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una Gelida Vendetta

“Romanzo di Piero Zucconi 2011”


La Congiura

Il Duca di Piacenza, Pierluigi Farnese, fu assassinato il 10 settembre 1547 nella sala del suo palazzo, subito dopo il pranzo. Quattro sono i capi della congiura: Giovanni Anguissola, Gianluigi Confalonieri, Agostino Landi e Girolamo Pallavicino. Ma l'Anguissola è il vero leader del gruppo: quello che guida i congiurati, che entra con due sicari (Giovanni Osca detto lo Spagnolo e Francesco Malvicino) nella sala del Duca per ucciderlo e che dà il via agli altri per entrare nella cittadella ed eliminare ogni resistenza. La congiura era nata in opposizione al tentativo del Farnese di costituire uno stato con un forte potere centralistico che pretendeva di cambiare consuetudini secolari e di privare i feudatari dei loro privilegi. Le intenzioni del Duca di tenere sotto controllo i nobili si erano evidenziate con l'uscita di un bando con cui veniva ordinato a tutti i feudatari, “di terre e di castella”, di risiedere in città, pena la confisca dei beni. Poi, furono loro imposte tasse delle quali, fino a quel momento, erano stati più o meno esenti, mentre venivano recuperati allo Stato i diritti di vendita del sale a loro appaltati. Tutto questo ed il proposito di Pierluigi di intervenire sulla situazione economica e sociale del ducato portò il patriziato locale ad opporsi ad un potere che sminuiva la loro indipendenza. La congiura contro il Duca di Piacenza partì, come si è detto per iniziativa di Giovanni Anguissola, che era infiammato da un senso di vendetta per quelle che lui pensava fossero ingiustizie perpetrate a danno della nobiltà piacentina. L'Anguissola aveva allora trentatré anni. Aveva un volto pallido, occhi grigi, capelli castani ed una voce sommessa. Era tenace nelle sue opinioni fino all'ostinazione e rancoroso nel carattere. Per la congiura, scelse tre compagni tra i principali nobili della città, contattandoli con incontri segreti e colloqui separati. Il primo fu Camillo Pallavicino di Scipione, cugino e amico, a cui rivelò il suo intento affermando la necessità di liberare Piacenza dal Farnese. Poi seguirono Gianluigi Confalonieri ed Agostino Landi che aveva un proprio stato a Bardi. Quest'ultimo aveva il titolo di conte come l'Anguissola, mentre gli altri erano marchesi.Tessuta la tela della congiura, non rimaneva che agire. Il Duca Pierluigi Farnese si sentiva debole nella cittadella (così era chiamato il complesso del palazzo dove risiedeva e delle sue adiacenze), motivo per cui stava costruendo un castello fortificato nella zona a sud ovest della città per poterlo andare ad abitare. Pertanto, occorreva agire presto, approfittando del momento favorevole perché la guardia al ponte d'ingresso ed alla sala antistante quella del Duca era spesso ubriaca. I capitani della milizia ducale, comandati da Alessandro da Terni, erano impegnati nella costruzione del castello; inoltre i congiurati potevano contare molti loro seguaci fra i soldati. Il piano fu definito: al momento dell'azione, ognuno dei quattro doveva agire in un momento preciso; il primo nell'anticamera o camera del Duca, il secondo alla sala delle guardie, il terzo al ponte levatoio per chiudere l'accesso alla piazza ed il quarto nella città, cioè in mezzo alla gente. A quest'ultimo compito fu designato Agostino Landi, che doveva arginare la prevedibile reazione popolare. L'udienza del Duca, cioè il ricevimento della corte, si teneva alle tre del pomeriggio per cui, senza sospetto, i congiurati potevano unirsi agli intervenuti. Sebbene i capi congiura per prudenza non si fossero mai riuniti assieme, la notizia del maneggio arrivò alle orecchie del Duca, ma Pierluigi sottovalutò il pericolo. Non credeva che qualcosa potesse succedere entro poco tempo e si preoccupava che i lavori al castello progredissero. Alla vigilia dell'attentato il Duca ricevette un anonimo biglietto sul quale vi era scritta la seguente frase: “Guardati da Plac!”. Era una chiara allusione all'identità dei congiurati; infatti erano le iniziali dei loro cognomi: Pallavicini Landi, Anguissola e Confalonieri, ma il Farnese non vi fece caso o non ne capì il significato. Si dice che avrebbe avuto lo stesso avvertimento quando, durante una seduta spiritica, fu invitato a cercare il nome dei suoi nemici sulle monete del ducato dove si poteva leggere PLAC, che era l'abbreviazione del nome latino di Piacenza: Placentia. L'Anguissola volle verificare di persona la situazione e venerdì 9 settembre, si recò a corte e vide alla porta, alla sala delle guardie e all'anticamera più gente del solito. Il Duca stava per uscire con capitani, fanti e cavalieri per vedere il nuovo castello in costruzione. Giovanni Anguissola si unì a loro e accompagnò il Duca osservando i suoi passi, il suo modo di agire e le sue abitudini e capì che il giorno seguente, già stabilito per l'azione, avrebbe rifatto la stessa visita al castello. Si doveva perciò cambiare l'ora dell'attentato, prevista per la mattina, in quella del primo pomeriggio, poiché il Duca pranzava solo; poi andavano a mangiare i suoi servitori e rimanevano poche persone con lui. Così fu. Il giorno successivo, sabato 10 settembre, il Duca uscì ancora con la stessa numerosa scorta in lettiga, perché sofferente di gotta. Era stato avvisato di stare attento ed allora ordinò ad Alessandro da Terni di entrare, dopo il desinare, in cittadella con quanti soldati ritenesse, dicendogli:“Corre il topo alla zucca”. L'Anguissola vide e sentì tutto e“intrepidamente” non disse niente agli altri congiurati. Dopo aver accompagnato il Duca al castello,
Giovanni Anguissola lo riaccompagnò in cittadella e si trattenne nell'anticamera della sala delle udienze passeggiando, come se aspettasse di essere ricevuto, tanto che Camillo Fogliani e il dottor Coppalata, che lo precedevano nell'ordine di entrata, gli offrirono di lasciarlo passare. Egli rifiutò “urbanamente” l'invito; così, nel frattempo, poté fare delle segnalazioni dalle finestre dell'anticamera facendosi vedere e mandando l'ordine di agire ai compagni. Per primo arrivò Gianluigi Confalonieri, che aveva con sé sette uomini opportunamente armati, seguito, con l'intervallo convenuto, dai fratelli Girolamo e Camillo Pallavicino con altri sette. Agostino Landi invece tardava a comparire in piazza, ma finalmente giunse e si avvicinò al ponte, entrò nel nel salone a piano terra, dando l'avvio, con un colpo di pistola, all'uccisione delle guardie. Era il segnale che Giovanni Anguissola attendeva. Dopo aver spinto via il portiere, s'avventò subito alla porta e, con due soli dei suoi (gli altri sette attendevano fuori a fargli da spalla) entrarono nella camera del Duca e subito lo colpirono con spade e pugnali. Pierluigi Farnese ebbe appena il tempo di dar voce al suo sgomento dicendo: “Ah Signore, ah Conte!”. Intanto, correndo voce dell'occupazione della cittadella da parte di gruppi di congiurati, si andava raccogliendo davanti al palazzo una folla di cittadini. Accorsero anche le milizie di Pierluigi, guidate da Alessandro da Terni, che incominciarono a dare assedio alle mura cercando di scalarle. Nel frattempo suonò la campana dell'allarme e la notizia che la cittadella era stata assaltata si sparse ovunque “per cui il popolo si armò”. L'umore della folla non era favorevole ai congiurati: vennero anche sparati dei colpi contro la fortezza. A quel punto, per fronteggiare la milizia ed il popolo, i congiurati mostrarono ad una delle finestre della sala il cadavere del Duca e poi, per dimostrare che era proprio lui, gridando “Libertà, libertà a tutti”, lo buttarono nel fossato che circondava la cittadella. Fu una mossa decisiva. Nel vedere quell'orrendo spettacolo, tutti coloro che erano accorsi restarono stupefatti e si fermarono interdetti, tanto che l'Anguissola dalla finestra da cui era stato buttato il Duca poté tenere un discorso alla folla e “brevemente narrarle in quel mezzo, che con amore e pietà della Patria Madre loro comune, tratto aveva i compagni per dare morte al tiranno”. La congiura, portata a termine per interessi privati concreti e condizionamenti politici fortissimi, fu spacciata per tirannicidio in nome della libertà. La finestra dove il Duca fu esposto e poi lasciato precipitare era la seconda a lato del torrione. I congiurati chiamarono tra il popolo quelli che conoscevano e li invitarono ad entrare nella cittadella. Questo li convinse che la morte del Duca era stata fatta in loro favore. Girolamo Pallavicino e Gianluigi Confalonieri uscirono nella piazza incontro alla folla e persuasero molti della giustezza dell'accaduto. Il tumulto popolare cessò del tutto. “Ognuno fu contento di lasciare l'arme e di attendere quietamente alli fatti suoi: parve meraviglia vedere un popolo grande tutto in arme et in tumulto levato, quietarsi quel giorno istesso.”Il tesoro del Farnese, argenti e 15.000 scudi d'oro (chiusi in una cassaforte sotto il letto) furono portati via “per essere resi a coloro a cui spettavano”. Per finire, fu convocato il Consiglio e la maggior parte della città fu radunata nella Chiesa di San Francesco, dove il conte Anguissola tenne una lunga orazione in favore dell'imperatore Carlo V che fu approvata dai presenti. Poi l'Anguissola incontrò Don Ferrante Gonzaga, governatore di Milano, che era entrato in città alla testa delle sue truppe per sottrarre il ducato all'influenza papale. Costui, il terzo giorno dopo la morte del Duca lesse pubblicamente i Capitoli Imperiali e lodò l'integrità dei congiurati. Barnaba Dal Pozzo ripescò il corpo del Duca, lo lavò, lo rivestì di seta a due colori e lo portò nella vicina chiesa di Santa Maria degli Speroni all'imbrunire della sera. Il cadavere venne messo in una nuda cassa di legno con a fianco quattro torce accese. Giorni dopo, Don Ferrante volle aprirla alla presenza di ufficiali e cavalieri piacentini; fece mettere il corpo in una nuova cassa ben chiusa e riportante il suo sigillo, sopra la quale fu messo un drappo in velluto nero con una gran croce di broccato d'oro. La bara fu affidata ai padri di Santa Maria di Campagna che la tennero in un antro a destra dell'altare maggiore. Dopo un po' di tempo, per ordine di Don Ferrante, la cassa fu portata a Parma per essere restituita alla vedova di Pierluigi Farnese, Gerolama Orsini, che l'aveva richiesta. Testimonianza resa da Francesco Mancino, alias Prete Cecco, già familiare di Pierluigi Farnese Duca di Piacenza e Parma, nel processo agito dal Tribunale del Governatore di Roma per l'uccisione dello stesso Pierluigi. (Resa a Roma il 3 agosto 1549). Io me retrovai in Piacenza nella cittadella, in camera di sua excellentia, alli dieci di septembro del'anno 1547, circa le sedici ore et meza (alle 13 e 30), como adiutante di camera che io ero di guardia, da poi che sua excellentia hebbi pransato; dove che Iulio Petrutii, suo maestro di camera, faceva ambasciata ad sua excellentia che li voleva parlare il signor Camillo di Foyano et messere Cupellata; li quali introrno et parlando con sua excellentia lo accinnò (gli fece un cenno) a l'orecchia che voleva parlare di segreto, in quello me ritirai fuori di quella camera nella anticamera dove trovai messere Francisco Monterchio secretario, quale me disse che io dovesse fare la imbasciata a sua excellentia che li voleva parlare et io li resposi che ce erano con sua excellentia li prenominati, il signor Camillo et messere Iulio Cupellata, in quel istante, stando cossì ad ragionare insieme in camera audimo rumore da basso che si tirò su il ponte et una archiubusta alla porta della citadella et critare: “Amaza, amaza”; et in quel instante sentì rumore in camera et in sala, in tre lochi, et subito che io non lo potria exprimere che io corse per la mia spada quale era in una tavola sopra la thesoreria et voltandome per la paura et terrore viddi illì due lanzi (lanzichenecchi) morti et Mariano portiero, quali furono amazati da circa diece di coniurati, quali non cognosco per nome, ma ad vista la più parte; et il conte Iohanne Anguissola con Iohanne Spagnolo, suo adherente, intorno in camera dove era sua excellentia con spada ignuda et quelli amazorno il duca, secondo intese poi dire publicamente et secondo me disse il signor Camillo di Foyano, quale ce era presente et fu ferito a morte nella intrata della camera delli due prenominati; poi veddi il duca morto in terra di molte ferite in testa, quasi tre in una, con un pezzo di codena (cotenna, cuoio capelluto), con il cervello interra et quasi moza la gola, con un pezo di barba cascata in terra; et dallì ad pocho veddi un Iosef del Pozo con delli altri, quali conoscevo ad vista, ma non so li nomi, che si adaptorno ad pigliare quello meglio che a loro pareva et particularmente detto Iosef che scassò li forzieri della postcamera et levava quello che a lui pareva; et tra gli altri cognobbi il signor Camillo, signor Alexandro et signor Hieronimo di Scipione di casa Pallavicino, tutti tra fratelli et tutti adferenti ad fare il male, il conte Agostino de Lando, Iohanne Aloysi Confaloniero et il cavalliere Panero et molti altri coadferenti (complici)che io non me ne recordo, dallì ad poco sentirno la militia di fuora, la quale veniva per dare assalto in adiuto del duca. Et il signor Alexandro da Scipione dalla camera del duca se fece alla fenestra et disse alli altri compagni: “O corpo de Dio, questoro se daranno la stretta”; et illì disse al populo che cosa andavano facendo, che se ne andassero a casa, che loro havevano amazato il tiranno in bene del publico; et cossì voltandosi l'uno con l'altro se deliberorno buttare il duca per la fenestra et lo buttorno; et lo prese di terra di camera, abanti fusse buttato, Franceschino Malvicino, già cavallegiero di sua excellentia; cossì lo buttorno giù et in quel instante, o dallì ad pocho, il signor Camillo sopradetto cossì ferito fu determinato mandarlo a casa, dove io andai insieme con lui perfino alla porta della citadella.”

Una Gelida Vendetta

A metà pomeriggio di una tiepida domenica di maggio, Filippo Farnesi, non sapendo cos'altro fare, pensò di uscire di casa per andare in centro a prendersi un caffè. Penny, la donna con cui viveva, era andata con la figlia a Milano per assistere ad un concerto di Ligabue, del quale aveva acquistato da tempo i biglietti d'ingresso. La figlia di Penny, appena tredicenne, si chiamava Katy. Erano partite in auto verso mezzogiorno, anche se il concerto avrebbe avuto inizio nel tardo pomeriggio, perché volevano assaporare il clima d'attesa di quello straordinario evento ed in questo atteggiamento era maggiore la frenesia della madre rispetto a quella della figlia. Penny era divorziata ed aveva avuto Katy dal precedente matrimonio. Naturalmente, il vero nome della ragazza era Caterina e non c'era nessun motivo per storpiarlo a quel modo, mentre sua madre un buon motivo ce l'aveva per farsi chiamare Penny, perché il suo vero nome era Penelope. Lei e Filippo si erano conosciuti nell'ambiente bancario dove lavoravano entrambi. Lui era funzionario del settore Titoli e Penny addetta alla Segreteria Generale. Entrambi erano sulla quarantina. Si erano frequentati per quasi un anno, prima di decidere di vivere assieme. Filippo era soddisfatto di quel menage. Penny era carina e spiritosa e le sue attenzioni l'avevano conquistato, stanco com'era di rapporti con donne precipitose e confusionarie. Filippo non aveva voluto andare al concerto perché non era interessato all'evento e si sarebbe sentito come un pesce fuor d'acqua nel trovarsi intruppato in quella marea di persone vocianti, per lo più giovani. Così, pensò di concedersi un pomeriggio tranquillo: prese dal freezer una porzione di lasagne, le sgelò nel microonde e pranzò con quelle e con una fetta di torta di mele che Penny aveva fatto il giorno precedente. Poi si portò il bicchiere del vino con cui aveva accompagnato il pranzo in salotto e prese a centellinarlo mentre leggeva il giornale seduto in poltrona. Gli occhi gli si chiudevano. Sbadigliò un paio di volte e si addormentò con la testa appoggiata allo schienale. Il giornale gli scivolò dalle mani e finì a terra. Dopo nemmeno mezz'ora, lo svegliò il suono del telefono. Era Penny. “Pippo, caro. E' fantastico! Lo stadio apre i cancelli alle cinque e c'è già una marea di gente davanti all'entrata. Pensa, c'è anche qualcuno che è arrivato ieri da San Benedetto del Tronto ed ha dormito in sacco a pelo sul piazzale.” “Che ore sono?” Non so. Saranno le tre. Scommetto che stavi dormendo. Ti ho svegliato? Filippo si mise la giacca, scese in garage e tirò fuori la sua bicicletta. Dall'inizio dell'anno l'aveva usata si e no due o tre volte. La sella era impolverata e lui la pulì con un fazzoletto. Uscì in strada e si mise a pedalare pigramente verso il centro. La giornata era tiepida e le strade erano quasi deserte. Arrivato sul viale, lo percorse fino in fondo e poi svoltò sul Corso alla ricerca di un bar aperto per prendere un caffè. Era piacevole poter girare senza fretta nelle vie del centro fino ad arrivare nella bella Piazza dei Cavalli, lontano dalla frenesia che solitamente occupava le sue domeniche trascorse sull'autostrada che portava al mare. Il cellulare di Filippo squillò sull'aria di “Va pensiero”. Era Penny. Gridando per farsi sentire, la donna gli disse che l'aveva chiamato sul telefono di casa e lui non aveva risposto. “Dove sei? Cosa stai facendo? Volevo ricordarti che ci sono dei panni stesi ad asciugare fuori dalla finestra del bagno. Una tovaglia, la mia vestaglia da notte ed un paio di jeans di Katy. Se vedi che sta per piovere, tirali dentro!” Filippo le chiese a che ora sarebbe tornata, ma lei non seppe dare una risposta precisa perché bisognava vedere come sarebbero andate le cose; quanto sarebbe durato lo spettacolo e quanto tempo ci sarebbe voluto per rientrare tra il traffico. Quelle però per Penny erano piccole difficoltà davanti alla soddisfazione di poter dire: “Io, al concerto di Ligabue, c'ero!” L'indomani l'avrebbe annunciato a tutti su Facebook. Filippo raggiunse il Balzer, l'elegante locale che si affacciava alla piazza per prendere il famoso caffè ma, appena entrato il cellulare squillò di nuovo. Ancora Penny. “Pippo, caro, mi sono dimenticata di innaffiare i fiori? Potresti farlo tu?” Bruscamente rassicurò la compagna che senz'altro avrebbe provveduto e chiuse la comunicazione. Odiava essere chiamato Pippo. Si avvicinò al banco e diede uno sguardo al locale nel quale era entrato soltanto un'altra volta, anni prima. Ai tavoli, le signore prendevano tè e pasticcini. L'atmosfera era quieta e le ragazze addette al servizio camminavano serie con i loro vassoi in mano. Mentre Filippo stava aspettando il suo caffè, posò lo sguardo su di un vetro del locale dove era appesa una locandina che reclamizzava i Musei Farnesiani che di domenica si potevano visitare dalle 9,30 alle 13 e dalle 15 alle 18. Che idea! pensò Filippo. Potrei andare a fare una visita a Palazzo Farnese! Erano solo le quattro ed avrebbe avuto tutto il tempo occorrente. Così avrebbe anche potuto cancellare una lacuna di cui quasi si vergognava: quella di non essere mai stato nel maggiore museo cittadino. Con la sua bicicletta, attraversò la piazza e percorrendo la via Cittadella, in due minuti si trovò davanti al grande palazzo cinquecentesco che era stata la dimora dei duchi Farnese. Filippo provò un moto di tenerezza. Lui di cognome si chiamava Farnesi e, facendo riferimento ad una coincidenza a cui non aveva mai