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il Barino e il Tramonto dei Caffè Cittadini

di Giorgio Vecchi

Ma la nossa Piaseinza! Ma il noss cà! Al noss ruglein d’amig c’as cunussuma Ognidôin al sà ‘l mâl che l’âtr’al gha: e c’una paruleina as cunsuluma! (V. Faustini)
Përchè, malgrado tütt, i piasintein ch’i fann poc cômplimeint e poc discôrs i g’hann un’anma s’ciëtta e un cör fatt bein anchë se quâlchë vota i pâran ôrs (E. Carella)


Chi non vive più da anni a Piacenza come nel mio caso finisce inevitabilmente col perdere il polso della città. Non s’accorge delle piccole trasformazioni, apparentemente insignificanti, che ogni giorno la città subisce, indizi di un impercettibile ma costante mutamento. Cambiare nel tempo può essere un sintomo di vitalità -una volta si diceva di progresso- ma per chi ama la quieta vita di provincia riesce difficile considerarlo un fatto positivo. Per chi ha la mia età, poi, e rammenta la Piacenza di quaranta o cinquant’anni fa, almeno nelle sue linee essenziali, è duro constatare quanto sia cambiato non solo l’aspetto, che sarebbe accettabile e nell’ordine delle cose, ma l’atmosfera della città, il colore locale che davano alle sue strade e piazze certe botteghe, certe insegne, certi pubblici esercizi, ora scomparsi per sempre. L’antico Caffè Grande Italia, sotto i portici di Palazzo Mercanti, certo il più elegante di Piacenza, (che fu dapprima dei Veneziani, poi dei Parisi, in seguito ribattezzato Balzer, quindi Ranuccio) è diventato da pochi anni Il Barino.


tavoli fuori del Barino

La cosa non mi ha certo fatto piacere. Ecco, mi sono detto, un altro sgarbo alla mia Piacenza di cui devo prendere atto con amarezza. Perché per me il Barino, quello vero, resta lo storico locale di Largo Battisti a fianco del Credito Italiano, che Peppino Veneziani condusse per tanti anni.

Il Barino me lo ricordo bene, è ancora davanti ai miei occhi come un’immagine sottratta agli oltraggi del tempo. Amavo passare davanti ai suoi tavolini gremiti nelle ore di punta e vedere la borghesia cittadina e gli habitué che vi sedevano composti fingendo di chiacchierare coi vicini ma in realtà scrutando tra la folla dei passanti volti conosciuti, donne desiderate, possibili occasioni di pettegolezzo. Tutto questo per me era una tacita conferma che la città era lì, fissa, immutabile, radicata nel suo provinciale torpore. Potevo andarmene in giro per il mondo, visitare luoghi rari ed esotici ma poi al ritorno c’era ogni volta la conferma d’esser di nuovo finalmente a casa, tra mura amiche, immutabili e dunque rassicuranti. Una città, la nostra, come cento altre della grande provincia italiana, ciascuna col suo peculiare aspetto, fissato nei secoli dal reticolo delle sue strade, delle sue piazze, dei suoi vicoli. Città dall’intimità un po’ gelosa e dai consumati rituali in cui ritrovarsi e perdersi ogni volta che si torna. Mi piaceva occultarmi tra la folla dei miei concittadini che ti conoscono da sempre e che fingono di non vederti per non doverti salutare. Non per ostilità o indifferenza ma per un antico pudore, per una riservatezza innata. Persone dunque che apparentemente ti ignorano ma che notano -e lo capisci da certi sguardi obliqui che ti rivolgono, da certi cenni- che sei ritornato tra loro, anche se per poco.


Nel vecchio Barino di Peppino Veneziani, sarò entrato non più di tre o quattro volte in vita mia, non ero certo un frequentatore abituale. Ero giovane, timido e provavo una certa soggezione ad entrare in quel tempio della crème piacentina. Inoltre la vita del bar non mi ha mai troppo affascinato forse perché il mio teatrino l’avevo già ben vivo quotidianamente tra i pëssgatt del vecchio Roma. Dopo la sua chiusura andai qualche volta in un altro mitico bar dell’epoca, il Cavour ma lì giocavo in casa perché, come ho detto altrove, era gestito da zio Gianni, uno dei fratelli maggiori di papà.

Il Cavour era il bar degli studenti, più o meno squattrinati, e degli sportivi, praticanti o meno. Spesso vi si vedeva il popolare Leo Menta, famoso portiere del Piacenza, o Mondo Mazzocchi un piasintein dal sass, parente di Pierino Agosti fratello della prozia Maria, con la sua combriccola di amici tra i quali anche Araldi, fondatore dell’Arbos, la fabbrica di biciclette famosa negli anni cinquanta che più tardi, acquisita da Artemio Bubba, si trasformò nella nota ditta meccanica costruttrice di mietitrebbia.


Il Barino però era davvero un locale che si distingueva dagli altri per la clientela importante che lo frequentava. Più che un bar, come ha ben detto Giuseppe Carella, “era un palcoscenico con personaggi di primo e secondo piano, ognuno inconsapevolmente calato in un ruolo palese o subliminale che gli veniva disegnato addosso e che generalmente veniva accettato: l’intellettuale, il nobiluomo, l’elegantone, l’industriale, il politico, il tenore, il possidente, il professionista, l’agricoltore, lo studente, il pittore.”

