosamente tra gli altri ricoverati. Finché un giorno vennero in albergo alcune suore dell’istituto a lamentarsi con mio padre: infatti grazie a lui metà ospizio era caduto in preda a ebbrezza etilica. (Al solit profesur).