fatto caso, si disse che era possibile che vi fosse una qualche relazione tra sé e la famiglia dei duchi che poteva aver portato, nel corso dei secoli, al cambiamento della desinenza di quel cognome. Pensò che gli sarebbe piaciuto visitare la Pinacoteca dove si trovavano bellissimi dipinti di grandi dimensioni che erano opera di pittori famosi, oltre a quelli che celebravano i fasti Farnesiani, ovvero magnificavano gli splendori della casata, per non parlare della famosa “Madonna adorante” del Botticelli. Ma si, pensò ancora Filippo, perché non interessarsi un po' anche all'arte? E senza andare chissà dove, perché anche stando in città c'erano tante cose belle da vedere. Chissà come sarebbe rimasta stupita Penny quando le avrebbe raccontato di quella sua visita. Lei che sbandierava sempre il suo interesse per le iniziative culturali, andava a vedere Ligabue, mentre lui dimostrava, almeno per quel giorno, di avere davvero una maggiore sensibilità. Certamente, non sarebbe stata una visita approfondita, ma una certa idea se la sarebbe fatta. Il Palazzo Farnese, era attorniato da voli di rondini che lo rendevano simile ad una visione antica. Gli uccelli volavano in cerchio lanciando le loro acute grida. Era un vero spettacolo, ma Filippo non ne intuiva lo scopo. L'unica ragione a cui poteva attribuire quel volo corale era un'espressione di gioiosa vitalità. Il cellulare si mise ancora a suonare, ma stavolta Filippo fece finta di non sentire, prendendo la scusa del chiasso che facevano le rondini. Lasciò la bicicletta, entrò nel cortile del palazzo e salì i gradini che portavano al loggiato del piano rialzato dove si trovava la biglietteria dei Musei. Entrò nell'ampia sala e vide che, sulla destra, una porta dava sul Museo delle Armi Antiche, del quale Filippo ignorava l'esistenza.Incuriosito pensò di darvi un'occhiata. Là vi era una raccolta di lucenti armature del XVI secolo che occupava il centro del salone, oltre a rastrelliere con picche ed alabarde ed a vetrine contenenti armi da fuoco. Filippo incominciò a passare in rassegna quelle che non erano soltanto armi, ma splendidi lavori di artisti e cesellatori. Le armature splendevano nella loro cupa fierezza: le corazze, gli elmi ed i gambali erano montati su manichini che ricostruivano la loro originale funzione di proteggere gli antichi guerrieri che, nella ricostruzione, mostravano fieramente le loro lunghe spade da combattimento. Ogni oggetto esposto era contraddistinto da un cartellino che ne spiegava il funzionamento, la data di fabbricazione e la provenienza. Filippo incominciò a passare in rassegna queste bellissime realizzazioni ed indugiò ad ammirare una spada jatagan la cui impugnatura finemente cesellata era attribuita a Benvenuto Cellini. La sua attenzione era fissata sulla parte bassa della sala ma, quando arrivò alla parete di fondo, alzò lo sguardo vide qualcosa di straordinario. Sul muro di fronte vi era appeso un grande quadro. Quando Filippo lo vide, sentì mancargli il respiro. Vi era raffigurata una scena drammatica: un gruppo di uomini armati era entrato all'interno di quella che sembrava la sala di un castello ed avevano colpito con spade e pugnali un uomo che ora giaceva a terra e che, con un braccio alzato, cercava di difendersi, ma si capiva che la sua sorte era ormai segnata. Il realismo di quella scena colpì fortemente Filippo che restò a lungo a guardarla, sgomento ed affascinato al tempo stesso. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle figure e le passava in rassegna ad una ad una scoprendo ogni volta nuovi aspetti di quel fatto di sangue. Scorgeva la disperazione nel viso dell'uomo steso a terra, l'atteggiamento tracotante dei suoi aggressori, lo sgomento dei presenti. Doveva sicuramente trattarsi della descrizione di un fatto storico realmente accaduto e Filippo, con l'animo in affanno, si avvicinò a leggere la targhetta che conteneva la descrizione di quella tela. Era un dipinto di Lorenzo Toncini, realizzato nel 1833 dal titolo “L'uccisione di Pierluigi Farnese.” Dunque, si trattava dell'assassinio del Duca di Piacenza avvenuto nello stesso palazzo dove Filippo si trovava in quel momento. Da una finestra sul fondo del dipinto si scorgeva la torre del Duomo di Piacenza. Perché Filippo fosse stato colpito così fortemente da quella scena, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui, ma subito sentì il desiderio di conoscere a fondo il contenuto di quel quadro come se avesse avuto un interesse personale allo svolgimento di quel fatto così crudelmente raffigurato. Come se quella persona stesa a terra, il Duca, lo chiamasse a sua difesa prima che la vita lo abbandonasse. Nella fissità del suo sguardo c'erano disperazione e sorpresa, perché a Filippo pareva chiaro che gli assassini avevano agito a tradimento. Tutto lo dava ad intendere. C'era stata senz'altro una congiura, ma perché il Duca si era lasciato sorprendere a quel modo? Non aveva delle guardie che potessero difenderlo? O erano state le sue stesse guardie a tradirlo? Filippo avvertì un capogiro e per un attimo vide solo buio. Si scosse e si mise una mano sulla fronte per coprirsi gli occhi. Il suo respiro si fece affannoso. Ecco, pensò. La sindrome di Stendhal mi ha preso. Non riuscì a proseguire la sua visita. Uscì dal palazzo con l'animo in tumulto e si trovò di nuovo in strada. Le rondini volavano ancora tutt'intorno, ma lui non le vedeva né le sentiva. Non capiva che cosa gli stesse succedendo. Perché era rimasto così sconvolto dalla rappresentazione di un fatto avvenuto secoli prima? Forse perché aveva provato pietà per quell'uomo steso a terra in balìa dei suoi assassini. Rivedeva il Duca fare quel gesto disperato per difendersi, rivedeva il terrore nei suoi occhi, mentre capiva che per lui non c'era più speranza. Quell'uomo non voleva morire, ma sapeva che sarebbe accaduto. I suoi vestiti erano rossi del sangue delle ferite che aveva subìto e per lui non c'era più salvezza. Oh Dio! Che brutta fine aveva fatto! Non sapeva niente di quell'uomo ma, immedesimandosi in lui, si sentì pieno d'angoscia. Filippo riprese la bicicletta e si allontanò pedalando come un automa. Percorse il tratto di strada che costeggiava la scuola Mazzini fino all'incrocio con viale Risorgimento. Non sapeva dove stesse andando, non vedeva la strada. Attraversò l'incrocio senza badare al traffico. In quel momento, il cellulare si mise a squillare. Filippo fece per prenderlo dalla tasca. Qualcuno gridò: “Attento!” ma era troppo tardi.. Ci fu uno stridio di freni e Filippo fu travolto e buttato a terra da un fuoristrada proveniente da sinistra. Il cellulare rotolò lontano. Dal buio più profondo, apparve una luce bianca, accecante. Non poteva sopportarla e pensò di chiudere gli occhi per non vederla, ma i suoi occhi erano già chiusi. La luce si spense di colpo come era apparsa e tornò l'amico buio. Poi un ronzio leggero gli attraversò la mente e con esso arrivarono delle luci gialle che andavano e venivano. Bagliori improvvisi che si spostavano in continuazione wap, wap! Il ronzio crebbe sino a diventare una serie di voci che si sovrapponevano l'una all'altra. Voci di persone che parlavano contemporaneamente dicendo frasi incomprensibili. Ancora un lampo di luce e tornò il buio. Ed il silenzio. Un silenzio profondo, scintillante di stelle lontane ed irraggiungibili. Perché, perché? Si sentiva proiettato verso l'estremo confine dell'universo. Non era una musica, piuttosto una cantilena che sentiva avvicinarsi per abbracciare la sua anima. Naah, naah. La cantilena era là. Il buio si sciolse ed apparvero dei volti di persone che si muovevano a scatti, come per formare un caleidoscopio. Naah, naah. Non poteva evitare di vederli e di sentire le loro voci confuse. Bisbigli, grida. Movimenti, urla, ancora oscurità. Dolore acuto, non respiro.. Non voglio vedere quelle facce, non voglio sentire le loro voci! Voglio tornare a sognare stelle o prati in fiore, perché il mio sogno non può finire così. Si, sto sognando e sono sicuro che presto mi sveglierò per ritrovarmi nel mio letto bianco come quando ero bambino. Ma se non fosse un sogno, cosa potrebbe essere? Mio Dio, mio Dio! Cos'è successo? Il Duca era steso a terra, il suo viso era bianco ed atterrito e le sue mani si protendevano a difendersi dai pugnali, ma non implorava pietà, perché un duca non implora. Il suo vestito era sporco di sangue e sangue gli usciva dal collo e dal petto, ma lui sperava di poter vivere finché i suoi assassini avrebbero smesso di colpirlo. Di colpo voltò il capo verso di me che mi trovavo nella stessa stanza in cui era stato assalito e mi vide. Puntò il dito verso di me e mosse le labbra pronunciando il mio nome: “Filippo!” I suoi aggressori svanirono ed io restai solo con lui. “Filippo!” mi disse: “Sii la mano della mia vendetta!” Allungai la mano fino ad incontrare la sua e gliela strinsi. Sentii un brivido che mi attraversò tutto il corpo. Quando la ritrassi, vidi che era sporca del suo sangue. “Vendicami di Plac! Ricordati Plac,!”, disse ancora il Duca, “perché sei sangue del mio sangue!” Filippo si era addormentato cercando di ricordare il suo sogno e quando si svegliò, qualche tempo dopo, non smise di pensarci. Aprì gli occhi e mise a fuoco per un istante il volto angosciato di Penny, pallido e incorniciato dai capelli neri. Vederla così spaventata faceva paura persino a lui. Tese la mano verso di lei, poi svenne, tornando nel suo mondo buio. Avrebbe voluto non svegliarsi più per non sopportare gli stimoli esterni e per evitare la presenza di Penny che in quel momento incombeva su di lui. Cercò di ricordare. Le parole gli vennero incontro e si depositarono chiare nella sua mente. “Tu sei sangue del mio sangue!” Quelle erano le parole che gli aveva detto il Duca e che ora riempivano i suoi pensieri. “Tu sei sangue del mio sangue!” Il sangue che ricopriva i suoi vestiti. Il sangue del tradimento che aveva subìto e che Filippo aveva visto sgorgare dalle sue ferite in quel drammatico dipinto. Ma il Duca gli aveva parlato. Quale angoscia gli aveva procurato quel momento! Non poteva staccare il suo pensiero dal viso di quell'uomo che lo implorava. Quale erano le altre parole che il Duca aveva detto? Le parole, le parole.. Quando riaprì gli occhi, la stanza era buia e Penny non c'era più. Non era mai stato tanto stanco. Ed assetato. Dopo qualche minuto, cominciò a rendersi conto che si trovava in ospedale. Non aveva sensazione delle proprie condizioni, ma vedeva che era monitorato da una strumentazione e che aveva un ago alimentato da un tubo infilato nel braccio. Da quel momento non pensò più alla fastidiosa sensazione di vuoto che gli prendeva la schiena e lo stomaco. Si concentrò tentando di ricordare. Una frase. L'unica capace di dare un senso alla sua vita. Quali erano le parole. Le parole. Quali erano? Perse di nuovo i sensi. Quando si risvegliò vide un'infermiera sudamericana. “Acqua”, sussurrò.” “Sciacqua bocca e sputa”, disse la donna. “Sete.” Sciacqua e sputa.” L'infermiera gli spruzzò in bocca il contenuto di una bottiglia di plastica. “Non ingoiare.” Ingoiò e vomitò. L'infermiera lo ripulì sbuffando. “Non mi sento le gambe” disse Filippo. “Me le hanno amputate?” “No. Sei solo stanco.” “Oh.” Le parole. Quali diavolo erano? Per favore, Vergine Immacolata, fa che io ricordi.. Quando l'infermiera uscì, cercò di radunare le idee che correvano nella sua mente senza che potesse controllarle. Cos'era successo? Perché si trovava in ospedale? Non ricordava niente dell'incidente, ma si frugò nella mente alla ricerca dell'ultimo ricordo che aveva. Era in viaggio? Era in ufficio? Forse era successo qualcosa quando era andato a fare jogging? Le gambe.. Non sentiva più le gambe. Allungò la mano per toccarsele, ma si accorse di avere il braccio ingessato. Oh, Dio! Cosa mi è successo? Seduti davanti a lui c'erano due uomini. Filippo li guardò e sorrise. Entrambi avevano un camice bianco ed un cartellino appuntato sul petto. “E' in stato di vigilanza.” Quello che aveva parlato era un tipo biondo con la mascella sottile. Pareva che fosse sorpreso dal fatto che Filippo si fosse svegliato. “E' in grado di parlare?” gli chiese l'altro. Filippo assentì col capo. “Come si sente?” “Mi pizzica una gamba.” “Ah. Immagino che lei non ricordi nulla di quello che le è capitato.” Filippo scosse la testa. Il secondo dottore era un uomo massiccio, sulla quarantina con capelli folti e neri. Aveva una buona forma fisica ed avambracci muscolosi. Filippo pensò che si trattasse di un ortopedico. L'uomo avvicinò una sedia al letto, si sedette e si presentò. Si chiamava Guglieri. Prese in mano la cartella clinica e la esaminò per un tempo che a Filippo parve molto lungo. Chiuse la copertina metallica della cartella e disse: “Intendo parlarle delle sue lesioni, spiegarle esattamente che cosa è successo, come siamo intervenuti e che cosa faremo.” “D'accordo.” “Lei è stato investito da un autoveicolo mentre attraversava la strada domenica scorsa, due giorni fa. Oggi è martedì. Ricorda qualcosa?” Filippo scosse il capo. Non ricordava niente. Due giorni fa? Dov'era stato per tutto quel tempo? Era stato investito: naturalmente un incidente. Era ferito gravemente, altrimenti non sarebbe stato attaccato ai macchinari e ad un respiratore. Ed aveva una flebo che lo ingrassava di zuccheri. Ma non c'era problema: era ancora vivo. Adesso sentiva un meraviglioso dolore alle gambe. Se fosse rimasto paralizzato, non avrebbe sentito nulla. “Signor Farnesi, lei ha subito un trauma cranico, la frattura di un braccio, tibia e perone della gamba destra e di due dita della mano sinistra. abbiamo pensato di metterla in cura dal dottor Weiser, uno dei migliori neurologi di questo presidio sanitario, specializzato in lesioni. E' stato molto fortunato, avrebbe potuto morire o restare paralizzato.” Il dottor Guglieri si alzò. Posò la cartella clinica e rimise la penna nella camicia. “Il dottor Weiser è molto più esperto di me. Non troverà uno specialista migliore. Più tardi verrà un'infermiera che le fisserà un appuntamento.. Ora non ci resta che sistemare quella gamba. Dovremo operarla di nuovo, sa?” “La gamba?” “Le è passata sopra la ruota di un Suv, capisce?” Sorrise e strinse la mano a Filippo. “Faremo il possibile per lei. Non si preoccupi di nulla.” L'altro medico prese a sua volta la cartella clinica e la aprì. Dopo averla sfogliata, la rimise giù. Si sporse in avanti e con una penna luminosa esaminò gli occhi di Filippo. Gli chiese di guardare il suo dito mentre tracciava un otto nell'aria, poi di allungare il braccio e di toccarsi il naso. Filippo obbedì. “Bene” fece il dottore, anche se non significava né bene né altro. Poi gli domandò: “Ha avuto allucinazioni?” “Credo di aver sognato.” “Non sono la stessa cosa. Le allucinazioni sono tipicamente conseguenza di un certo tipo di danno alla corteccia visiva che il cervello produrrebbe per darvi coerenza.” “Sembrava tutto così reale..” “Certo. La percezione è quella, ma vedrà che seguendo una cura farmacologica, le cose andranno a posto.” Non c'è niente da rimettere a posto, pensò Filippo. Lui aveva visto ed udito le parole. Chiuse gli occhi e si vide seduto su di una spiaggia. Il cielo era buio e le onde del mare si infrangevano sulla riva portando con loro dei sussurri che si ripetevano continuamente. Ecco che vengono, pensò Filippo. I sussurri ad ogni ondata si facevano sempre più comprensibili. “Vendicami, vendicami..” Le parole stavano arrivando, finché un'onda lo travolse. “Vendicami di Plac!” Ecco quali erano le parole! Gli si rizzarono i capelli ed il cuore riprese a battere come un tamburo. Espirò lentamente e mormorò una breve preghiera di ringraziamento. Solo allora si accorse che il dottore non era più nella stanza. La luce filtrava tra le sue palpebre. Gli parve di vedere un volto conosciuto, ma non era l'infermiera sudamericana, né quell'altra molto più carina che aveva visto una sola volta. Sentì una voce: “Pippo! Mio Dio! Ti sei ripreso. Parlami, dimmi qualcosa. Sono tre giorni che non mi rispondi. Mi riconosci?” Penny, naturalmente. “Pippo, non puoi sapere quanto siamo stati in ansia per te. Figurati! Mi chiamano e mi dicono che sei stato investito ad un incrocio e che sei in coma! Cos'è successo? Com'è potuto accadere? Dove avevi la testa in quel momento? Ti rendi conto? Sono tre giorni che sei assente ed io sono rimasta vicino al tuo letto per tutto questo tempo sperando che riprendessi conoscenza. Non dormivo, non mangiavo, ti chiamavo continuamente, perché mi hanno detto che una voce amica può fare miracoli sull'inconscio, quando si è prigionieri del coma. Pippo caro, ho provato anche a farti sentire un CD di Ligabue sperando che ti svegliassi perché dicono che la musica stimola i riflessi sensoriali. Finalmente però ti sei svegliato, ma ce ne è voluto! Adesso, mi vedi? Non parlare se non puoi, ma fammi un sorriso ed io capirò che sei uscito dall'incubo e che tutto tornerà come prima.” Filippo sorrise. “Bravo” disse Penny. “Però che cosa ci facevi tu a quell'ora in quel posto, non me lo hai neancora detto. Capisco che tu non ti ricordi nulla dell'incidente: il trauma, lo choc e tutto il resto, ma ti ricorderai di essere uscito di casa in bicicletta. Dove sei andato?” Tre giorni dopo, Filippo fu portato in Neurologia per l'esame cerebrale ed una visita accurata. La visita durò quasi due ore. Quando fu riportato in reparto, Penny volò nell'ufficio della Professoressa Pascoli che aveva effettuato gli esami per chiedere notizie sull'esito.. Le notizie non furono buone. L'incidente ed il trauma cranico avevano causato lesioni cerebrali che avrebbero potuto influire sul suo comportamento. “Suo marito” chiese la dottoressa a Penny, “non ha mai avuto sintomi di schizofrenia?” “Coosa? Schizofrenia? Non mi vorrà dire che Pippo è schizofrenico!” “Alcuni sintomi potrebbero indicarci questa patologia.” “Ma lui è una persona posata e responsabile. Da che cosa si capisce se uno è schizofrenico?” “I pazienti schizofrenici a tratti percepiscono la realtà in modo diverso dagli altri, ovvero in modo distorto a causa di sintomi quali le allucinazioni. Ad esempio, sentono voci che provengono dall'interno che nessun altro sente. Dato che vivono in una realtà distorta, possono sentirsi spaventati, ansiosi, confusi e tendono ad isolarsi. Possono anche comportarsi in modo diverso in occasioni diverse, a causa del modo alterato in cui vivono la realtà.” “Ma lui non si è mai comportato così.. Almeno prima dell'incidente.” “L'incidente potrebbe non centrarci per niente oppure aver avuto un ruolo devastante. I soggetti con schizofrenia spesso non presentano una normale fluidità dei pensieri. Spesso, manifestano un appiattimento dell'affettività.” “Beh, allora un po' schizofrenico lo è sempre stato” commentò amaramente Penny. La camera di Filippo, al Centro Recupero e Rieducazione Funzionale era piena di fiori. Penny arrivò con pacchi e pacchettini contenenti dolci e cioccolatini. “Allora, come va?” “Così..” “Dall'aspetto, mi pare che ti stia un po' riprendendo. L'ultima volta che ti ho visto eri più pallido. Ma dormi? Mangi? Io li conosco i posti come questo: una minestrina e via! Uno che ha subito un incidente come il tuo ha bisogno di calcio, ferro e potassio per le ossa ed i nervi. Di proteine, ma sopratutto di carboidrati per ricostruire il tessuto muscolare. Eh perbacco! L'uomo non vive solo di flebo! Tu già non eri un campione di vitalità prima che succedesse la tua disgrazia, figuriamoci ora!”