Da adolescente sognai di far parte anch’io di quel piccolo mondo esclusivo che ogni giorno celebrava i suoi riti mondani ma alla fine vinceva la timidezza, la paura di non essere accettato. Di fatto però il mio desiderio era un altro. Mi rassicurava semplicemente sapere che il Barino esisteva, era lì, quasi fosse un’inamovibile istituzione cittadina e che, se avessi voluto, avrei potuto entrarvi per una rapida consumazione o sedere ad uno dei tavolini all’aperto a scrutare con malcelato interesse i concittadini impegnati nelle vasche del tardo pomeriggio certo che il patron Peppino, una volta riconosciutomi, mi avrebbe aperto le porte di quel suo tempio riservato.

Rammento bene Peppino Veneziani: basso, solido, rassicurante con un viso un po’ tozzo, quasi scavato nel legno. Anni dopo, studente di Lingue alla Bocconi, assistetti ad una memorabile conferenza del poeta cileno Pablo Neruda e mi accorsi con stupore che un po’ mi ricordava il nostro Peppino. Lui, che apparteneva a una famiglia di gestori di bar, era un vecchio amico di papà, oltre che suo collega ai Commercianti e all’EPT. Ho foto d’anteguerra in cui siede a tavola con altri colleghi. Capitò negli anni cinquanta che lo vedessi qualche volta alle gite promozionali a cui partecipavano gli esercenti piacentini diretti alle cantine canelliane di Giuseppe Contratto o a quelle di Gancia e Cinzano. Peppino ostentava una certa conoscenza dei vini ma lo faceva senza strafare con una sua discreta e molto professionale signorilità.

La foto per me più evocativa è quella che mi vede all’inaugurazione del Barino, dopo una parziale ristrutturazione nei primi anni sessanta. Ricordo che andai insieme a papà e ad Aldo Ambrogio alla riapertura dello storico locale. C’era parecchia gente, i clienti abituali e molti curiosi. Ad un certo punto i camerieri ci offrirono dello champagne rosé, era la prima volta che lo assaggiavo e mi piacque molto. Mentre assaporavo quel nettare Peppino si avvicinò con un cabaret di paste e rivolgendosi a papà ci invitò tutti ad un brindisi celebrativo mentre qualcuno ci immortalava nella foto.


inauguarazione nuovi locali del Barino

Il rinnovato locale conobbe ancora tempi fortunati, era sempre il preferito da giornalisti, celebrità locali, funzionari di banca e stimati professionisti che vi si ritrovavano per il rito dell’aperitivo e per spettegolare sulle vicende cittadine. Ma un brutto giorno anche per il Barino come per il Roma giunse, immeritato, il pensionamento col forzato ritiro di Peppino. Anni dopo il Cavour subiva la stessa sorte. Dopo la morte dei miei zii, aveva continuato a tenerlo in vita, insieme alla moglie, mio cugino Carlo, il popolare Charlie, che passava le sue notti a giocare coi clienti-amici interminabili partite a poker. Ma anche Carlo, verso il 1985, decise di ritirarsi cedendo la gestione ad altri. I miei parenti l’avevano tenuto per oltre mezzo secolo, con i nuovi gestori non sopravvisse che qualche anno.

Un’epoca si chiudeva e tutti la ricordiamo con qualche rimpianto. Quei locali, ed altri dello stesso genere come il Nazionale, il Iolanda, il San Carlo, il Bar Italia, il Nazionale avevano una loro clientela affezionata che però col passare degli anni si era dissolta senza nuovi innesti a rimpiazzarla, a darle linfa. La vita di caffè stava morendo e con essa scompariva un costume, un’abitudine antica. E mi viene da ripensare al Bottegone di Piazzetta delle Grida, che fu della mia famiglia nei primi anni trenta e che ancora negli anni cinquanta e sessanta era l’abituale recapito dell’estroso e pittoresco giornalista Guido Fresco, direttore e factotum del giornale "La Settimana". La generazione che da prima della guerra aveva regolato i suoi ritmi quotidiani su quei luoghi, facendone una seconda casa, stava scomparendo, superata da nuovi stili di vita. Nulla resta oggi di quelle allegre combriccole che si ritrovavano negli storici caffè quando la vita sociale era una fiorente realtà.

Il Barino però è rimasto per sempre un’isola privilegiata nel ricordo di chi visse quei tempi. Parecchi anni fa a un congresso di ispanisti conobbi un collega piacentino che da tempo, mi confessò, non tornava nella nostra città. Dopo qualche scambio di convenevoli mi chiese quasi a bruciapelo: ”Ma il Barino c’è sempre?” Mi affrettai a rassicurarlo. E’ questo quel che più mi manca di Piacenza, un luogo di riferimento come lo fu per tanti anni quel locale di Largo Battisti e come lo furono, in più modeste dimensioni, molti altri caffè cittadini quando il centro era davvero un piccolo palcoscenico su cui si esibivano i pittoreschi personaggi della città. La recente chiusura di un altro storico locale, il ristorante Agnello di Renato Badini, è stato un ulteriore tassello perduto di quella città che abbiamo amato e che invano rimpiangeremo. Quando ancora papà era al Grande Albergo Roma capitava che i clienti che volevano gustare i piatti tradizionali della cucina piacentina venissero da lui indirizzati al mitico ristorante di Renato che aveva una sua scelta di primi e secondi piatti limitata ma di eccellente qualità.