Filippo era grato a Penny per queste sue attenzioni, ma non poteva cambiare il suo carattere. Lei prese una sedia e si sedette vicino al letto. Indossava una giacchetta beige sopra un top accollato nero. Pantaloni firmati di lino e scarpe nere a tacco alto. Penny era sempre elegante nel vestire. “Cosa dicono i dottori? Ne avrai ancora per molto?” Filippo fece un gesto vago. “Sai com'è. Si va per le lunghe. La gamba ancora non me la sento.” “Beh, poco per volta.” “Forse resterà paralizzata.” “Non dire così. Sembrava che le tue operazioni fossero andate bene..” L'Ospedale svolgeva attività di riabilitazione intensiva e vi erano ricoverate persone con patologie neuromotorie invalidanti. “Adesso vogliono mettermi in piedi, ma poi dovrò fare esercizi in piscina per la riabilitazione in acqua ed in seguito esercizi in palestra.” “Ti è davvero capitata bella! Tutti questi fiori chi te li ha mandati? I tuoi colleghi della Banca? Tutti mi chiedono notizie di te, perfino il Vice Presidente.. Come si chiama? Gallotti. Però adesso stavo pensando che dovrò disdire l'hotel a Santa Margherita. A luglio certamente non sarai ancora a posto, vero?” “Perché? Potresti andarci ugualmente con Katy.” “E lasciarti qui da solo? Non ci penso neanche. E poi Katy non ci vuole venire al mare. Per lei, andare al mare in albergo è una vacanza da vecchi.” “Beh, ma puoi andarci con tua sorella. Santa Margherita non é
mica in capo al mondo. Io qui non ho bisogno di niente e se ci fosse qualcosa, c'è sempre il telefono.” “Dici? Sei sicuro?” “Ma certo..” “Beh, vedremo. Katy ti saluta.” “Cosa dice?” “Di quello che ti è capitato? Niente. Lei ha altro per la testa. Pensa: adesso sta progettando di andare in America con le sue amiche. Sarebbe un viaggio organizzato che va da una costa all'altra, da New York a San Francisco! D'accordo che andrebbero con un'agenzia, ma in fin dei conti ha solo tredici anni. Che brutta età! Per il resto, scusa se te lo dico, ma va dicendo che la casa senza di te è più vivibile.” “Penso che non abbia tutti i torti.” “Invece io penso che, sotto sotto, tu le manchi. Anche se non è tua figlia, ti si è affezionata. Eh, un uomo in casa fa sempre piacere averlo.” Penny abbassò la voce e fece gli occhi dolci. “E manchi tanto anche a me, caro..” Gli prese una mano e se la portò alla guancia. “Il mio Pippo!” Filippo ebbe un attimo di commozione. “Penny..” “Dimmi se hai bisogno di qualcosa e te la farò avere.” Filippo stette un poco a pensare. “Si. Una cosa ci sarebbe.” “Bene. Che cosa?” “Vorrei qualche libro da leggere.” “Giusto! Che stupida, non ci avevo pensato. Mi hanno detto che è molto bella la trilogia di quello scrittore svedese..” Filippo scosse il capo. “Ascolta. Vorrei dei libri su un argomento specifico: l'uccisione di Pierluigi Farnese.” “Uccisione di chi?” “Pierluigi Farnese, Duca di Piacenza” “Oh bella! Quand'è successo?” “Nel cinquecento. Vai in biblioteca e chiedi se hanno qualcosa che parli di quel fatto. Portami tutto quello che trovi.” Penny lo guardava stupita. “Chi era? Un tuo parente?” “Semmai, antenato.” “Pierluigi Farnese, eh? Dovrò scrivermelo.” Era rimasta veramente perplessa a quella richiesta. Forse pensava che fosse un sintomo della schizofrenia di cui le aveva parlato la professoressa di neurologia. “E poi” continuò Filippo, “dovresti chiedere un favore al ragionier Piccoli.” “Quello dei conti correnti?” “Si, quello. Sua moglie lavora all'Archivio di Stato. Dovresti chiedergli se mi può fare una ricerca sui discendenti di questo Pierluigi Farnese, dal cinquecento fino ad oggi. Vedi se riesce a tirar fuori qualcosa di un ramo della famiglia Farnese che sia rimasto a Piacenza. Hai capito?” Penny era sconsolata. “Pippo! Sarà meglio che mi scrivi tutto, perché io non ci capisco niente.” Con quei continui esercizi gli si irrobustivano i bicipiti. Si tirò su di due centimetri. Incominciò a sudare.
Un'altra forte trazione, altri due centimetri. Inspirò profondamente e si aggrappò di nuovo alla sbarra. Un centimetro. Si fermò un minuto per asciugarsi le lacrime dagli occhi, mentre il cuore gli batteva con furia per lo sforzo. Aveva il viso paonazzo e grondante di sudore. “Beva un po' d'acqua, adesso.” L'infermiera fece il giro del letto ed allungò la mano verso una bottiglietta di plastica piena a metà. Filippo la fermò: “No! Non la tocchi!” “Perché?” si stupì la donna. “Mi arrangio da solo”. “Come vuole”. Mentre Filippo si voltò a prendere l'acqua, l'infermiera buttò un occhio su un block notes che era sul letto. A grandi lettere vi era scritto: “Vendicami di Plac!” “Cosa significa?” chiese l'infermiera additando il foglio a Filippo che si era rialzato. “La vendetta mantiene le ferite sempre sanguinanti” rispose lui con un misterioso sorrisetto sulle labbra. Scese un silenzio imbarazzante. “Si sente bene?” disse lei. “Bene. Sto bene.” Altro silenzio. L'infermiera si scosse e rivolse la sua attenzione ai fiori. Li controllò e versò un po' d'acqua in alcuni vasi. D'altronde, pensò, è stato in coma per due giorni.. I giorni passavano. “Come va?” chiese Penny entrando nella stanza. “Dannazione!” esclamò Filippo sobbalzando. “Mi hai spaventato.” Era tutto piegato da una parte mentre tentava di raccogliere qualcosa dal pavimento. “Problemi?” Penny girò attorno al letto. Filippo stava cercando di raccogliere una penna che gli era caduta. No, non era una penna, ma una siringa. “Eccola, la prendo io.” La donna si chinò, recuperò l'ago e si diresse verso un cestino di plastica con scritto: “Solo siringhe usate.” “No!” gridò Filippo. Penny si fermò e guardò Filippo, stupita. “Dovevo farmi un'iniezione.” “Tu? Non tocca all'infermiera?” Filippo fissò l'ago per qualche secondo. “Sai, devo fare allenamento. Dovrò farmele da solo quando non sarò più in ospedale.” Penny alzò le spalle. “E' caduta sul pavimento.” La gettò nel cestino. Filippo non alzò gli occhi dal contenitore. Sembrava disperato. “Ne chiedo una pulita.” Penny allungò la mano verso il pulsante per chiamare l'infermiera. Filippo sbraitò: “Mi arrangio io più tardi!” “Come vuoi.” Scese un silenzio imbarazzante. “Come stai?” “Sto bene.” Altro silenzio. “Andavano bene i libri che ti ho portato?” “Solo uno. Gli altri sono lì. Te li puoi riprendere.” “Va bene, ma ricordati che devo restituirli tutti alla biblioteca.” “Lo so.” “Il ragionier Piccoli mi ha detto che sua moglie sta fotocopiando quegli altri documenti che ti servivano. Non appena saranno pronti, te li porto a far vedere, ma pare proprio che tu sia un discendente di quel.. Insomma, di quel duca di Piacenza di cui hai fatto fare la ricerca.” “Me l'immaginavo.”Oh! Ma allora sei nobile anche tu. Perché lui si chiamava Farnese e tu Farnesi? “Durante i secoli, i nomi cambiano.” “Pippo, perché sei così scontroso? In fin dei conti, te la sei cavata. Da come eri messo dopo l'incidente, puoi proprio dire di aver fatto grandi progressi.” “Grandi progressi, si.” “Non so perché ti sei messo in testa di andare a stare alla Quartazzola, quando verrai dimesso. Cosa c'è che non va a casa tua?” “Devo restare solo. Almeno per un po' di tempo.” “Non sentirai la mia mancanza?” “Si..” “Promettimi che quando questo brutto momento sarà passato, tutto ritornerà come prima.” Filippo si agitò un po' e posò la testa sul cuscino. “Si. Te lo prometto.” Penny si avvicinò a lui e lo baciò sulla guancia.” “Devi essere forte. Hai capito? Forte!” “Si.” Filippo chiuse gli occhi. Voleva solo dormire. Due anni dopo.. Andrea Dordoni arrivò alla stazione di Piacenza alle 15.08, con soli tre minuti di ritardo sull'orario previsto. Frequentava i corsi del quarto anno della facoltà di Ingegneria dei Sistemi e tornava da Milano dove aveva sostenuto un esame. Era stanco ed infreddolito. Andrea aveva ventitré anni e non era fuori corso. Anche l'esame che aveva dato quel giorno era andato abbastanza bene, ma lui era irritato perché la sua mancata risposta ad un'ultima domanda aveva tramutato quello che avrebbe potuto essere un bel trenta in un misero 26. Eravamo a febbraio. Andrea era partito in treno alle sei e trenta da Piacenza in una giornata di nebbia. Ora la nebbia si era alzata e c'era un pallido sole, ma la temperatura era inferiore ai 5 gradi. Scese dal treno e si avviò al sottopassaggio che portava all'uscita. Sul treno il riscaldamento era stato al massimo e, dopo il caldo patito durante il viaggio, Andrea si sentiva gelato. Si strinse nella sua giacca, ma in quel momento provò una strana sensazione, come se quell'indumento gli fosse estraneo. Non che gli fosse larga o stretta ma, cavoli, quella giacca aveva anche un odore strano: non era la sua! Avvertì un senso di disagio: si fermò e si tastò addosso. Nelle tasche trovò soltanto un pacchetto di fazzoletti di carta, delle gomme da masticare ed un biglietto di prima classe Piacenza-Milano e ritorno. Per la miseria! Evidentemente aveva scambiato la propria giacca con quella di qualcuno che viaggiava assieme a lui. In effetti quella giacca era molto simile alla sua: stessa taglia, stesso colore e perfino stessa foggia. Una giacca molto semplice, senza cappuccio e con due tasche laterali: un montone molto caldo e confortevole. Fortunatamente, non aveva lasciato niente nelle tasche di quell'altra, perché i documenti ed il denaro li teneva per precauzione nella tasca dei pantaloni, ma la faccenda gli scottava parecchio. Si diede dello stupido per non essersi subito accorto dell'errore si mise a pensare a come avrebbe potuto rimediare a quell'inconveniente. La sua giacca doveva essere rimasta sul treno, perché nessuno era sceso alla stazione ma, accidenti! Il treno era già ripartito. Andrea non sapeva cosa fare. Si sedette su di una panchina, si sfilò dalle spalle lo zainetto e si tolse la giacca per poterla osservare meglio. Anche la fodera di tipo scozzese era sul rosso come la sua, ma la marca impressa sulla stoffa satinata era ben diversa e quel nome “Walker” stampato sul talloncino posto sul retro del colletto gli parve qualcosa di sporco. Aspetta un attimo, si disse. Cerchiamo di ragionare. Nello scompartimento dove aveva fatto il viaggio c'erano altri due passeggeri: un signore sui quaranta che teneva un bastone ortopedico fra le gambe ed un ragazzo della sua età, forse universitario pure lui. La giacca che aveva indossato Andrea, doveva essere la sua. Infatti costui gli era seduto accanto sul sedile di sinistra, mentre l'altro uomo era seduto a destra, vicino al finestrino. Adesso ricordava che, ad un certo momento, si era tolto la giacca perché nello scompartimento c'era un caldo atroce e l'aveva posata sul sedile. Si era sentito più a suo agio con addosso solo il maglione ed aveva continuato così il suo viaggio. Quell'altro ragazzo era un tipo con i capelli corti e dai lineamenti delicati. Portava occhiali da vista ed aveva ascoltato musica dalle cuffie fino a quando, dopo essersele tolte, aveva incominciato a pigiare i tasti di un telefonino. Dov'era in quel momento la giacca di quel ragazzo? Non ricordava di averla notata. Poteva essere da qualche altra parte, ma.. Ah, ecco! Che stupido! Lui la giacca l'aveva messa sulla plancia porta oggetti non sul sedile! Era stato lui a commettere l'errore: la colpa era tutta sua. E poi, gli venne in mente che, poco prima che il treno arrivasse a Piacenza, era andato alla toilette in fondo al vagone. Aveva lasciato il suo posto per non più di cinque minuti ed era rientrato mentre il rumore del treno rimbombava contro le strutture metalliche del ponte sul Po, ma nello scompartimento, c'era soltanto l'uomo col bastone: il giovane con il telefonino non c'era più! Andrea aveva preso la giacca che stava sul sedile, se l'era infilata e si era preparato a scendere. L'altro uomo pareva non essersi accorto di niente. Per tutto il viaggio aveva sonnecchiato e quando il ragazzo che gli stava davanti lo aveva urtato con un piede e gli aveva chiesto scusa, lui non si era mosso. Pareva non si fosse nemmeno accorto dell'urto. Aveva una barba scura ed occhiali neri. Teneva la gamba stesa ed Andrea, dal fatto che avesse con sé un bastone di tipo ortopedico, pensò che fosse zoppo o comunque debilitato, ma aveva un torso possente e braccia robuste, come spesso hanno coloro che sono abituati a spingere a mano una carrozzella per invalidi. Ma c'era qualcos'altro. Ora ricordava che quando era rientrato, dopo essere stato in bagno, si era accorto che nello scompartimento non c'era più il caldo soffocante di prima, ma l'aria era fresca, come se vi fosse entrata una folata d'aria fredda. Come se qualcuno avesse aperto il finestrino e poi l'avesse richiuso. O forse se lo stava soltanto immaginando? L'uomo con la barba e gli occhiali scuri stava ancora sonnecchiando perché il suo bastone era caduto a terra e lui non l'aveva raccolto. Evidentemente non aveva intenzione di scendere a Piacenza. Andrea aveva provato un brivido guardando il suo naso affilato e la piega della sua bocca. Mentre era seduto su quella fredda panchina, Andrea continuava a pensare a quello strano fatto dello scambio delle giacche. Non si accorgeva di quelli che gli passavano davanti e non udiva nemmeno la voce dell'annunciatore dare avvisi all'altoparlante sui treni in arrivo o in partenza. Erano le tre e mezza e stava pensando cosa fare. Quando sarebbe arrivato a casa, avrebbe dovuto affrontare le domande di sua madre sull'esito dell'esame e spiegare perché era tornato senza giacca. Un montone da 400 euro: Andrea! Perché sei così sbadato? E adesso come farai a ritrovarlo? Che menate! Ma lui non avrebbe risposto alle domande di sua madre, né le avrebbe parlato dell'esame, con quel pizzico di sadismo che spesso soddisfa gli spiriti giovanili nei confronti dei genitori. Dopo cena sarebbe andato a giocare a calcetto con la squadra di amici, come faceva tutti i giovedì sera. Ma adesso doveva muoversi. Andò agli uffici della Polfer, spiegò l'accaduto e consegnò la giacca non sua. Fece presente che non aveva alcun riferimento per rimediare al più presto all'involontario errore dello scambio degli indumenti, ma forse gli agenti avrebbero trovato il modo di sistemare la faccenda. Ritirò la sua bicicletta dal deposito, si calò la cuffia sulla fronte e tornò a casa sfidando il freddo col solo maglione. Subito il giorno dopo, ricevette una telefonata che lo avvisava che la sua giacca era arrivata miracolosamente intatta a Parma e che era stata consegnata dal personale di Trenitalia, all'ufficio oggetti smarriti. Quando Andrea poté riavere la sua giacca, tirò un sospiro di sollievo. L'altra giacca, quella che aveva consegnato alla Polfer, non era stata fatta oggetto di nessuna segnalazione. Il suo proprietario non la stava evidentemente cercando. D'altronde pensava che tanti fatti sembrano inspiegabili ma, quando il mistero viene svelato, spesso si scopre una verità banale. La vita è strana. Dopo un po' di tempo non ci pensò più. Due settimane dopo, sul giornale locale apparve una notizia. Alla pagina della cronaca cittadina, si leggeva che il cadavere di un uomo era stato rinvenuto in Po. “Le acque del Po hanno restituito ieri il corpo senza vita di un uomo di identità sconosciuta, alto circa un metro e 70, di costituzione minuta e di carnagione chiara. L'uomo indossava solo una camicia ed un paio di pantaloni di colore azzurro. Il suo corpo galleggiava supino sotto un ammasso di legname. L'hanno notato alle 17,15 di ieri tre amici che, su di una barca, stavano pescando a monte dell'attracco, in zona Magaton, vicino ad una cava. “A vederlo da lontano, sembrava un fantoccio, un manichino” ha raccontato uno dei ritrovatori. “Ci siamo avvicinati: il corpo di quell'uomo era stato gonfiato dall'acqua ed era irriconoscibile. Si trovava sotto un mucchio di legna che di solito la corrente del Po trascina; spuntavano solo le gambe e le braccia. Visto lo stato in cui si trovava, può essere stato in acqua anche per un mese.” Con gli amici che erano con lui in barca, era riuscito ad imbragare il cadavere e a trascinarlo a riva. Al recupero hanno provveduto i Vigili del Fuoco ed i Carabinieri, subito intervenuti, hanno avviato i primi accertamenti. Il corpo si trova attualmente all'obitorio del cimitero di Piacenza. Si cerca ora di dare un volto allo sconosciuto, la cui morte potrebbe risalire ad alcune settimane fa. Oltre ai pochi indumenti che gli erano rimasti addosso, l'uomo portava un anello d'oro all'anulare destro ed un orologio da polso con le lancette ferme sulle tre. Le ricerche si estendono tra le persone di cui è stata fatta denuncia di scomparsa in tempi recenti, ma è giallo anche sulla morte: suicidio, omicidio o disgrazia? Solo l'autopsia e l'accertamento della sua identità, a questo punto, potranno aiutare a fare luce sul mistero.” Nei giorni seguenti, la notizia prese corpo fino a che si poté annunciare che l'uomo era stato identificato. Si trattava di un giovane studente universitario di 20 anni, Duccio Anguissola, che mancava da casa da due settimane. Era partito in treno per Milano per frequentare il suo corso di studi e non era più tornato. Era stato riconosciuto dai familiari per gli oggetti che portava ancora addosso: un orologio fermo sulle tre ed un anello su cui era inciso uno stemma nobiliare. Le cause della sua morte erano ancora incerte e si stava indagando sui motivi per cui quel giovane era stato ritrovato nelle acque del fiume. Il suo corpo giaceva all'obitorio del cimitero di Piacenza in attesa dell'autopsia. Leggendo sul giornale queste notizie, Andrea restò allibito. Si trattava certamente del ragazzo a cui aveva preso involontariamente la giacca! Il suo compagno di scompartimento, quello che per tutto il viaggio di ritorno da Milano, aveva ascoltato musica con le cuffie. Ora che vedeva la sua foto sul giornale, lo riconosceva. Era proprio lui! Un ragazzo dai capelli castano chiari, occhi grigi, espressione distaccata e seria, aria tranquilla. Ed era stato ritrovato cadavere in Po! Si, l'ora indicata dall'orologio che portava al polso era compatibile con quella del suo viaggio di ritorno da Milano. Aveva cessato di funzionare alle tre del pomeriggio, pochi minuti prima che il treno arrivasse in stazione! A quell'ora, Andrea non era ancora sceso. Ricordava di essere andato in bagno poco prima di arrivare a Piacenza e che, quando era rientrato nello scompartimento, quel ragazzo non c'era più. Cos'era successo mentre lui era in bagno? Pochi minuti, non di più.. Quell'uomo! Quello con la barba ed il bastone! Lui doveva saperlo. Lui doveva aver visto tutto. Anzi.. Andrea ebbe un sussulto, quasi spaventato dall'idea che gli era nata in testa. Era stato lui a buttarlo nel fiume! Si, quell'uomo! Andrea ricordava che, quando era tornato a sedersi, fingeva ancora di dormire, ma il suo bastone era caduto a terra e lo scompartimento era gelido. Non c'erano dubbi: quell'uomo aveva colpito Duccio Anguissola con il bastone, aveva aperto il finestrino e lo aveva buttato dal treno quando stava passando sul ponte! Per il fatto del treno e dei suoi sospetti, Andrea decise di andare alla Polizia e di raccontare tutto quello che aveva visto. Non lo faceva perché sentiva il dovere civico eccetera eccetera, ma perché era attratto da quella vicenda misteriosa e voleva scoprire chi aveva causato la morte di un ragazzo del quale si sentiva, in un certo senso, amico. La cosa era troppo importante per essere taciuta: lui aveva visto l'assassino! Era eccitato dall'idea di essere stato testimone di un caso che avrebbe potuto benissimo costituire la trama di un romanzo giallo. Se poi, grazie alla sua intuizione, la verità fosse venuta a galla, tanto meglio. Provò un po' di emozione nell'entrare in Questura, ma poi si trovò a fare anticamera come in qualsiasi altro ufficio pubblico. Era insofferente per l'attesa e sbuffava contro le lentezze della burocrazia. Erano quasi le 11 quando, dopo mezz'ora d'anticamera, il brigadiere di servizio lo fece entrare nel suo ufficio. Andrea partì subito in quarta ed espose le sue osservazioni sul caso che riguardava l'uomo ripescato in Po e del quale proprio quel giorno parlava il giornale. “Bene” disse l'agente, “ma è già stato identificato. Lei lo conosceva?” “Veramente” osservò Andrea, “io ero sul treno assieme a lui quando è scomparso.” Quale treno? “Il Milano - Piacenza. Abbiamo fatto il viaggio assieme.” “Cosa c'entra? Il soggetto è stato trovato nel fiume.” “Si, ma deve esserci finito cadendo dal treno.” L'agente fece una faccia stupita. “E' finito nel fiume cadendo da un treno? Lei l'ha visto cadere?” “Proprio visto, no, ma io stavo tornando a casa dopo aver dato un esame..” “Un momento” disse l'agente. “Ricominciamo da capo. Lei vuol dire che ha visto il soggetto..” Prese dalla scrivania il giornale, lo sfogliò fino alla pagina interessata e lesse il nome: Anguissola Duccio. E' questa la persona di cui stiamo parlando? Certo. Quello che è stato ripescato ieri.” “Lei vuole dunque fare una deposizione riguardante la sua scomparsa? “Sicuramente. Vede, io ho visto la sua fotografia sul giornale e sono sicuro che..” “Si fermi. Dirà tutto ai funzionari preposti all'indagine.” Prese il telefono e fece un numero. Aspettò qualche secondo e poi lo ripose. “Adesso la linea è occupata.” Riprovò e stavolta qualcuno rispose. Parlò a monosillabi con il suo interlocutore: “Una deposizione.. Per il cadavere ritrovato in Po. E' impegnato.. Chi lo sa?.. La Di Marino? Va bene.” Chiuse la comunicazione e si rivolse ad Andrea. “Deve andare dalla dottoressa Di Marino. Là potrà fare la sua deposizione e spiegarsi. Sarebbe inutile che riferisse ogni cosa a me per poi dover ripetere tutto da capo, le pare? Lei salga pure al piano superiore, chieda dove si trova l'ufficio della dottoressa Di Marino ed aspetti fuori dalla porta senza bussare. Non appena sarà libera, la farà entrare.” La dottoressa Di Marino era una signora che non aveva niente della poliziotta. Non tanto alta di statura, sui cinquanta, aveva un viso affabile e sorridente come può averlo una madre che deve prendersi cura di un figlio scapestrato. Aveva il grado di vice ispettore ed un ufficio tutto suo, non più grande di quello che era all'entrata, ma che aveva una finestra che lo
riempiva di luce. Alle pareti erano appesi dei manifesti che riguardavano le attività del Corpo e sulla scrivania vi era un computer quasi sommerso da pile di pratiche. In bella vista, sul ripiano, vi era una foto che raffigurava due ragazzi adolescenti ripresi in alta montagna. Erano somigliantissimi tra di loro e parevano gemelli. La dottoressa fece accomodare Andrea su di una poltroncina che stava davanti alla scrivania, si sedette, congiunse le mani e disse: “Allora, mi dica.” Andrea si presentò ed incominciò il suo racconto dicendo che era venuto a deporre sul caso di quell'Anguissola che era stato ritrovato morto in Po. Parlò dell'incontro che aveva avuto con lui sul treno, della giacca scambiata e del personaggio che lui riteneva sospetto in relazione alla scomparsa del giovane universitario. La vice ispettrice lo stette ad ascoltare senza interromperlo. I suoi occhi in costante movimento lo studiavano e lui pensò che forse non era la bonacciona che aveva pensato potesse essere. Quando Andrea ebbe finito il suo racconto, la dottoressa Di Marino disse: “Bene, bene. Lei, dunque è studente universitario come questo Anguissola. Probabilmente frequentava il suo stesso ateneo. Lo conosceva?” Parlava con una leggera inflessione, non proprio del Sud, ma probabilmente marchigiana o abruzzese. “Lo aveva mai visto prima?” “No, che io ricordi, ma lo sa com'è, gli studenti sono tanti, gli orari diversi..” “Nemmeno qualche altra volta sul treno durante un viaggio all'università?” “No. Non so da quanto tempo frequentasse..” “Però è sicuro che sia la stessa persona di cui si parla sul giornale.” “Certo! L'ho riconosciuto dalla foto che è stata pubblicata e poi, come le dicevo, ho preso per sbaglio la sua giacca che ora dovrebbe essere all'ufficio oggetti smarriti e confrontando le eventuali tracce organiche che vi saranno depositate con il corpo che è stato ritrovato, si potrà averne la certezza.” La dottoressa Di Marino fece una smorfia. “Intende dire con l'esame del DNA? Lei vede molti telefilm polizieschi in TV, vero? Ma non mi sembra necessario. Del resto, il cadavere è stato riconosciuto dai familiari per certi particolari dei vestiti che aveva addosso e da un anello che aveva al dito.. Ma il problema è un altro. Come ci è finito dentro all'acqua?” “Io mi sono fatto un'idea.” disse Andrea. “Come le ho già raccontato, c'era un terzo uomo nello scompartimento ed io sospetto che sia stato lui a buttarlo dal treno perché un momento prima quel giovanotto stava seduto al suo posto e nemmeno cinque minuti dopo era sparito! E lo scompartimento, prima soffocante per il caldo, era fresco perché il finestrino era stato aperto. E' l'unica ipotesi possibile!” La dottoressa lo guardò con aria scettica. “Quindi, a suo parere, mentre lei era uscito per andare al bagno, uno sconosciuto afferra la vittima e la butta dal treno. Oltre il finestrino. Bene, bene.. E mi dica: dove si trovava in quel momento il treno?” “Beh” rispose. “Stavamo per arrivare a Piacenza, eravamo un po' prima del ponte ferroviario..” “Ed il corpo sarebbe stato buttato nel fiume..” “Penso proprio di si.. Non so spiegarmi altro. Se non proprio nel fiume, potrebbe essere caduto nella zona vicina e poi essere stato trascinato via durante una piena..” “Ed è stato quell'uomo a buttarlo.. Per cui in poco tempo, nemmeno cinque minuti mi ha detto, costui, mentre il treno è in corsa, stordisce l'altro passeggero, apre il finestrino, solleva il corpo oltre il limite dell'apertura e lo butta giù. Per quale motivo, poi?” “Questo non lo so.” “Le due persone in questione si conoscevano?” “No. Non so..” “Non si sono mai parlati tra di loro?” “No, mai.” “Ma uno di loro, di punto in bianco, prende l'altro e lo butta nel fiume proprio mentre il treno vi passa sopra.” “E' possibile. Quel ragazzo non c'era più quando sono rientrato nello scompartimento..” “Ed il corpo della vittima cade non nella scarpata della ferrovia, ma nell'acqua in modo da essere trascinato dalla corrente fin dove l'hanno trovato..” “Credo sia successo così..” “Il giorno che lei ha visto tutto quello che mi ha raccontato era..” “Il 21 Febbraio.” La dottoressa guardò un calendario da tavolo. “Ed era.. un giovedì.” “Si, un giovedì.” “E l'ultima volta che ha visto quel ragazzo erano le quindici mi ha detto, vero?” “Si, circa.” “Ed essendo stato ritrovato ieri.. Sarebbe stato in acqua per due settimane..” “Così pare..” “Non è possibile che quel ragazzo si sia alzato e se ne sia sceso tranquillamente alla stazione e che poi, per qualche altro motivo sia finito nel fiume? Magari qualche giorno dopo?” “L'avrei visto scendere.. E poi, non aveva l'orologio fermo proprio nel momento in cui è caduto dal treno?” “Questo come lo sa?” “Lo diceva il giornale..” La dottoressa fece un gesto vago. “Il giornale.. E se l'orologio si fosse fermato in un giorno diverso o per qualche altro motivo? Per un urto, perché aveva finito le pile..” Quella domanda e lo sguardo ironico della donna resero dubbioso Andrea. Sapeva dove quel discorso voleva andare a parare. In effetti man mano che vedeva l'incidente con gli occhi di un altro, si accorgeva quanto apparisse fantasiosa la ricostruzione che lui aveva fatto di quello che era accaduto. In quel momento entrò in ufficio un agente in divisa. Gettò un'occhiata ad Andrea e poi, rivolgendosi alla Di Marino, le disse: “Dottoressa, ho controllato..” “Allora?” “Non c'è niente.” “Nemmeno su Internet?” “Penso di no.” “Perché dici penso?” “Ci ha guardato il brigadiere Quagliaroli..” “Ma funziona 'sto programma?” La dottoressa era leggermente spazientita. Spostò una cartella sbattendola sul tavolo. “E poi quello vuole i risultati!” L'agente gettò un'altra occhiata ad Andrea ed uscì. La dottoressa non fece in tempo a riprendere il discorso che il telefono che si trovava sulla scrivania si mise a squillare. Senza fretta la donna incominciò una conversazione di cui Andrea non capiva il significato, ma continuava a pensare che la sua testimonianza non venisse presa in considerazione con l'attenzione che avrebbe meritato. La telefonata andava per le lunghe e pareva che la dottoressa Di Marino si fosse scordata della sua presenza, perché si mise a scherzare con la sua interlocutrice che chiamava Wilma, ricordandole che per preparare le olive all'ascolana non serve il pesce. Quando il discorso poté essere ripreso, la Di Marino si rivolse ad Andrea. “Facciamo una bella cosa. Lei mi lasci i suoi dati completi di indirizzo e di numero di telefono e appena ci sono novità, le faremo sapere. Nel caso le venisse in mente qualcosa d'altro, può sempre chiamarmi. Questo è il mio recapito.” Gli porse un biglietto da visita sul quale vi era segnato anche un numero di cellulare. Era un congedo. Non tanto convinto, Andrea fece come gli aveva detto la dottoressa e si apprestò ad uscire. “Un momento” le disse lei. “Dove va? Mi vorrà fare l'identikit dell'assassino, no?” Aveva posto una particolare inflessione sulla parola “assassino”, facendo intendere che il racconto di Andrea doveva essere preso con le molle. “Non lo visto bene in faccia, portava degli occhiali scuri, ma è importante sapere che portava con se un bastone ortopedico e che probabilmente zoppica..” “Lei lo descriva come lo ha visto.” La dottoressa gli indicò dove dovesse recarsi per l'identikit, mentre avvisava l'ufficio della Scientifica. Poi, senza alzarsi, porse la mano e salutò Andrea ringraziandolo per essersi reso disponibile alla testimonianza che aveva reso. Se la serata del giovedì era, per Andrea e per i suoi amici, dedicata al calcetto, quella del lunedì era dedicata al cinema perché in quel giorno il biglietto era a prezzo ridotto. La compagnia era composta da vecchi compagni di scuola, colleghi o amici acquisiti, accompagnati da amiche, fidanzate o aspiranti tali. Naturalmente il gruppo variava di numero e di composizione a seconda degli impegni o dell'attrattiva che poteva esercitare il film prescelto, ma a volte, pur di ritrovarsi assieme, si passava sopra alla qualità dello spettacolo. Quel lunedì sera però era in programmazione un film di grande successo che attirava tutti: Avatar. Già reclamizzato da tempo come uno degli eventi della cinematografia moderna, campione di incassi in tutto il mondo, era anche esaltato dalla critica perché raccontava una storia di alto valore morale: la lotta di una società povera e “selvaggia” contro il potere della sopraffazione e del denaro, che tende allo sfruttamento ed alla distruzione della natura. Il film era un capolavoro di effetti speciali e veniva proiettato in 3D. Le scene erano talmente realistiche che gli spettatori, muniti di occhiali stereoscopici, si sentivano proiettati al centro dell'azione che si svolgeva sullo schermo. Lo spettacolo era in programmazione alle 22 alla multisala Cinestar, un complesso situato in periferia, dalle parti dello Stadio. La compagnia di Andrea quella sera era composta dal Paci e da sua moglie Marisa, giovani sposi, odontoiatra lui e impiegata di banca lei, da Fabrizio e Gilberto, rispettivamente centravanti e portiere brasiliano della squadra di calcetto che erano accompagnati dalle rispettive fidanzate: Gena e Laura, da Carlo Confalonieri, studente universitario e dalle sorelle Cattadori, che erano appena tornate da un viaggio in Cina e ad Hong Kong. Alcuni di costoro non si vedevano da tempo per cui, al momento del ritrovo, le chiacchiere si sprecavano, naturalmente accompagnate da battute, sfottò ed insinuazioni. Quello era il momento più simpatico della serata. La sala di proiezione degradava a scalini verso lo schermo consentendo una visione perfetta. Andrea si trovò seduto tra Carlo Confalonieri ed una delle sorelle Cattadori, di cui non ricordava il nome e che conosceva solo di vista. Lei si chiamava Stefania ed era vestita alla cinese: un bellissimo mini vestito accollato di raso blu a fiori, acquistato durante il suo ultimo viaggio, ma Andrea sperimentava di persona la diceria che i vestiti cinesi puzzassero. Dicono che hanno un odore strano forse dovuto a qualche fibra sintetica, ed in effetti sembrava che il vestito di Stefania fosse stato appena tolto da un armadio dove era rimasto chiuso da un secolo. Era un odore che dava fastidio, ma Stefania pareva non accorgersene e comunque Andrea le fece i complimenti per la sua eleganza. Lei lo ringraziò e gli chiese se era venuto al cinema senza la sua ragazza. Lei aveva sentito dire che “filava” la sorella di un suo amico.
Andrea capì di chi stava parlando. In effetti c'era una specie di simpatia tra lui e la sorella di Carlo, Milla, ma niente di particolare: non erano mai usciti assieme. In ogni caso, non ne avrebbe sicuramente parlato con una che aveva l'abito puzzolente ed Andrea disse a Stefania che non conosceva nessun amico che avesse una sorella. Lei si mise a ridere come se avesse ascoltato una battuta. Aveva le gengive leggermente pronunciate, ma anche dei begli occhi. Le luci in sala si spensero e tutti inforcarono gli occhiali per la proiezione stereoscopica. La Cattadori pregò Andrea di aiutarla ad inforcarli perché secondo lei era un'operazione difficile, ma forse era una scusa per ricevere la sua attenzione. La proiezione incominciò. Stazioni spaziali solcavano lo spazio interstellare sorvolando pianeti azzurri, mentre una musica ad altissimo volume coinvolgeva lo spettatore nella sensazione di trovarsi a vivere un'avventura meravigliosa. Erano passati appena cinque minuti dall'inizio del film, quando qualcuno, seduto alcune file davanti ad Andrea, si alzò con l'intenzione di lasciare il posto e di uscire. L'operazione comportava lo spostamento degli spettatori che gli si trovavano vicino. Questi si alzarono evidentemente scocciati per lasciarlo passare e la cosa produsse un certo trambusto. L'uomo incurante del disturbo prodotto, continuò la sua faticosa marcia, ma inciampò nel piede di una signora che, per fargli dispetto, non aveva voluto alzarsi e lui quasi le cadde addosso. La signora disse ad alta voce: “Che palle!” e da parte di alcuni ragazzi del pubblico proruppe un coretto: “Scemo, scemo!” Il film era incominciato da poco. Che motivo c'era di lasciare il proprio posto così in fretta scomodando mezza fila di persone? L'uomo alla fine riuscì a districarsi ed incominciò a salire la gradinata per raggiungere l'uscita. Andrea vide chiaramente la sua sagoma stagliarsi contro lo schermo illuminato: era un uomo alto, dalla fronte spaziosa e con una folta barba. Si allontanava zoppicando e facendo picchiettare un bastone che aveva con sé. Andrea fu scosso da un sussulto: era lui! L'uomo del treno! Quello che aveva buttato quel ragazzo dal finestrino. Non poteva sbagliarsi! Lo seguì con lo sguardo e lo vide illuminato dal riflesso dalla luce proveniente dallo schermo. Subito gli venne l'impeto di rincorrerlo e di fermarlo. Lo avrebbe affrontato. Gli avrebbe detto che lo aveva riconosciuto e lo avrebbe portato alla Polizia per farlo confessare. “Permesso” disse. Si alzò dal proprio posto ed uscì dalla fila abbastanza in fretta: doveva scomodare soltanto le sorelle Cattadori. “Dove vai?” gli chiese Stefania. “Basta!” gridò qualcun altro. Incurante di tutto, Andrea risalì la scalinata e raggiunse l'uscita. Fuori dalla sala di proiezione, si trovò sul ballatoio dal quale si diramavano i corridoi che portavano alle altre sale ed alle scale che scendevano nell'atrio della biglietteria. Si guardò attorno e non vide nessuno. Accidenti! Quell'uomo, pur che fosse zoppo, era davvero sparito in fretta! Andrea scese di corsa le scale, ma non lo vide nemmeno nell'atrio, né al vicino bancone del bar interno, né oltre la porta a vetri che dava sull'esterno. Chiese alla maschera che controllava i biglietti se avesse visto uscire un uomo con la barba.. che zoppicava.. No, non l'aveva visto e nessuno era uscito. Se lui voleva uscire per poi rientrare, avrebbe dovuto esibire il biglietto quale contromarca.. Andrea non lo stette a sentire. Si precipitò all'uscita e gettò lo sguardo nel piazzale antistante per cercare di rintracciare il suo uomo, ma non lo vide da nessuna parte. Dove poteva essere finito? Non era possibile che fosse uscito senza essere notato. Si era accorto di essere seguito e si era rifugiato in uno dei bagni al piano superiore? Oppure era rientrato nella sala di proiezione a vedere il film? Poteva essere: quello davvero non doveva essere uno stupido. Restava da capire perché fosse uscito così in fretta durante la proiezione. Andrea restò sul piazzale, ma il tempo passava e di quell'uomo non c'era traccia. Non si era accorto che qualcuno era uscito da una porta di sicurezza ed ora stava filando via in motocicletta a fari spenti. C'era una cosa che consolava Andrea. L'aver visto al cinema l'uomo del treno, significava che probabilmente abitava anche lui a Piacenza. Non era un viaggiatore che stava proseguendo per Bologna o per chissà dove e comunque l'assassinio di quel ragazzo doveva essere stato premeditato. Certamente non si trovava su quel treno per caso: stava aspettando il momento giusto per compiere il delitto! Lentamente, Andrea rientrò nell'atrio del cinema, ma era agitato e non aveva più voglia di tornare a vedere il film. Mentre si guardava attorno, il suo sguardo si posò su di una delle locandine incorniciate che reclamizzavano alcuni film di successo e che erano appese alla parete sopra le casse.
Ebbe un sussulto: una di queste reclamizzava un film intitolato “The wrong man”. L'uomo sbagliato! Già. Era proprio sicuro che quello fosse l'uomo del treno? L'aveva visto solo in controluce in una sala buia, mentre sullo schermo si proiettavano scene a forte impatto con contrasti di luce e di colori. Ecco, doveva cercare di ricordare bene cos'aveva veramente visto, doveva ragionare, non lasciarsi prendere dall'impressione di una apparizione improvvisa. E poi.. Erano passate più di due settimane da quell'incontro sul treno e non era più sicuro di poter descrivere esattamente l'uomo di cui aveva fatto l'identikit alla Polizia. Tre settimane dopo la sua morte, un giovedì pomeriggio, Duccio Anguissola ebbe il suo funerale. Questo ritardo nella sepoltura era dovuto al fatto che il corpo era stato sottoposto ad autopsia in quanto il decesso era avvenuto per una causa sconosciuta e le procedure d'indagine dovevano essere suffragate di ogni elemento utile. Alle due di un pomeriggio caldo e ventilato, la sua bara venne portata fuori dall'obitorio e caricata sul furgone mortuario. I poveri resti vennero portati con il carro funebre dall'obitorio di Piacenza al suo paese di residenza per essere tumulati nella cappella di famiglia. Gli Anguissola erano una famiglia di nobili origini e gli antenati di Duccio avevano portato il titolo di Conte. I suoi genitori vivevano ancora in un'ala del bel castello di loro proprietà che ora accoglieva anche concerti, cene medievali e rinfreschi di matrimoni importanti. Era stato approntato un servizio di pullman per chi volesse partecipare al funerale ed Andrea se ne servì per poter essere presente alla cerimonia perché aveva preso a cuore la sorte di quel ragazzo e se lo sentiva amico, senza che gli avesse mai rivolto la parola. L'aveva solo incontrato quel giorno sul treno diretto a Piacenza, ma aveva anche indossato la sua giacca, seppure per errore, e questo fatto, legato alla sua tragica fine, lo avevano indotto a partecipare a quel funerale. I familiari entrarono in chiesa al seguito della bara, che fu sistemata al centro della navata e benedetta dal prete che portava una stola di colore viola e che fece una breve omelia in ricordo del defunto. Descrisse con poche parole la figura di quel giovane, commiserando il modo assurdo della sua morte. Un destino superiore aveva deciso la sua sorte e la sua vita era stata troncata senza che ci fosse una ragione che potesse giustificare l'accaduto. Dopo la benedizione, la bara fu di nuovo caricata sul furgone funebre per essere portata al cimitero del paese. Fuori dalla chiesa, la madre di Duccio, la contessa Mariella, riceveva in modo austero le condoglianze di amici e parenti che le sfilavano davanti porgendole parole di conforto, mentre suo marito, il conte Obizzo Anguissola, sostava attonito vicino a lei. Era un uomo stempiato, vestito con un semplice abito scuro ed ogni tanto si asciugava gli occhi arrossati con un fazzoletto da tasca. La contessa ostentava una calma rassegnata e rispondeva pacatamente alle espressioni di cordoglio che le venivano rivolte, mentre si intuiva che la sua mente era proiettata verso orizzonti lontani. La sua espressione austera era mitigata da un piccolo sorriso
di compiacenza. Era una donna bruna con gli occhi di un grigio perfetto. Aveva un naso dritto e nobile e modi di una signora di altri tempi. Non poteva avere più di una quarantina d'anni e questo lo si poteva notare dal suo portamento eretto e giovanile. Portava un abito nero molto elegante e teneva in mano un mazzo di rose bianche che depose sulla bara come ultimo saluto al suo unico figlio. Ricevette le condoglianze da parte di un gruppo di persone intervenute al funerale, tra cui un signore anziano che accennò, nel salutarla, ad un baciamano. Poi una signora che aveva in testa un elegante cappellino sostò davanti a lei a sussurrarle in lacrime frasi di cordoglio. Lei la ringraziò per le sue gentili parole e fece una carezza sul capo alla bambina che l'accompagnava. Non appena quella signora si allontanò, la contessa lanciò uno sguardo in direzione di Andrea che prese il coraggio di avvicinarsi a lei. “Mi chiamo Andrea Dordoni” disse presentandosi. “Le faccio le mie più sentite condoglianze. Ero con suo figlio sul treno, quel giorno..” Lei lo guardò stupita. “Come dice?” Andrea si sentì a disagio. Forse quello non era il momento per parlare di certe cose. “Ecco.. Ero sul treno il giorno che suo figlio è scomparso. Ho viaggiato con lui nello stesso scompartimento.”
Mariella Anguissola lo guardò con aria incredula. “Vuol dire che..” “Non gli ho parlato, ma c'è stato un piccolo incidente fra me e lui. Quando sono sceso dal treno a Piacenza, ho preso per sbaglio la sua giacca.” “Non ne sapevo niente” protestò lei. “Cos'è successo?” “Che al momento di scendere ho preso per errore la giacca di suo figlio perché era uguale alla mia..” “Come ha detto che si chiama?” “Andrea Dordoni e anch'io studio a Milano. Avevo dato un esame quel giorno.” La signora era stupita, ma i suoi occhi grigi erano attenti. “Voglia scusarmi” disse. “Ora devo andare, ma al termine della cerimonia mi farebbe piacere parlare con lei di Duccio. Non occorre che venga al cimitero. Potrebbe attendermi al castello diciamo.. fra mezz'ora, va bene?” “Certamente..” “Se non le spiace.” “No affatto.” La contessa si allontanò per seguire il feretro. Non si formò un corteo. Davanti alla chiesa restarono solo poche persone. Quando il furgone si fu allontanato verso il cimitero, un uomo che sino ad allora era stato in disparte ad osservare la scena, si avvicinò ad Andrea. Aveva una certa età e portava in testa un cappello che non si era mai tolto. Parlando a bassa voce chiese ad Andrea se conoscesse il morto e se fosse suo amico. Pareva ansioso di poter intervenire in una faccenda di cui lui conosceva tutti i retroscena: la morte di un giovane di una nobile famiglia locale. Prima che Andrea potesse rispondere, l'uomo incominciò a commentare la tragica morte di Duccio Anguissola affermando che in paese su di lui giravano strane voci, alludendo al fatto che fosse omosessuale. Mentre diceva queste cose, i suoi occhi erano ridotti a due fessure dalle quali traspariva la certezza di essere depositario di una verità sconosciuta ai più. “Come dice?” chiese Andrea disgustato dai suoi modi. “Quando certe notizie vengono fuori” rispose quello con sufficienza, “qualcosa di vero c'è sempre. Ha visto che brutta fine ha fatto! Annegato nel Po!” E poi con sordida soddisfazione aggiunse: “Quelli come lui fanno sempre una brutta fine!” Andrea era inorridito dal fatto che esistessero ancora persone che traggono conclusioni soltanto in base a dicerie e l' irritava il fatto che raccontasse queste cose a qualcuno che non conosceva neppure, ma era la prima volta che sentiva attribuire un possibile movente alla fine di quel ragazzo. “Perché dice questo?” gli disse Andrea. “Non si sa ne ancora come è morto. Potrebbe essere stata una disgrazia.” L''uomo sorrise con l'aria di aver sentito una stupidaggine. “Ma quale disgrazia! Come avrebbe potuto cadere nel fiume per disgrazia? Non era mica un pescatore che andava in barca a caccia di siluri. E poi cosa ci faceva là? No, no, creda a me. C'è stato sicuramente un qualcosa d'altro: un litigio, una discussione per qualche motivo che riguarda le faccende di quei depravati ed il contino è stato buttato dentro il fiume. Quelli lì sono peggio delle donne. Litigano spesso tra di loro per motivi di gelosia o perché questo è andato con quell'altro e quell'altro con questo e poi si fanno le vendette. Del resto, lui cosa ci andava sempre a fare a Milano? Dicevano che andava all'università, ma se vuol sapere il mio parere, quello l'università non l'ha vista nemmeno col binocolo.” “Sarà..” disse Andrea cercando di chiudere il discorso. Era stanco di sentire le chiacchiere di quello sfaccendato e cercò di allontanarsi da lui, ma quello lo seguì insistendo nel suo discorso, dicendo che i nobili che vivono nei castelli e che non fanno niente tutto il santo giorno, finiscono per avere dei comportamenti ambigui per nascondere le loro perversioni ed incominciò a raccontare episodi sconvenienti che riguardavano la famiglia degli Anguissola, che a suo dire conosceva bene. Poi con l'aria di aver avuto un'intuizione chiese ad Andrea se magari era della Polizia. “La Polizia è furba, quando c'è un morto manda i suoi uomini ai funerali per fotografare i presenti, così si trovano i colpevoli. Lei può stare sicuro che l'assassino va sempre al funerale della sua vittima!” “Quindi, anche lei potrebbe essere l'assassino” disse Andrea. L'uomo rimase stupido di quell'affermazione e lo guardò incerto se stesse scherzando o se dicesse sul serio. “Adesso gradirei avere un thè” disse Mariella Anguissola sedendo sul divano di velluto azzurro. “Lo prende anche lei oppure preferirebbe un caffè o qualcosa di forte?” “Un thè andrà benissimo” rispose Andrea. Si trovavano nella sala dei ricevimenti del castello, dopo l'invito fattogli dalla contessa. Andrea si sentiva intimidito. Quell'ambiente destava soggezione per la sua ampiezza e per l'arredamento ricercato. La sala aveva il soffitto affrescato con scene mitologiche ed alle pareti vi erano appesi dei quadri ad olio raffiguranti gli antenati della famiglia. Andrea pensò che dovessero risalire ad almeno qualche secolo prima: la stirpe degli Anguissola era di origine medievale. In passato i loro possedimenti costituivano un vero e proprio stato autonomo all'interno dei feudi del piacentino. Nell'incavo del camino di pietra, sovrastato da uno stemma dai colori bianco-azzurri, era sistemato, con dubbio gusto, un grande televisore a cristalli liquidi. La contessa Mariella suonò un piccolo campanello ed una delle porte interne si aprì. Una donna dal viso imperturbabile, vestita come ci si aspetta di vedere abbigliata una persona della servitù in una casa altolocata, apparve sulla soglia. “Luisa, il thè per due persone, grazie” disse Mariella e quando la donna si allontanò aggiunse: “In questa terribile giornata, né io né mio marito abbiamo voluto che si servisse la colazione. Adesso lui sarà naturalmente nel gazebo del giardino a fumare ed a meditare sulla fine della sua discendenza, perché il nome non verrà tramandato.” Stette un po' sovrappensiero e, quando il thè fu servito, riprese il discorso incominciando a chiedere ad Andrea i particolari dell'incontro con suo figlio Duccio il giorno della sua scomparsa. “Allora, mi dica. Veramente ha visto mio figlio su quel treno?” “Si. Io sono salito a Rogoredo, il treno non era molto affollato quel pomeriggio ed ho percorso il corridoio per trovare uno scompartimento dove potermi sistemare. Sono entrato in quello dove stava suo figlio e praticamente mi ci sono seduto vicino. Lui era seduto vicino al finestrino alla mia sinistra. Aveva le cuffie per sentire musica e teneva sulle ginocchia davanti a sé delle dispense o comunque un pacco di fogli che stava leggendo. Non si è mosso da lì per tutto il viaggio finché..” “Non vi siete parlati?” “No. Anzi, lui non ha nemmeno mai guardato verso di me. Alzava gli occhi di tanto in tanto solo per guardare fuori dal finestrino.” “Si.. Non era un ragazzo molto espansivo, però aveva telefonato per avvisarci del suo arrivo. Invece, non è più tornato da me..” Scossa dalla commozione, Mariella fece una pausa. “Non lo ha visto telefonare?” chiese di nuovo. “Si, ma non ho ascoltato quello che diceva.” “Insomma, il viaggio è stato del tutto tranquillo.” “Si, se non ci fosse stato quell'incidente della giacca di cui le ho accennato. Poco prima di arrivare a Piacenza, ho dovuto lasciare lo scompartimento per andare in bagno. Mi sono assentato solo per pochi minuti e quando sono tornato al mio posto, suo figlio non c'era più, ma la sua giacca era rimasta sul sedile. Quando il treno ha fermato, io l'ho presa credendo fosse la mia e sono sceso alla stazione. Mi sono accorto dell'errore quasi subito, ma il treno era già ripartito. Le due giacche erano praticamente uguali ed io poi ho ricordato che la mia l'avevo messa sulla plancia porta oggetti, ma ormai il danno era fatto. Sono andato alla Polfer per denunciare l'accaduto e la giacca di suo figlio è stata depositata agli Oggetti Smarriti. E' stata avvisata di questo fatto?” “Assolutamente no. Vuol dire che si trova ancora là?” “Probabilmente si, se nessuno l'ha avvisata. D'altronde la giacca non conteneva nessun documento di identificazione. Nelle tasche vi ho trovato soltanto un pacchetto di gomme da masticare ed il biglietto di viaggio.” La contessa Anguissola annuì. “Quella giacca gliela avevo regalata lo scorso dicembre per il suo compleanno, il suo ventesimo compleanno. Neppure la Polizia me ne mai parlato. Da quando è stata denunciata la sua scomparsa, ho parlato quattro volte con loro. Poi, quando il corpo è stato ritrovato, è venuta a darmi la notizia una funzionaria delle Questura di
Piacenza, la dottoressa.. la dottoressa..” “Di Marino?” “Si. Di Marino. La conosce?” “Si ho parlato con lei la settimana scorsa. Quando ho visto la foto di suo figlio sul giornale, l'ho immediatamente riconosciuto e sono andato alla Polizia per raccontare quello che ho detto a lei. Che l'avevo visto sul treno e che avevo preso per errore la sua giacca.. Ed ho anche descritto l'uomo che era nello scompartimento con noi.” “Un uomo? C'era anche un altro uomo?” “Si. Era un signore di quaranta - cinquant'anni, piuttosto alto e robusto, ma in viso non l'ho visto bene perché portava degli occhiali scuri. Però posso dire che aveva una barba folta e che probabilmente zoppicava perché aveva con sé un bastone per appoggiarsi nel camminare. La Polizia ha il suo identikit che mi è stato chiesto di fare quando ho raccontato loro di questa persona. Durante il viaggio pareva dormisse, ma
quando sono tornato nello scompartimento dopo essere stato in bagno, suo figlio non c'era più, ma lui era ancora là.” “Forse quell'uomo può aver visto dove è andato Duccio..” Andrea non sapeva se faceva bene a parlare alla contessa dei suoi sospetti. “Mi scusi. Questa è solo una mia supposizione, ma io penso che sia stato proprio quell'uomo ad uccidere suo figlio”. A quelle parole, la contessa Anguissola sobbalzò. “Cosa??” “Suo figlio non può essersi allontanato dallo scompartimento senza prendere la giacca. Al limite avrebbe potuto prendere per sbaglio la mia. Invece io penso che quell'uomo abbia buttato suo figlio dal treno.” “E' pazzesco! E me lo dice solo ora?” “Ho esitato a parlargliene perché non ho nessuna prova, ma la Polizia sa tutto.” “Doveva dirmelo subito. Ho sempre creduto che la morte di mio figlio non fosse stata causata da un incidente. Come avrebbe potuto cadere nel fiume? Lui, all'acqua non si sarebbe mai avvicinato. Hanno parlato perfino di suicidio, ma questa è un'ipotesi assurda. No, io ho la certezza che sia stato assassinato, ma non supponevo nel modo che lei mi ha descritto. E le dico anche il perché di questa mia convinzione: quando sono andata all'obitorio per il riconoscimento del cadavere, ho scoperto che Duccio è stato sfregiato. Uno sfregio che può avergli fatto solo il suo assassino.” “Uno sfregio?” “Si. Sulla fronte aveva incisa una lettera: la A maiuscola. Deve essergli stata fatta con un coltello o con un oggetto appuntito, non saprei, ma la cosa era perfettamente visibile. Immagini lei. Il mio povero Duccio era stato in acqua per chissà quanti giorni ed il suo corpo era ridotto..” La donna non riusciva più a parlare per la commozione e si mise a singhiozzare. “Era ridotto.. Non l'avrei certamente riconosciuto, se non fosse stato per un indumento.. che aveva addosso e per l'anello che portava al dito. L'anello con lo stemma di famiglia. Solo per quello, ma gli occhi.. non li.. Quegli occhi così belli..” Il suo pianto ora era irrefrenabile e le lacrime le scendevano sulle guance. Anche Andrea si sentiva commosso. “Ma poi..” continuò Mariella Anguissola, “ho visto quell'orribile sfregio ed ho capito che era stato il suo assassino a farglielo.” “Una A? Sulla fronte?” chiese Andrea. “Si, una A.” “Che significato può avere?” “Potrebbe voler dire tante cose, ma una A è anche l'iniziale del suo nome: Anguissola.” “Si, ma per quale motivo gli sarebbe stato fatto?” “Per saperlo bisognerebbe entrare nella mente di chi lo ha ucciso.” “La Polizia che cosa ha detto in proposito?” “Niente. Non mi hanno saputo dire niente.” “Forse nemmeno loro lo sanno.” “Ma se lo sapessero, sono sicura che non me lo direbbero.” “Chi può aver voluto tanto male a suo figlio?” “Questa è la domanda che mi pongo continuamente. Perché e stato ucciso? Non riesco a trovare un motivo, uno soltanto che possa giustificare tanta ferocia. Povero Duccio! Chissà come si è spaventato! Mio Dio! Buttato giù da un treno in corsa!” “E' solo una mia ipotesi.. Forse..” “No, sono sicura che è andata come lei ha detto. Tutto si collega: quando è caduto dal treno sarà finito in acqua e vi restato fino a quando non è stato ritrovato.” La contessa si asciugò le lacrime con il dorso della mano e riprese a parlare con voce calma. “Mio figlio era un ragazzo dolce e riservato. Duccio era appassionato al volo e voleva diventare ingegnere aeronautico: per questo si era iscritto all'università. Era un sognatore, forse un po' introverso, ma non cercava la solitudine. Però, non era mai lui a prendere l'iniziativa per incontrarsi con gli amici. Aspettava sempre che fossero gli altri a chiamarlo. Ma questo non capitava spesso perché a lui non piaceva andare in giro la sera e far tardi come usano fare tanti giovani d'oggi. Invece
andava d'accordo con i suoi cugini Scotti di Milano, presso cui spesso soggiornava nei periodi di frequenza all'università. Anche questi sono stati contattati dalla Polizia per sentire se sapessero qualcosa che potesse avere attinenza con quello che è successo. Poteva darsi che Duccio si fosse confidato con loro, ma che io sappia, nemmeno loro hanno potuto dare qualche indicazione che potesse portare ad individuare un movente.” “Quindi, suo figlio non ha parlato nemmeno a lei di qualche situazione che potesse costituire.. costituire una minaccia..” “No, niente. Se avesse sospettato un pericolo, me ne avrebbe certamente parlato.” “E nemmeno fra le sue cose, i suoi libri o i suoi quaderni ha trovato uno scritto.. o una lettera?” “No. La Polizia, si figuri, ha voluto perquisire la sua stanza, ma adesso sono convinta che se ci fosse stata qualche prova a carico dell'assassino, non l'avrebbe nemmeno vista. Forse hanno tanti casi da seguire ed a loro non importa sapere perché un ragazzo è stato ucciso e poi, lo si sa, c'è il pregiudizio che noi.. noi che apparteniamo alla vecchia nobiltà possiamo essere depravati o corrotti e che, se ci capita una disgrazia, la responsabilità alla fine è nostra.. Per questo motivo non si è voluto dare pubblicità alla scomparsa di Duccio. Non si voleva attirare l'attenzione di certe malelingue che sono sempre pronte ad infierire sulle disgrazie altrui.” Mariella Anguissola strinse a sé le mani. “Vorrei fare qualcosa per sapere come sono andate le cose, per conoscere quel figlio di cane che ha ucciso mio figlio. Forse non è poi così difficile trovare un uomo come quello che mi ha descritto. Il fatto che zoppichi, che porta la barba.. Vorrei fare qualcosa, ma non so da dove iniziare.” Guardò Andrea con intenzione. “Anche lei è studente universitario, vero? Lei mi sembra un giovane sveglio e intelligente. Forse potrebbe aiutarmi.” “A”.. Ora nello scompartimento c'è solo la sua vittima. L'assassino può agire in tutta libertà. Afferra il bastone e colpisce con forza il giovane alla nuca. Quello cade svenuto. L'assassino apre il finestrino dello scompartimento, solleva il corpo e lo butta nel fiume. Ma prima, con una lama incide una A sulla sua fronte. “A”. Una lettera facile da fare: solo tre linee rette. Certo, A come Anguissola, ma perché scrivere l'iniziale del cognome della vittima su di lui? Che senso ha? Cosa significa quella lettera? Che messaggio vuole inviare? Oppure la A ha un significato diverso? E' forse la sua firma? La firma dell'assassino? Nel pomeriggio del giorno seguente, Andrea andò a studiare a casa di Carlo Confalonieri. Carlo stava preparando l'esame di Statica che Andrea aveva intenzione di dare a Giugno, per cui avrebbero potuto “fare” assieme una decina di pagine del testo. La madre di Carlo era in negozio: non sarebbero stati disturbati. Studiando assieme si evita di cadere nella noia, sempre che non si ceda alla tentazione di mettersi a navigare in Internet. L'amico di Andrea era un tipo allampanato: alto più di un metro e ottanta, non arrivava a pesare 70 chili. Giocava a pallavolo ed era uno schiacciatore. Naturalmente, la prima cosa che Carlo chiese ad Andrea fu il motivo della sua uscita frettolosa dal cinema quando erano andati a vedere Avatar. “Ti abbiamo visto uscire a palla e non sei più tornato al tuo posto. Cosa ti è successo?” Andrea non aveva voglia di raccontare tutta la storia e restò sul vago: “Mi pareva di conoscere quell'uomo che era uscito cinque minuti dopo l'inizio del film..” “Quello che ha fatto alzare una ventina di persone e che ne ha travolte dodici? Che scena! Lo conoscevi?” “No, ma credevo fosse un altro.” “Perché, quell'altro chi era?” “Era uno che non riuscivo ad incontrare da tempo e non me lo volevo lasciar scappare.” “Cosa ti aveva fatto? Ti ha tamponato e poi è scappato?” “Qualcosa del genere. Ma non sono riuscito a raggiungerlo.” “Secondo me quello che è uscito prima di te era un cieco. Hai presente? Un cieco che va al cinema! Hai visto come andava a tentoni con quel bastone? E tutti: “Scemo, scemo!” Una scena pazzesca! Beh, ma poi potevi rientrare a vedere il film.” “Non avevo più voglia. Cosa mi sono perso?” “Il film? Una storia epica ed una grande esperienza visiva. Si, grandi effetti, grandi scene. Tu però non ti sei fatto vedere al bar neanche ieri.” “Ieri sono stato ad un funerale.” “Oh! Di chi?” “Di quel ragazzo che hanno trovato nel Po. Quello che è stato su tutti i giornali..” “Ah, ho capito. Lo studente del Politecnico. C'era ieri il funerale?” “Si, sai.. C'è stato il riconoscimento, l'autopsia.. Sono passati dei giorni.” “E tu lo conoscevi?” “E' quello con cui ho scambiato la giacca. Ti avevo raccontato che ho scambiato la mia giacca con qualcuno che stava sul treno. Beh, era quel ragazzo.” “Ma va?” “Si, è stata una cosa che mi ha scioccato. Per sbaglio ho preso la sua giacca e poi, due settimane dopo, vengo a sapere che è stato assassinato!” “Assassinato? Hanno detto che si è trattato di una disgrazia!” “Macché disgrazia! I giornali raccontano quello che vogliono. Ieri ho parlato con sua madre e ci sono le prove che è stato ucciso, altroché!” “Per quale motivo?” “Ancora non si sa bene, ma vedrai che presto lo scopriranno.” “Sei sicuro? Mah! Dì un po': non sarai stato tu a buttarlo nel Po perché non ti voleva ridare la tua giacca?” Carlo sghignazzò ma ad Andrea quella battuta non faceva ridere. Il suo amico se ne accorse e cambiò argomento. “Il CUP ha delle belle proposte per dei soggiorni di studio in Inghilterra” disse Carlo. “Mi piacerebbe andarci.” “In Inghilterra, dove?” “A Bristol.” “Quelli con soggiorno presso famiglie?”“Si. Si spende poco e i corsi sono gratuiti. Non servirebbe amolto, ma si tratta soltanto di due settimane.”“Piacerebbe anche a me fare una vacanza in Inghilterra.Quando ci sono questi corsi?”“Ce n'è uno che parte il 15.”“Hai intenzione di andare?”“Prima dovrei convincere mia madre. Mah, vedremo.In quel momento, entrò nella sala Milla, la sorella di Carlo.“Cosa state facendo voi due?” chiese con aria svagata. Sembrava sorpresa di trovare Andrea a casa sua.“Dov'eri?” le chiese Carlo. “Credevo che fossi in negozio.” “Ci sono passata. La mamma ha detto che stasera tornerà verso le sette e mezza. E voi? State facendo finta di studiare?” “Senti Milla” disse Carlo. “Vedi di smammare. Noi stiamo studiando con grandissimo impegno. ”Milla si voltò verso Andrea e lo fissò con uno sguardo interrogativo. “Ciao” le disse lui. Lei storse la bocca in buffo sorrisetto. Portava dei jeans logori ed una maglietta girocollo verde che metteva in risalto il colore dei suoi occhi. Aveva i capelli tirati all'indietro, tranne una ciocca che le scendeva sulla fronte, quasi a coprire l'occhio sinistro. Pareva una ragazzina. Sempre guardando Andrea, Milla si rivolse a Carlo. “Io stasera non sono a casa, ho un baby sitteraggio.” “Dai Mazzoni?” “Si. Vedi di non creare casini in casa.” Così com'era arrivata, uscì dalla stanza senza salutare. “Fortunato tu che non hai una sorella” commentò Carlo. Due ore più tardi, Carlo
chiuse libri e quaderni, si alzò e si stirò le membra. “Le estenuanti ore di studio che caratterizzano le giornate degli iscritti ad Ingegneria meritano un compenso ludico” esclamò. “Adesso usciamo ed andiamo a prendere l'aperitivo. Ti va?” Andrea alzò gli occhi al cielo, ma non poteva sottrarsi a quell'invito. Gli amici li stavano aspettando per quello che era diventato un appuntamento tradizionale. Inforcarono le biciclette e si diressero verso il locale di ritrovo che era situato nei pressi di Porta Genova e dove, non appena la stagione lo permetteva, si poteva sedere su panche di legno tra i tavoli all'aperto. La compagnia di Andrea e di Carlo era ben rappresentata. C'erano naturalmente Fabrizio, Gilberto con Laura, Pippo Bisogni sempre con il cellulare attaccato all'orecchio e, sedute nella panca vicina, la compagnia delle ragazze intente a spettegolare ed a ridere in continuazione. E c'era anche Stefania Cattadori che quando vide Andrea distolse lo sguardo. Era ancora arrabbiata per essere stata abbandonata al cinema senza una spiegazione. Andrea si sedette vicino a Gilberto mentre Carlo si fiondò verso un angolo del dehors dove si stava svolgendo un'assordante partita a calcio balilla, un gioco che, nell'era delle playstations, era tornato di moda. “Sai che sei su Facebook?” disse Laura ad Andrea. “Io? Chi mi ci ha messo?” “Qualcuno che ti voleva bene. Ha scritto che sei affetto da incontinenza.” “Ancora per quella volta che sono uscito dal cinema? Che rottura! Ma non hanno altro a cui pensare?” “E vicino al tuo nome c'era una faccina con la bocca a sberleffo” aggiunse Gilberto. “Io so chi è stato ma non lo dico. Forse puoi capirlo da te” insistette Laura. “Non mi importa di Facebook. Lì si fa solo cazzeggio.” “Oh, si!” intervenne Fabrizio con ironia. “Noi intellettuali apprezziamo solo argomenti di alto contenuto..” “Dove andremo in vacanza..” “L'ultimo album dei Doors..” “E cosa è di moda per l'aperitivo” concluse Andrea. In quel momento gli suonò il cellulare Era Mariella Anguissola. La contessa in persona informava Andrea che l'indomani, alle dodici e trenta, si sarebbe recata in Questura perché aveva ottenuto un appuntamento con la dottoressa Di Marino. “Mi pare sia ora che si accelerino le indagini. Alla luce dei fatti di cui mi ha parlato, ho chiesto un colloquio per sollecitare gli inquirenti a trovare il responsabile della morte del mio Duccio. Non potrebbe venire anche lei, caro Dordoni?” Da quando Andrea l'aveva vista la volta precedente, la dottoressa Di Marino aveva perso un po' dell'aria materna che lui
ricordava. Quel giorno aveva l'aspetto di una donna in carriera, merito forse del nuovo taglio di capelli o del tailleur grigio che indossava. Andrea si era incontrato con la contessa Anguissola ed assieme si erano recati all'appuntamento chiesto dalla nobildonna alla Di Marino per avere ragguagli sul corso delle indagini tese a determinare le cause della morte di Duccio. La contessa portava un semplice abito nero di Armani, il famoso stilista, che lei conosceva personalmente essendo entrata nel giro delle sue amicizie e che un paio di volte aveva ricevuto al castello. A causa del lutto subito, non portava gioielli, ma certe eleganze sono innate e prescindono dall'abbigliamento. La dottoressa Di Marino, con gesto di cortesia, aveva atteso la sua ospite sulla soglia del suo ufficio. Quando aveva visto che assieme a lei vi era anche Andrea, aveva fatto un rapido ragionamento mentale. “Oh!” aveva esclamato, “Signor Dordoni..”, ma non aveva fatto commenti sulla loro contemporanea presenza. Aveva fatto accomodare con garbo la contessa sulla poltroncina davanti alla sua scrivania, mentre ad Andrea, che era rimasto in piedi, aveva detto che poteva sedere anche lui “se riusciva a trovare una sedia.” Sul ripiano della scrivania della dottoressa Di Marino era rimasto un vassoio con i resti di un toast ed una bottiglietta di acqua minerale piena a metà. Lei spostò il vassoio dicendo: “Scusate, ho appena finito il mio lauto pranzo. Prendete anche voi un caffè?” Senza
aspettare una risposta, premette il tasto di un interfono. “Guarini” disse, “puoi portare tre caffè, per favore?” Guardò la contessa e le chiese: “Come sta?” Questa fece un cenno di incertezza chiudendo gli occhi e la ringraziò per averla ricevuta, chiarendo però che non era per niente soddisfatta di come andavano avanti le indagini. Era ormai passato un mese da quando suo figlio era stato ritrovato nel fiume e non era ancora stato effettuato nessun arresto! “Forse la mancanza di risultati dipende dal fatto che la cosa non viene affrontata con la giusta decisione” disse la contessa. “Ho portato a questo colloquio il signor Dordoni perché volevo che le ribadisse di persona il fatto di essere stato presente al momento dell'omicidio e di aver visto chi ha ucciso mio figlio. Mi ha anche detto che ha fatto un identikit di quell'uomo che, tra l'altro, ha un aspetto caratteristico. Voi ora conoscete la sua età, sapete che porta la barba e che zoppica, non sarà poi tanto difficile rintracciarlo. Forse anche altre persone lo hanno visto su quel treno e..” “No” la interruppe la dottoressa Di Marino. “Nessuno pare lo abbia visto, al di fuori del signor Dordoni. Con questo non voglio dire che lei se lo è inventato” continuò rivolgendosi ad Andrea. “Però le indagini devono essere suffragate da prove dirette e per ora non siamo ancora riusciti a dare un'identità a quell'uomo misterioso, ma ci stiamo lavorando, mi creda. Posso assicurarvi che il nostro lavoro prosegue senza sosta.” Andrea, prima di arrivare all'appuntamento in Questura si era chiesto se avesse dovuto dire di aver visto l'uomo del treno al cinema quella sera di lunedì, ma non era più tanto sicuro del fatto suo. Il locale era buio, lui aveva visto solo una sagoma controluce e quando era uscito dal cinema... Non ne aveva parlato nemmeno con la contessa Anguissola: forse era il caso di lasciar perdere. Un agente in divisa entrò nell'ufficio e depose un vassoio metallico sulla scrivania, sul quale vi erano sistemati tre bicchierini di plastica contenenti i caffè che erano stati ordinati ed uscì. La dottoressa Di Marino li indicò ai suoi ospiti dicendo: “Forse bisognerà aspettare un attimo, mi paiono bollenti.” Andrea con coraggio lo buttò giù d'un fiato. La contessa Anguissola non guardò nemmeno il suo, intenta com'era a trovare argomenti che giustificassero la sua visita. “Eppure” disse, “le cose sono abbastanza chiare. Se non sbaglio, l'orologio che mio figlio portava al polso segnava l'ora in cui è stato compiuto il delitto. Mio figlio a quell'ora si trovava certamente su quel treno ed in quello scompartimento oltre al signor Dordoni c'era soltanto quell'uomo. Non ci sono dubbi su quello che è avvenuto.” La dottoressa Di Marino bevve con calma il suo caffè, poi prese una penna stilografica dalla scrivania ed incominciò a farla girare fra le dita.“Ecco” disse. “Cosa sarebbe avvenuto precisamente a suo parere?” “Che mio figlio è stato buttato dal treno! Ecco cos'è avvenuto.” Buttato dal treno. In che modo?” “Dal finestrino.” “Le pare che sia una cosa semplice buttare qualcuno da un finestrino? Abbiamo fatto delle indagini a proposito. In certi treni non è possibile abbassare il finestrino perché il vetro è bloccato e la ventilazione è assicurata dal sistema di aria condizionata.” “Se non dal finestrino, da una porta che dà sull'esterno.” “Mentre il treno è in corsa?” “Insomma, quel povero ragazzo nel fiume ci è ben finito!” “Questo è indubbio, come è indubbio che non si sia trattato di un incidente o di una disgrazia. Abbiamo visto i risultati dell'autopsia. Suo figlio aveva una frattura dell'osso occipitale.” “Mio Dio!” esclamò la contessa Anguissola. “Questo non lo sapevo. E questo dimostra ancora di più che quell'uomo lo ha colpito col bastone che aveva con sé, come ha detto il signor Dordoni!” “Non posso dire che lei non abbia una buona immaginazione” disse la dottoressa Di Marino ad Andrea. “Anzi, la sua ipotesi ha una sua logica, ma quello che manca del tutto in questo terribile caso è un movente. E' da qui che dobbiamo partire.” Poi, rivolta a Mariella Anguissola: “Avrà saputo che sono stati effettuati interrogatori in tutti gli ambienti che suo figlio frequentava. A Milano, all'Università, a Piacenza ed al paese. Se ben ricorda, abbiamo perquisito anche la sua stanza alla ricerca di qualche elemento che potesse dare un aiuto alle indagini. Se non si trova un movente, tutto diventa incerto ed incomprensibile. Per quale motivo quell'uomo che voi individuate come l'assassino, avrebbe compiuto il delitto? Conosceva suo figlio? In quali rapporti era con lui? Dov'è finita la borsa che portava con sé? Cosa c'era nel suo portafogli? Perché tanta ferocia nei suoi confronti? E' stato un regolamento di conti? Una vendetta? Ma quell'uomo di cui si parla non è mai comparso nelle testimonianze relative alle frequentazioni di suo figlio Duccio che lei stessa ha descritto come un giovane posato e responsabile. Non aveva niente da nascondere. Non frequentava ambienti equivoci o compagnie strane. E allora: perché proprio suo figlio? L'assassino lo ha scelto per caso? Era la prima volta che si incontravano?” Di fronte alle argomentazioni della dottoressa Di Marino, la contessa Anguissola aveva perso la sua iniziale irruenza ed anche Andrea rimaneva in silenzio rendendosi conto che aveva giudicato il fatto senza tener conto di tutte le possibilità esistenti. “Lei sa che suo figlio è stato sfregiato.” disse la dottoressa Di Marino a Mariella Anguissola. “Prima di essere ucciso gli è stata incisa una A sulla fronte con un coltello o con qualche oggetto appuntito. Che significato ha tutto questo? Come vede le cose non sono così semplici. L'indagine ha bisogno di tempo e di approfondimento. Ecco perché finora non abbiamo ancora effettuato nessun arresto: non ne avevamo il motivo.” Andrea, che fino a quel momento non aveva detto nemmeno una parola, si schiarì la gola e trovò modo di esporre l'idea che aveva avuto. “Trovare il significato di quella A è sicuramente importante. Potrebbe essere l'iniziale del suo nome, ma anche esprimere un pensiero astratto. Potrebbe esserci un collegamento tra quella A ed il motivo della sua morte. Potrebbe perfino essere l'iniziale del nome dell'assassino. La sua firma.” “No!” intervenne prontamente la dottoressa Di Marino. “La firma dell'assassino, no sicuramente.” Posò la penna che teneva in mano e prese a far passare la pila di cartelle contenenti le pratiche in corso che ingombravano la sua scrivania. “Ecco, questa..” disse sfilandone una e posandola davanti a sé. Poi continuò la ricerca fino a trovare, verso la fine della pila, l'altra che cercava. Con l'aria di voler dare spiegazioni razionali alle domande dei suoi interlocutori, si mise comoda guardandoli in faccia. Le cartelle che aveva davanti erano intestate con due nomi scritti col pennarello nero: “Pallavicini” l'una e “Landi” l'altra. Aprì la prima: “Un uomo anziano, un certo Fabrizio Pallavicini, nel mese di marzo dello scorso anno, muore cadendo dal terzo piano della propria abitazione di Piacenza. Presunto suicidio. Sulla fronte porta scritta ad inchiostro una P maiuscola.” Chiuse la cartella ed aprì l'altra. “Invece questo è un uomo più giovane, diciamo di mezza età: Gandolfo Landi. Nel novembre dello stesso anno, viene trovato cadavere a bordo della sua auto nel parcheggio di un complesso commerciale, pare a causa di shock anafilattico provocato dalla puntura di un insetto, ma sulla fronte gli è stata incisa la lettera L.” La dottoressa Di Marino chiuse la seconda cartella e disse: “Allora, cosa ne dite?” Mariella Anguissola era rimasta stupefatta. Stava cercando di afferrare il senso di quelle rivelazioni. Andrea si portò la mano alla fronte e mormorò: “Un serial killer!” “Proprio così” continuò la dottoressa. “Le modalità degli omicidi sono differenti l'una dall'altra, ma il particolare di contraddistinguere le vittime con l'iniziale del loro cognome ha una singolarità così evidente da poter affermare che questi tre omicidi sono stati commessi da una sola persona che procedesecondo un suo deprecabile piano criminale. Purtroppo abbiamo a che fare con un omicida seriale. Dico purtroppo perché la casistica ci insegna che questi individui agiscono secondo una logica staccata dalla realtà, secondo un'idea che prescinde dai rapporti interpersonali che di solito sono la componente principale del movente del delitto. L'indagine in questi casi è particolarmente difficile proprio perché il serial killer non ha rapporti diretti con le proprie vittime, anzi. A volte non le conosce nemmeno fino al momento in cui le uccide. Per lui non è importante chi siano, ma cosa siano.” “Mio Dio!” esclamò la contessa Anguissola. “Non riusciremo dunque mai a sapere chi ha ucciso il mio Duccio?” “Si tranquillizzi, signora” disse la Di Marino. “Sono sicura che riusciremo a prendere questo assassino. Una cosa che balza all'occhio è la connotazione delle vittime. Il collegamento tra i tre omicidi è evidente: tutte e tre queste persone sono discendenti di famiglie nobili, mi pare. E questo è un elemento sul quale posare la nostra attenzione. Pallavicini, Landi.. Ed ora Anguissola. Che cosa può accomunare questi nomi nella mente del serial killer? Potrebbe trattarsi di un odio generico che lui prova per l'aristocrazia oppure la sua è soltanto follia? Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, non è infrequente che questi soggetti abbiano disturbi mentali importanti, per esempio la schizofrenia. In qualche caso, un serial killer può letteralmente uccidere "seguendo le istruzioni di voci che ha nella sua testa" come conseguenza di esperienze di tipo allucinatorio. E' importante capire la motivazione dell'omicida per poterlo individuare e prevedere le sue intenzioni, perché non si sa se o quando si fermerà. Ecco, nel nostro caso bisogna trovarlo presto perché potrebbe colpire ancora: potrebbero esserci altre vittime! “Altri appartenenti a famiglie nobili?” chiese Andrea. “Potrebbe essere. Chi lo sa?” “Anche se le famiglie antica nobiltà sono ormai quasi scomparse” disse rassegnata la contessa Anguissola. E dopo una piccola pausa aggiunse: “Intendo parlare di vera nobiltà, s'intende.” Le rivelazioni della dottoressa Di Marino e la sua attenta analisi del caso avevano colpito Andrea, che si era reso conto che il lavoro della polizia non era superficiale come aveva pensato in un primo momento, ma accurato e complesso. La Di Marino aveva dimostrato di essere preparata ad affrontare l'indagine sia da un punto di vista tecnico che psicologico e la sua dissertazione sulla personalità dei serial killer doveva essere frutto di uno specifico corso di studi. Se poi pensava alla pila di pratiche che giacevano sulla sua scrivania, tutte da trattare con diversa attenzione, provò ammirazione per quella donna. Il suo non doveva essere un lavoro né facile, né divertente ed al momento del congedo, cercò di esprimerle questa sua convinzione, scusandosi del tempo che le avevano fatto perdere. La contessa Anguissola ringraziò la dottoressa per la sua disponibilità, dichiarò che riconosceva in lei una professionalità che avrebbe portato solo buoni frutti e la invitò a farle visita al castello una domenica pomeriggio per il tè. Ormai parevano due vecchie amiche. L'immagine dell'uomo del treno però non lasciava la mente di Andrea e l'idea che avrebbe potuto essere il responsabile di altri omicidi continuava a riempire la sua fantasia. Era stato colpito sopratutto dal fatto che l'assassino avesse ucciso per ben tre volte i discendenti di antiche famiglie nobili piacentine e che aveva contraddistinto le sue vittime con la lettera iniziale del loro cognome. Questo particolare pareva voler dare un significato al suo comportamento e costituiva un enigma che sconfinava nel mistero. Un mistero che Andrea avrebbe voluto svelare. Filippo Farnesi si svegliò nel buio più completo e sentì il rumore sordo e monotono della pioggia che batteva sul tetto della casa. Stette in silenzio ed incominciò a sentire un rumore di passi, ma non erano veramente passi. Erano le sue pulsazioni che, mentre teneva la testa sul cuscino, gli rimbombavano nell'orecchio. Poi sentì il rumore di un piede che strisciava sul cemento del cortiletto, ora davanti a casa, ora dietro, come se vi girasse
attorno. Prima di andare a dormire aveva preso una pastiglia di Halcyon, perché odiava restare a letto senza poter prendere sonno, ma probabilmente il suo effetto era già finito. Sperava da un momento all'altro di vedere le prime luci dell'alba, ma non sapeva che ora fosse. Accese la torcia e vide che le macchie umide sul soffitto si allargavano e che alcune gocce d'acqua stavano cadendo sul letto. Il mattino seguente ebbe un accesso di sternuti ed incominciò a gocciolargli il naso. La pioggia aveva smesso di cadere e Filippo mise fuori la testa guardandosi attorno. Le case vicine alla sua erano silenziose, tutto era silenzioso attorno a lui. Si stiracchiò e sbadigliò rumorosamente e subito, da qualche parte, un cane si mise ad abbaiare. Aveva messo dalla legna nella stufa: l'accese con dei fogli di giornale e mise a bollire l'acqua per il caffè. Un nuovo giorno era incominciato. Il padre di Andrea lavorava in una ditta di impiantistica ed usciva di casa alle 7.30. Sua madre aveva un piccolo negozio di abbigliamento per bambini che gestiva con la sorella ed anche lei doveva alzarsi piuttosto presto. Era impossibile per Andrea dormire fino ad un orario decente perché anche suo fratello Luca doveva alzarsi per andare a scuola. La madre di Andrea, naturalmente, prima di uscire doveva preparare la colazione per entrambi e fare quelle raccomandazioni che una madre fa sempre ai propri figli. Ricordare loro le incombenze della giornata, sgridarli per il loro modo di vestire e suggerire ad Andrea, le commissioni che doveva fare. “Ricordati di andare in lavanderia a ritirare la giacca di tuo padre e il mio vestito verde. Poi vai al mercatino a fare un po' di spesa. Il biglietto e i soldi sono sul tavolo in cucina. Alzati un po' alla svelta e non stare attaccato al computer tutta la mattina. Quand'è che devi andare dal dentista? E metti un po' d'ordine in questa camera. Almeno il letto potresti rifarlo!” “Si..” “Dici sempre si, ma poi ti dimentichi sempre qualcosa. Sei andato a chiedere per le supplenze? Potresti trovarti qualche lavoretto, almeno d'estate. Invece sei sempre lì a pensare dove andare in vacanza. Hai visto il tuo amico Carlo? Va a fare pratica allo studio del geometra Sangalli..” “Che pratica? E poi non lo pagano..” “Non importa. L'importante è darsi da fare. E sua sorella ha trovato un lavoro alla biblioteca comunale. Su, animo! Io adesso vado, ci vediamo all'una.” Andrea non sapeva che la sorella di Carlo, lavorasse in biblioteca. Si chiamava Camilla, ma ormai per tutti era Milla. Camilla era un nome così così, ma Milla era speciale. Era stato a studiare a casa sua, ma suo fratello non gli aveva parlato di lei, né del suo lavoro. D'altronde Andrea non poteva chiedere all'amico notizie su sua sorella per non svelare quel certo interesse che aveva per lei. Il bello era che tutti i suoi amici pensavano proprio questo, anche se lui non aveva fatto niente per dimostrarlo. Ma forse il suo apparente distacco rendeva credibili certi sospetti. Già. La biblioteca! Anguissola, Landi, Pallavicini.. Mezz'ora dopo Andrea prese la bicicletta ed uscì. Abitava dalle parti dello Stadio, nella zona a sud della città. Da casa sua, quando la squadra di calcio del Piacenza giocava in casa, sentiva i boati o i cori dei tifosi. Percorse via Martiri della Resistenza, via Nasolini e poi entrò nella parte vecchia della città oltrepassando le antiche mura. All'incrocio tra via Giordani e lo Stradone Farnese una moto, che era passata col rosso, gli tagliò la strada. Maledizione! Frenò di colpo ed evitò l'incidente, ma era furibondo per il comportamento di quel disgraziato. L'uomo alla guida si voltò appena a guardarlo e tirò dritto. Sotto il casco, Andrea vide una barba scura che gli ricordò qualcosa. Era l'uomo del treno? Addio, ormai lo vedeva dappertutto! Prima al cinema e adesso in moto. Gli augurò di andarsi a schiantare contro un paracarro e riprese a pedalare. Andrea arrivò nella piazzetta davanti alla chiesa di San Pietro, accanto alla quale vi era l'ingresso della Biblioteca Passerini Landi. Landi.. Pallavicini, Anguissola.. Entrò dalla porta a vetri e si diresse lungo l'ampio corridoio che portava alla reception, ai lati del quale da una parte vi erano le postazioni di lavoro con il collegamento ad internet e dall'altro la lunga fila di armadi metallici contenenti ancora, in ordine alfabetico, i cartellini relativi agli autori ed ai testi. Davanti al bancone vi era una donna sulla cinquantina in attesa di poter avere una risposta alla propria richiesta. Le bibliotecarie erano due: una signora con gli occhiali intenta a parlare al telefono ed una ragazza più giovane occupata alla tastiera di un computer. Quella che era al telefono e che pareva la capa, parlava di pubblicazioni annuali e semestrali, di tesi universitarie e di mancanza di organizzazione da parte del Provveditorato. Mentre Andrea rimaneva in attesa davanti ad una vetrina che conteneva una serie di opere dedicate al tema della Resistenza, vide sbucare da un angolo del corridoio una ragazza che conosceva: Milla. Portava tra le braccia una pila di libri che dovevano avere il loro peso perché camminava a piccoli passi e con la schiena dritta. Contento di averla incontrata senza cercarla, le andò incontro e la salutò. Lei gli diede un'occhiata e gli disse: “Che ci fai qui? Aspetta un attimo.” Andò al bancone della reception e posò i libri sul ripiano. “Ci sono tutti?” le chiese la capa smettendo per un attimo di parlare al telefono. “Manca solo il Bruzzi” disse Milla. Poi si rivolse ad Andrea: “Ciao” disse. “Hai bisogno?” Tutte le volte che Andrea incontrava Milla e le parlava, provava sempre la stessa sensazione: in un primo momento gli pareva che fosse una ragazza come ce ne sono tante e che non destasse un interesse particolare, ma poi, man mano che aveva a che fare con lei, sentiva crescere dentro di sé un'emozione perché il suo viso pareva illuminarsi gradatamente fino a diventare per lui qualcosa di speciale. Questo era dovuto alla vivacità dei suoi occhi, alla mobilità dei suoi lineamenti, ai piccoli movimenti che faceva con la bocca ed al suo modo di guardarti. Alla fine si sentiva conquistato da lei e la trovava bellissima. Milla aveva gli occhi castani come i capelli, che portava tirati sulla nuca mentre sul davanti formavano una ciocca che le scendeva sulla fronte. Era vestita con i jeans ed con una polo rossa. Ai piedi aveva due scarpette basse rosse ed al polso portava un orologio con un cinturino, rosso anche quello. “Allora?” chiese Milla. “Devo fare una ricerca..” “Per l'università?” “No. E' una cosa un po' strana.. Riguarda alcune famiglie nobili piacentine.” “Famiglie nobili..” “Anguissola, Pallavicini..” “Ah! Bell'argomento.” “E' per.. Non so come dire..” “Sai che sono un po' nobile anch'io?” Rise. “O meglio, adesso non più, ma mio padre mi diceva che suo nonno.. cioè, mio nonno.. Oh Dio! Adesso mi metto a dire stupidaggini..” Con un gesto involontario si scostò i capelli dalla fronte e fece un sorriso di scusa. “Cosa ti interessa di queste famiglie?” “Ancora non so bene. Vedi, si tratta di qualcosa che le accomuna.. Anche Landi dovrei cercare.” “Eh, eh..” Milla assentì. “Perché è successo che..” Doveva dirglielo? “Mi ci vorrebbe un'ora per raccontarti tutto.” “Raccontarmi che cosa?” “Insomma, sto cercando qualcosa che non so nemmeno io.” “La ricerca serve a questo.” “Dici? Ma non so nemmeno dove cominciare.” “Allora non hai speranza. Se vuoi ti posso aiutare a trovare i testi che parlano di questi argomenti. Con la ricerca sui nomi si può avere la lista di tutte le pubblicazioni esistenti in biblioteca relative a questi soggetti. Però dovrebbero avere il nome nel titolo. Ti interessano anche come autori?” No. Si. Potrebbe darsi.” “Indicazione perfetta.” Milla rise di nuovo. Ad Andrea piaceva vederla sorridere. “O forse dovrei cercare 'Famiglie nobili piacentine'?” “Mi pare un po' dispersivo. Forse se mi spiegassi bene che cosa vuoi sapere..” “Hai tempo?” Milla guardò l'orologio. “Quanto tempo?” “Mezz'ora?” “Dieci minuti” decise. “Vieni, andiamo a bere qualcosa” e si diresse verso la sala di lettura.”“C'è un bar qui dentro?” “Non illuderti. Distributore automatico.” Ventidue anni lui, diciannove lei, seduti ad un tavolino vicino alla vetrata che dava sul cortiletto interno, Andrea e Milla sembravano due studenti in attesa di essere chiamati ad un esame. Il loro atteggiamento era di studio reciproco, come se tra di loro potesse, da un momento all'altro, nascere una discussione. Milla sorseggiava un caffè da un minuscolo bicchiere di carta, mentre Andrea teneva davanti a sé un thé caldo senza decidersi a berlo. “Scotta” si scusò. Poi, ancora incerto sul modo di affrontare l'argomento degli omicidi, le chiese: “Da quando lavori qui?” “Tre mesi. Ho un contratto di sei, poi si vedrà.” “Ti piace?” “Si, è una cosa precaria, ma mi lascia il tempo per fare altro. Lavoro fino all'una e due pomeriggi alla settimana seguo un corso di incisione all'Istituto Gazzola.” “Interessante.” “E durante il week end faccio la babysitter. Sai, ci sono dei genitori che vogliono prendersi una serata in libertà senza bambini attorno e chiamano me.” “Tu che studi hai fatto?” “Sono diplomata al Liceo Artistico: la fabbrica dei disoccupati.” Milla fece una risatina sarcastica e si scostò i capelli dalla fronte. “E tu?” Io dovrei laurearmi il prossimo anno. Poi chissà. Mio padre sta dandosi da fare per farmi entrare nella ditta dove lavora lui, quando sarò laureato.” “Che sarebbe?” “Una ditta di impiantistica, ma a me piacerebbe andare a fare un master in America. Potrei trovare lavoro là.” “Mio fratello parte per l'Inghilterra. Sai, per uno quei soggiorni di studio.” “Si, me ne ha accennato. ” “Ha deciso solo da poco, ma mia madre non vorrebbe che andasse perché ha in programma un viaggio a Lourdes ed io resterei da sola a casa.” “Ti dispiacerebbe?” “Non vedrei l'ora!” Milla guardò l'orologio. “Già” disse Andrea. “Il motivo della mia ricerca, vero? Non so se.. Beh, io ti racconto tutto, poi giudicherai tu.” Prima in modo titubante, poi sempre più accalorato, Andrea prese a parlare di quella storia che, in certi momenti pareva incredibile pure a lui. Raccontò a Milla dello scambio delle giacche, dell'uomo del treno, di come il corpo di Duccio Anguissola fosse stato trovato nel Po e dei suoi sospetti. Le raccontò dei colloqui che aveva avuto con la dottoressa Di Marino, la prima volta da solo e la seconda con la contessa Anguissola, della scoperta che altri due omicidi erano stati eseguiti in precedenza lasciando un marchio sulla fronte delle vittime e della sicura esistenza di un serial killer in tutta quella faccenda. Milla stette a sentirlo con gli occhi sgranati, senza dire una parola e quando Andrea finì il suo racconto disse soltanto: “Pazzesco!” “Vero?” disse Andrea. “Adesso puoi capire perché volevo cercare qualcosa che giustificasse tutto questo, che mi desse uno spunto per trovare una motivazione a questa serie di omicidi.” “Tu?” Milla lo guardò perplessa. “Beh, sono stato io a vedere l'assassino e a descriverlo alla Polizia.” “E la Polizia cosa ti ha detto?” “Che le indagini sono in corso, ma io penso che non sia stato per caso che siano state uccise delle persone che avevano dei nomi nobili e poi il fatto che abbiano delle lettere scritte sulla loro fronte.. Dai! E' troppo bello!” “E il serial killer è uno che zoppica..” “Si, sono sicuro che è lui. E deve essere uno che abita qui a Piacenza perché l'ho visto al cinema e forse anche stamattina mentre venivo qui.” “Che se ne andava in giro tranquillamente zoppicando..” “Ma no! Girava in moto, anzi, quasi mi prende sotto!” Milla girò la testa e sbadigliò. “E' quasi ora che vada” disse. “Non mi credi, vero?” “Non è che non ti credo.. Solo che..” “Che cosa?” “Che.. Il fatto del serial killer.. Insomma.. Forse il motivo è più banale. Ciascun caso potrebbe essere staccato dagli altri. Uno che aveva subito un torto ed ha voluto vendicarsi, oppure una moglie, un'amante.. Uno che aspira ad ereditare... Forse quello è caduto nel Po per una disgrazia o si è suicidato. O per forza deve essere stato un anarchico che odia i nobili?” “Ricordati delle lettere incise sulle loro fronti. E' un fatto troppo indicativo. No, l'assassino è uno solo.” “Sarà..” disse Milla accennando ad alzarsi. “Comunque, se vuoi fare la tua ricerca, vai a compilare la scheda e ti manderanno al primo piano dove ci sono le pubblicazioni.” Andrea era deluso dello scetticismo di Milla. “Un altro giorno” disse. “Oggi è tardi anche per me.” “Da quello che ho capito, un giorno non ti basterà.” “Intanto potrebbe venirmi un'idea.” “Forse potresti tornare qui per vedere me” disse Milla guardandolo con malizia. Ma intanto gli sorrideva. Nello stesso momento, Filippo Farnesi stava filando in moto per tornare nel suo buco. Così chiamava la piccola casa dove abitava dopo essersi isolato dal resto del mondo: il suo buco. Il casco gli dava fastidio e non si sentiva per niente bene, ma il suo animo era leggero. Aveva trovato dove abitava la sua ultima vittima e presto la sua vendetta si sarebbe completata. L'indirizzo che aveva letto sull'elenco telefonico era quello giusto: aveva visto che c'era il suo nome nella pulsantiera dei campanelli. Così, malgrado il mal di testa, canticchiava tra sé le parole di una musichetta che era di moda quando era giovane. Quando arrivò alla periferia della città, si trovò la strada sbarrata da cartelli di lavori in corso. Si stava rifacendo la segnaletica orizzontale e una corsia era chiusa. Si poteva procedere solo con senso unico alternato. Filippo avanzò fino a trovarsi davanti un addetto ai lavori che teneva in mano una paletta e gli mostrava il segnale di stop. “Ehi tu, barbone! Non la vedi la paletta? Non puoi passare. Aspetta il tuo turno.” Filippo non gli diede retta: diede un colpo di acceleratore e proseguì. Mentre si allontanava fece in modo di urtare tutta una serie di birilli a strisce bianche e rosse che delimitavano la zona inagibile, facendoli cadere. Pezzente!, pensò. Fermami se ti riesce. E sfrecciò via. Le ricerche di Andrea in biblioteca furono un buco nell'acqua. Un vero flop. Riuscì a trovare alcuni libri relativi alle famiglie Anguissola, Pallavicini e Landi, ma da quelli non ottenne nessun risultato. Degli Anguissola trovò notizie di Sofonisba, che fu una delle prime esponenti femminili della pittura europea; di Giana Anguissola, autrice di libri per ragazzi ed un testo di Orazio Anguissola Scotti intitolato “La famiglia Anguissola” che ricostruiva la sua storia fin dai tempi del Medioevo. In catalogo vi era anche “Il conte Giovanni Anguissola e la congiura dei nobili”, ma era una storia che riguardava il quindicesimo secolo e poi non era disponibile. Dei Pallavicini si parlava solo per l'ode del Foscolo “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo” pubblicata nel 1802 ed i Landi erano ricordati per Gaspare Landi, pittore neoclassico a cui Piacenza aveva dedicato una via. Sopratutto, niente che accomunasse i tre nomi in fatti più recenti, niente che potesse dare un appiglio al movente di un killer. Evidentemente quella non era la strada giusta da seguire. Forse, pensò Andrea, dovrei far passare i giornali degli ultimianni o andare a parlare con le famiglie delle vittime per cercare di scoprire qualcosa. “Ma cosa sei tu?” gli diceva Milla quando si trovavano in biblioteca. “Sherlock Holmes? Secondo me stai solo giocando.” In un certo senso era vero. Quel caso lo appassionava come un gioco enigmistico. “E poi, cosa t'importa?” le disse una volta Milla. “Guarda che al mondo c'è dell'altro. Non ti sei nemmeno accorto che ho cambiato pettinatura.” Il cambiamento di pettinatura di Milla consisteva nel fatto che la ciocca di capelli che prima le scendeva sulla sinistra della fronte, ora scendeva a destra. Andrea la guardò e le disse: “Forse ho un'idea.” “Allora, aspetta che mi siedo.” “Ho pensato una cosa. Ascolta: mettiamo in ordine le lettere degli omicidi. Il primo è stato quello di Pallavicini: P. Il secondo quello di Landi: L e quest'ultimo quello di Anguissola: A. Mi segui? La mia idea è che le lettere siano legate fra di loro in modo da formare una parola. Milla lo guardava perplessa. “Se le leggi di seguito, ottieni PLA. Ecco, bisogna partire da qui, perché sono convinto che il killer voglia lanciare un messaggio.” “Beh, scusa, ma PLA che cosa vorrebbe dire?” “Non lo so, potrebbe essere una sigla..” “Di che cosa? Del Partito Lavoratori Assassini?” “Non scherzare con queste cose. Si tratta di una faccenda seria.” “E allora, dimmelo tu.” “Non so.. potrebbe essere anche l'inizio di una parola. Forse, nel suo piano, l'assassino vuole scrivere sulla fronte delle sue vittime un termine compiuto.” “In che senso?” “Nel senso che.. Magari ha intenzione di uccidere altre persone e di formare una parola più lunga.” “Stai dicendo qualcosa di terribile..” “Lo so, ma potrebbe essere una possibilità. D'altronde, come puoi trovare una logica nelle intenzioni di un pazzo? Perché quello mezzo pazzo lo è di sicuro.” Milla continuava a fissare Andrea, incerta se trovarlo un genio o considerarlo completamente svitato. “Ma scusa, quale parola potrebbe incominciare con PLA? Plaza? Platone? Placebo? Quanti ne dovrebbe uccidere ancora per scrivere Playstation?” Andrea guardò lontano e non disse più niente per un po'. I suoi pensieri viaggiavano veloci sul mare alla ricerca di una terra ferma. “Senti” disse poi. “Stasera ti andrebbe di andare a mangiare una pizza?” “Stasera? Mi stai chiedendo di uscire con te?” “Uscire.. Andiamo soltanto a mangiare una pizza. Ti va?” “Perché? Dire che vuoi uscire con me è troppo impegnativo?” “No. Ecco: vuoi uscire con me stasera?” “Beh, era ora che me lo chiedessi!” Era scesa la sera. Nel buco, c'era silenzio e Filippo era seduto vicino al tavolo della cucina, intento a scrivere su di un quaderno a righe, simile ad uno di quelli che usava un tempo per andare a scuola. Pensava che mettendo in ordine i suoi pensieri avrebbe trovato un motivo di consolazione. Non che avesse dei dubbi, ma un'ansia sottile aleggiava intorno a lui. La lampada attaccata al soffitto spargeva la sua luce sul tavolo e sulla pagina del quaderno che era ancora bianca. Le parole sembravano non voler uscire dalla penna, sebbene la sua testa fosse piena di pensieri e di frasi. Era la mano che non voleva partire. Nel silenzio, Filippo sentì un rumore provenire dalla stanza accanto. Un piccolo colpo sul legno. Capita spesso che il legno faccia dei piccoli schiocchi quando la temperatura cambia o durante le giornate di vento eppure Filippo provò qualcosa di strano. Tese l'orecchio, ma non sentì più nulla. Solo quando, alcuni minuti dopo distolse l'attenzione ilrumore si ripeté. Sembrava che la nocca di una mano desse un colpetto sul tavolino del soggiorno. Toc! A Filippo si gelò il sangue. Restò senza fiato. Era incapace di muoversi o di dire una parola. Ed ecco ancora un rumore: uno colpetto leggero sul vetro della credenza nella stanza accanto. “Chi sei?” chiese Filippo. Subito il suo pensiero era andato a quel ragazzo, l'Anguissola. Cacciò la paura ed andò ad accendere la luce in soggiorno. Non c'era niente fuori posto: niente era caduto sul tavolino, né all'interno della credenza. Forse era stata una tapparella che si era sistemata o la plastica di una bottiglia di minerale che aveva fatto una bolla. Tornò a sedersi in cucina, ma era certo che quei piccoli rumori rivelassero la presenza dello spirito di una delle sue vittime. Si trattava del Landi? O del Pallavicini? “Maledetto!” gridò Filippo. “Hai meritato di morire. Lasciami in pace.” Ma già sapeva che non avrebbe avuto pace per quella notte. Il sonno non sarebbe arrivato e lui non voleva essere prigioniero di una suggestione. Uscì di casa senza chiudere la porta a chiave. Salì sulla moto e partì. Milla sarebbe passata a prendere Andrea con la cinquecento di sua madre, che era andata a fare un viaggio a Lourdes con quelli della parrocchia. “Dove si va?” chiese Andrea a Milla nel salire a bordo. “Pensavo di andare a Rivergaro. C'è un bel posto all'aperto. Ci sono stata l'anno scorso con...” Andrea la guardò. “A Rivergaro? Di sera? Da quanto tempo hai preso la patente?” “Da tre mesi. Perché? Non ti fidi?” “Mmm..” “Guarda che io guido bene, quando guido. Il fatto è che lo faccio raramente perché non ho sempre a disposizione la macchina. Un po' mia madre e un po' mio fratello.. Questa sarebbe la prima volta che uso i fari. Spero di ricordarmi dove sono gli abbaglianti.” “Speriamo di uscirne vivi” disse Andrea. “Mettiti la cintura” disse Milla guardandolo male. Partirono. La ragazza quella sera si era messa in ghingheri. Indossava un top senza maniche ed una gonna corta che le arrivava sopra il ginocchio. “Come sei elegante!” le disse Andrea. “Oh, grazie!” ma si voltò a sorridere. Mentre guidava, Milla teneva lo sguardo fisso davanti a sé e non era per niente rilassata. “Tu non parlarmi mentre guido, ma ti dico subito che io chiacchierando mi rilasso. Certi si distraggono a parlare in macchina, invece per me è uno scarico della tensione. Hai capito? Di solito non sono una gran chiacchierona, ma quando sono alla guida non sto zitta un secondo. A proposito: grandi novità!” “Di che genere?” “Nel caso del tuo serial killer. Devi sapere che, non so se te lo ricordi, nei libri che avevi chiesto di visionare in biblioteca ce n'era uno non disponibile. Ti ricordi?” “Si, può darsi.” “Sai perché non era disponibile? Perché era stato prelevato due anni fa e non è più stato restituito. E sai qual'era il libro? Quello che si intitolava “Il conte Giovanni Anguissola e la congiura dei nobili”. Me ne sono accorta nel sistemare le schede e ho visto che mancava ancora. Sono andata a vedere la pratica ed ho trovato la documentazione. Il prestito dura un mese. Se il libro alla scadenza del termine non viene restituito, viene mandata una raccomandata con avviso di ricevimento a chi l'ha prelevato, con l'invito a restituirlo. A seguito della terza raccomandata, se l’utente persiste nel non restituire il volume è escluso dalla frequenza della biblioteca, è segnalato al Ministero per i Beni e le Attività culturali per l'esclusione dalle biblioteche pubbliche statali ed è denunciato all'autorità giudiziaria.” “Perché ti sei tanto interessata a quel libro? Avrebbe a che fare qualcosa con..” “Adesso sentirai. Ho telefonato a quella signora che aveva ritirato il libro chiedendo spiegazioni. Si chiama Cardano ed è di Piacenza. Sul primo momento sembrava aver dimenticato tutto, ma quando le ho detto che le avevamo mandato le raccomandate si è ricordata. Si è scusata tanto, dicendo che aveva passato un periodo terribile e non aveva più pensato a restituire il libro. Mi ha raccontato una storia pietosa: suo marito aveva avuto un grave incidente, era stato investito da un'auto ed era vivo per miracolo. Era stato ricoverato in vari ospedali, ma non si era più ripreso. Aveva perso l'uso di una gamba, ma sopratutto aveva subito danni a livello cerebrale. Si era allontanato da casa ed ora viveva da solo in una vecchia casa di campagna. Non aveva più rapporti con nessuno e rifiutava di vedere persino la moglie e la figlia. Lei era disperata perché lui non si curava e non sapeva che cosa facesse e come vivesse.. Era andata lei a prendere il libro in biblioteca perché suo marito glielo aveva chiesto quando era ancora in ospedale.” Andrea incominciava a capire che cosa stesse pensando Milla: che il serial killer potesse essere il marito di quella donna! “Pensi che.. quell'uomo..” “Scusa, se non è lui, ci manca poco. Ne ha tutte le caratteristiche: il fatto che abbia perso l'uso di una gamba, che abbia avuto dei danni cerebrali, che viva da solo e si comporti in modo strano..” “Però quando sono stato io a parlarti di questa cosa del serial killer, hai fatto una faccia.. come se stessi ascoltando una favola da raccontare ad un bambino.” “Non fare il permaloso. Tu allora ragionavi per ipotesi, io invece sto portando dei fatti. Quel libro parla di un Anguissola, che se non sbaglio è il cognome della terza vittima, in relazione a Pierluigi Farnese, Duca di Piacenza.” “Che cosa avrebbe fatto questo Farnese?” “Lui niente. Solo che i nobili piacentini hanno fatto una congiura per ammazzarlo.” “E questo quando sarebbe successo?” “Non so, il libro è del 1922, ma la storia della congiura risale a molto tempo prima.” “Beh, allora perché adesso un serial killer dovrebbe uccidere uno che si chiama Anguissola?” “Non ne ho la minima idea ed a dire la verità mi interessa poco o niente.” “Allora, perché mi hai detto grandi novità?” “Perché credevo interessasse a te. A me ha colpito solo il fatto che il marito di quella donna sia un pazzo che va in giro zoppicando.” “Sua moglie non ti ha detto perché a suo marito interessava quel libro?” “No, non me l'ha detto, ma mi ha detto che, se lo trovava, lo avrebbe subito restituito. Infatti, un'ora dopo è arrivata in biblioteca con il libro. Era ancora fra le cose del marito che lei aveva ritirato quando stato dimesso dal Centro di Rieducazione, ma se non ti interessa, come non detto.” “No, beh.. Quando vengo in biblioteca, posso darci un'occhiata.” “Puoi farlo prima. Ce l'ho qui nella borsetta.” “L'hai portato via?” “Ho pensato che lo volessi leggere subito. Tanto, per la biblioteca, giorno più, giorno meno..” “Bene. Se incomincio a leggerlo quando vado a letto, non farò fatica ad addormentarmi.” “Che antipatico!” Nello spazio all'aperto della pizzeria, i tavoli erano ricoperti di tovaglie rosa. Alcuni lampioni, posti adeguatamente, rischiaravano con una luce morbida l'ambiente, creando un'atmosfera tranquilla che alcuni bambini, a stento tenuti a freno dai genitori, cercavano di distruggere. “Sai cosa mi hanno detto oggi?” disse Milla ad Andrea. “Che assomiglio a Milla Jovovich.” “L'attrice?” “Si, quella che ha fatto Giovanna d'Arco.” “Non l'ho visto. E chi è stato a dirtelo?” “Uno..” “Della biblioteca?” “Secondo te, io conosco solo gente che viene in biblioteca? No. Se ci tieni a saperlo, è uno che viene ad incisione. Un bel ragazzo. Porta i capelli lunghi come gli artisti dell'ottocento: dovresti vederlo!” “Non è che ci tenga molto..” “Mmm.. Non sarai mica geloso!” “Perché?” “Mah..” Milla gongolava. “Secondo te, le assomiglio davvero?” “A Milla Jovovich? Nel nome sei uguale, identica.” “Che antipatico!” La ragazza mise il broncio e si dedicò alla sua pizza senza più dire niente. Andrea la guardò di sottecchi. La luce dei lampioni creava sul volto di Milla una zona di luce dorata e le sue braccia formavano una linea armoniosa che brillava nel buio. Teneva gli occhi bassi mentre masticava adagio. Poi prese il bicchiere e bevve un sorso di birra con lo sguardo girato da una parte. “Posso chiederti una cosa?” disse Andrea. “Tu hai un ragazzo?” Senza voltarsi, lei alzò due dita. “Due, eh? Che diresti di fare tre con me?” A quelle parole, Milla si dimenò un po' sulla sedia e fece un sorrisetto ironico per seguire il tono di Andrea. “Da come l'hai detto” disse, “sembra una battuta. Non potresti sforzarti un po' di più?” “Si” rispose Andrea. Il suo cuore incominciò a battere forte. “Milla, in questi giorni ci siamo visti spesso, ma ogni volta che accadeva, per me era sempre un'emozione. Tutte le volte che ci incontravamo ero felice perché capivo che tu eri una ragazza speciale. In principio sono venuto in biblioteca per i libri, ma poi ci sono venuto solo per te. Sai cosa c'è? Che tu mi piaci ed io non so dirtelo come vorrei..” Milla aveva gli occhi che le brillavano per l'emozione. Allungò la mano fino a stringere quella di Andrea. “Mm, mm. Grazie” annuì e poi, con un buffo sorriso: “Non avresti potuto dirlo in modo migliore.” Non appena Milla arrivò a casa, andò in bagno e si guardò allo specchio. “Mio Dio!” esclamò cercando di sistemarsi i capelli. Aveva il viso arrossato e le pareva di avere delle borse sotto gli occhi. Si tolse i vestiti ed entrò nel vano doccia. Quando l'acqua incominciò a scorrerle addosso, sentì che le emozioni della serata si stavano attenuando e che in lei ritornava la calma. Una calma beata che la faceva sentire felice. Cos'era successo? Beh, praticamente.. si era fidanzata! Quando Andrea le aveva detto che lei era la sua ragazza, si era sentita salire le lacrime agli occhi. Che momento! Quel testone però, ce ne aveva messo del tempo per dirglielo, ma adesso era successo e niente altro le importava. Si sentiva come se le parole di una canzone fossero state scritte per lei: “Tutto il resto è un rumore lontano, una stella che esplode ai confini del cielo.” Si mise a cantare sottovoce mentre si infilava l'accappatoio e pensava a lui. “Voglio stare con te - inseguire con te - tutte le onde del nostro destino.” Andrea non sarà stato uno dei bellissimi, ma a lei cosa importava? Aveva occhi intelligenti ed un'espressione che procurava simpatia. Quando poi restava per un attimo con le parole in sospeso, ti aspettavi che dalle sue labbra sgorgassero fiori per te. O meglio, che fiorissero. Sgorgassero fiori! Che stupida! Quando erano usciti dalla pizzeria, lui le aveva detto: “Non sono neanche le undici” come se non si volesse più staccare da lei. E quando erano saliti in macchina, lei si era voltata verso di lui e si erano baciati. Era la prima volta e succedeva nel parcheggio di una pizzeria. Pazzesco! Anche durante il viaggio di ritorno si erano scambiati dei baci pericolosi, nel senso che avevano rischiato di distrarre Milla dalla guida col rischio di farli uscire di strada! Baciami ancora, Baciami ancora! Era passata l'una quando Milla andò letto. Non aveva paura di stare sola in casa, ma sua madre sicuramente sarebbe stata in apprensione. Paura di che cosa? Aveva già 19 anni, non era più una bambina. Chiuse gli occhi, ma nella sua mente i pensieri giravano come trottole e il sonno tardava ad arrivare. Così sentì distintamente il suono del suo cellulare provenire dalla borsetta che era posata sul tavolo in salotto. “Che orario! Non sarà mia madre, spero” pensò Milla. Si alzò e andò ad aprire il telefonino. Andrea! “Non puoi più restare nemmeno un minuto senza di me, vero?” gli disse. “Eri a letto?” “Si.” “Dormivi?” “No.” “Anch'io non avevo sonno e mi sono messo a leggere il libro.” “Che libro?” “Quello che mi hai dato tu stasera. Ho scoperto delle cose sconvolgenti.” “Addirittura!” “Ascolta. Il libro parla di una congiura che c'è stata contro il duca di Piacenza di allora. Pierluigi Farnese.” “Allora, quando? “Nel quattrocento.” “Millequattrocento?” “Si, nel quattrocento. Prima incomincia a fare un ritratto della società dell'epoca ed a descrivere le condizioni politiche e sociali..” Milla sbadigliò sonoramente. “Scusa, mi telefoni per questo all'una di notte? Pensavo volessi dirmi qualcosa di carino..” “Aspetta. Poi racconta di una congiura che ha portato all'uccisione del Duca. Ebbene, sai chi erano i congiurati? Pallavicini, Landi, Anguissola e.. Confalonieri!” “Confalonieri?” “Si. E racconta che prima di essere ucciso, il Duca aveva ricevuto un avvertimento. Di guardarsi da PLAC. PLAC! Hai capito? Come le iniziali che il serial killer ha scritto sulla fronte delle sue vittime! E adesso gliene manca solo una. La C.” Milla era confusa. Che cosa voleva farle intendere Andrea? “Non vorrai dirmi che..” “Milla, non vorrei spaven tarti, ma ma quella C significa Confalonieri, come il tuo cognome!” “Beh, ma perché dovrebbe prendersela con me? Perché quattro.. anzi, cinquecento anni fa' uno che si chiamava Confalonieri ha fatto una congiura contro qualcuno che non so nemmeno chi sia?” “Lo so, è pazzesco, ma troppe cose coincidono. La serie di uccisioni fatta nell'ordine delle lettere, è troppo precisa. Non ci può essere un'altra spiegazione. Per qualche motivo che gli passa nella testa, quel pazzo ha deciso di compiere una vendetta sui discendenti dei quattro congiurati. Sono sicuro che il serial killer sia il marito della donna che ti ha restituito il libro. Quella frase che parlava di PLAC è stata sottolineata e l'ha sottolineata lui!” “Che poi sarebbe quell'uomo zoppo che tu hai visto sul treno?” “Ma certo! Sua moglie non ti ha detto che ha avuto un incidente e che è malato di mente? Solo uno come lui potrebbe pensare una cosa simile.” “Brr.. Mi stai facendo venire la pelle d'oca.” “Quella donna non ti ha anche detto che usa un bastone per camminare? O che ha una moto? Non ti ha detto dove abita adesso?” “No. Non mi ha detto niente di queste cose ma, Andrea, dici che devo chiamare la polizia?” “Non so. Non so quale spiegazione potresti dare. Veramente spero che il Confalonieri che lui cerca non sia tu, ma stai attenta. Chiuditi in casa. Se poi vedi in giro uno zoppo col bastone, stagli alla larga!” “Non è un quadro rassicurante.” “Vuoi che venga da te?” “Mmm.. Meglio di no. Credo che per stanotte non mi accadrà niente.” “Però se senti qualcosa di strano, chiamami subito. In cinque minuti potrei essere lì.” “Va bene, stai tranquillo.” “Non posso essere tranquillo se c'è un serial killer che minaccia la mia ragazza.” “E io sono la tua ragazza, vero? “Si, Milla. La sei tutta!” Milla spense le luci in casa e si avvicinò alla finestra che dava sulla strada. Scostò le ante e guardò fuori. Gli alberi che costeggiavano la via coprivano gran parte della sua visuale e c'era una fila di auto parcheggiate davanti al marciapiede, ma lei guardò se dietro i tronchi o negli angoli bui comparisse l'ombra scura di un uomo col bastone. Una macchina sfrecciò a tutta velocità. Due persone dall'accento straniero passarono chiacchierando ad alta voce. Lontano si sentì l'abbaiare un cane. Brr.. Un brivido scosse Milla. Pensa, si disse, se quando ho fatto la doccia, quello fosse entrato in casa e mi avesse accoltellato, proprio come nel film “Psycho”! Quella era stata una scena veramente forte, ma lei non doveva avere paura. In caso di pericolo, un cavaliere dalla lucente armatura sarebbe arrivato sul suo cavallo bianco per proteggerla. Da una settimana Filippo Farnesi aveva individuato l'abitazione della sua vittima, l'ultima delle quattro. L'aveva trovata abbastanza facilmente consultando l'elenco telefonico. Le sue ricerche per individuare i discendenti dei congiurati non erano state sempre facili. Il metodo che dava migliori garanzie era quello di consultare le carte ed i documenti giacenti all'Archivio di Stato di Piacenza, dove poteva trovare dati e notizie sulle proprietà e sulle discendenze delle famiglie oggetto delle sue ricerche. Aveva sfogliato libri storici, atti notarili ed a volte era riuscito a trovare dettagliati alberi genealogici, consultando i quali il suo compito era stato facilitato. Unico canale a lui utile era quello che portava a trovare discendenti di famiglie nobili che si trovassero a Piacenza o in provincia, perché il suo raggio d'azione non era illimitato ed anche perché tutto era iniziato in quella città quando i Farnese erano signori del Ducato. Lì vi erano ancora tracce evidenti del loro potere: il monumentale Palazzo Farnese, il castello, le mura che circondavano la città e la bellissima strada che la attraversa da est ad ovest chiamata Stradone Farnese. Nella piazza principale, la Piazza Cavalli, vi erano le statue equestri di Alessandro Farnese, nipote di Pierluigi, e di suo figlio Ranuccio , poste a testimoniare la grandezza di quella nobile famiglia. E Filippo sentiva il forte legame a quella discendenza perché, nella visione che aveva avuto quando si trovava nello stato di coma, il Duca stesso, Pierluigi Farnese, gli aveva gridato di vendicarlo perché lui era “sangue del suo sangue”. Era stata una visione orribile: mentre i suoi assassini lo colpivano, il Duca aveva allungato la mano sporca di sangue per chiedere il suo aiuto: “Vendicami, vendicami!” Il sangue che sgorgava dalle ferite del Duca era arrivato sino a lui attraverso le generazioni che si erano susseguite nei secoli, perché lui era un discendente dei Farnese, l'unico che fosse rimasto a Piacenza. Il sangue ha un potere che supera ogni altro e lui sentiva dentro di sé quel potere per eseguire la vendetta del Duca. Conosceva i nomi dei congiurati: Pallavicini, Landi, Anguissola, Confalonieri: PLAC, l'acronimo del tradimento. Quando era uscito dal centro di rieducazione motoria, non aveva più voluto tornare a casa, ma aveva preferito andare a vivere da solo nella sua piccola proprietà di Quartazzola, dove poteva sentirsi libero da ogni legame e condizionamento. Non aveva più voluto vedere nessuno, nemmeno la sua compagna e la figlia di lei, che ormai gli apparivano come figure lontane, esistite in un'altra vita. Là aveva potuto programmare la sua vendetta senza impedimenti. Era conscio di suscitare la curiosità degli abitanti del luogo. Immaginava che dietro le imposte della case più vicine qualcuno osservasse i suoi movimenti, ma a lui non importava. I soldi non gli mancavano. Aveva ricevuto la liquidazione della banca e una pensione pe r la sua invalidità. Poi aveva avuto l'idea di comprarsi una moto per potersi spostare a suo piacimento, perché aveva difficoltà a guidare un'auto a causa della sua infermità. La gamba sinistra pendeva rigida dal suo corpo e non rispondeva più ai comandi del suo cervello, ma in questa sua menomazione trovava la forza per sentirsi spietato verso gli altri e verso sé stesso. Ma il dolore alla testa non gli dava tregua. La sua mente era squarciata da lampi di luce e pioggia di stelle ed una volta gli era successo di cadere a terra e di perdere conoscenza, per poi emergere in una nebbia che si era diradata solo col tempo. Evitava di guardarsi allo specchio ma, toccandosi il viso, sentiva la folta barba che gli era cresciuta e che serviva a nascondere la sua vera identità. Sorrideva al pensiero di come sino ad allora aveva attuato la sua vendetta. Era stato accorto ed abile, nessuno avrebbe potuto fermarlo. La sua prima vittima era stato uno dei Pallavicini. Ricordava come aveva aspettato il momento giusto per poter entrare in casa sua e buttarlo dal balcone mentre stava innaffiando un vaso di gerani. Poi era sceso tranquillamente con l'ascensore fino ad uscire in strada per unirsi alla folla che guardava esterrefatta quel corpo senza vita. Quel giorno si era vestito con una tonaca da prete perché un prete zoppo può fare cose che nessun altro può fare. Era stato il suo capolavoro: fingendo di chinarsi sul cadavere per impartirgli l'estrema unzione, gli aveva scritto la lettera P sulla fronte con un pennarello. Poi, prima che arrivasse l'ambulanza, si era allontanato senza farsi notare. Ci teneva molto a lasciare la sua impronta sulle vittime: quando la sua vendetta si sarebbe completata, sarebbe apparsa la parola PLAC, che era formata dalle iniziali dei loro nomi, ma era anche l'abbreviazione di “Placentia”, il nome antico di Piacenza, la città usurpata del titolo di capitale del Ducato a causa dell'assassinio di Pierluigi Farnese. Per il Landi, la sua seconda vittima, aveva usato una siringa. L'aveva atteso in un parcheggio tenendo d'occhio la sua macchina. Quando finalmente il suo uomo era arrivato, aveva lasciato che aprisse la portiera e l'aveva colpito da dietro col suo bastone, tramortendolo. L'aveva buttato all'interno dell'auto e gli aveva fatto un'iniezione di una sostanza letale nel collo. Poi aveva preso il coltello e gli aveva inciso la L sulla fronte, perché il sangue richiamava il sangue. Anche per l'Anguissola aveva usato il coltello. Questa volta aveva dovuto fare in fretta, una fretta dannata perché il treno stava per arrivare a Piacenza e là il ragazzo sarebbe sceso. Aveva quasi pensato di rimandare, perché c'era quell'altro studente nello scompartimento, ma poi il secondo ragazzo era uscito lasciandoli soli. In pochi secondi aveva colpito la sua vittima col bastone e gli aveva inciso una A sulla fronte. Lui aveva una gamba fuori uso, ma nelle braccia aveva una forza incredibile. Aveva aperto il finestrino ed aveva buttato fuori il corpo mentre il treno stava imboccando il ponte sul Po, sferragliando tra le arcate metalliche che lo sostenevano. In quei momenti provava un senso di potenza tale da credere di poter superare qualsiasi ostacolo. Ora mancava soltanto uno dei congiurati: Confalonieri. Sapeva dove abitavano i suoi discendenti e lui teneva sotto controllo la casa ed i suoi abitanti per essere certo di colpire la persona giusta. Ancora non sapeva in che modo avrebbe fatto, molto sarebbe dipeso dalle circostanze. I Confalonieri abitavano in un piccolo condominio in via Farnesiana. (Ecco ancora un richiamo della storia!) Per non suscitare sospetti, sorvegliava chi entrava ed usciva seduto in un bar tabaccheria da cui poteva avere una vista diretta sul caseggiato. Alla fine aveva individuato con precisione la sua vittima. Si trattava anche questa volta di un ragazzo giovane, ma doveva stare attento perché era alto e robusto. La scelta era quasi obbligata perché la famiglia era composta dalla madre e da due figli ormai grandi: un maschio ed una femmina. Il padre era deceduto alcuni anni prima durante una escursione in montagna. Nella scelta della persona da colpire, la madre non valeva niente perché non era per nascita una Confalonieri. Restavano solo i due ragazzi e naturalmente il maschio aveva una valenza maggiore, ma da alcuni giorni Filippo non lo aveva più visto entrare o uscire di casa. Forse era assente per una causa che lui non conosceva: un viaggio o un soggiorno lontano da Piacenza per motivi di studio o di lavoro. Non sapeva se sarebbe rientrato né quando questo sarebbe successo. Ma lui non disponeva di molto tempo. Gli attacchi del suo male si facevano sempre più frequenti e temeva di raggiungere uno stadio di impotenza tale da non poter completare la sua opera. Non restava che la ragazza. Certo, era un ripiego e lui avrebbe preferito avere a che fare con un uomo, ma era pur sempre una Confalonieri anche lei! Quando avrebbe inciso sulla sua fronte la lettera C, l'acronimo sarebbe stato completo: PLAC e la sua missione sarebbe terminata. Pierluigi Farnese sarebbe stato vendicato e la sua fama ripristinata. Sarebbe stato come se il Duca fosse tornato in gloria alla Cittadella per riprenderne possesso, salendo gli scaloni addobbati fino ad apparire di nuovo alla finestra da dove era stato buttato per ricevere il tributo del suo popolo. Dopo tanti mesi passati fra le nuvole nere del suo spirito, Filippo Farnesi avrebbe visto splendere il sole! Alle sette di mattina il telefono di M illa squillò di nuovo.Andrea. “Allora? Stai bene?” “Si, sono ancora viva.” “Hai dormito?” “Poco e male. Alle tre mi è suonato il campanello di casa. Sono andata ad aprire e mi sono trovata davanti un serial killer con in mano un mazzo di fiori. E' stato molto gentile. L'ho fatto entrare e gli ho offerto una tazza di thé” “Non scherzare. Ascolta. Ho telefonato alla Polizia, volevo parlare con la dottoressa Di Marino che è quella che segue le indagini degli omicidi. Lei non era ancora in servizio, ma non potevo parlare con nessun altro perché solo lei mi conosce e sa quello che è successo. Fra un po' le telefono ancora, sperando di trovarla.” “Cosa le vuoi dire?” “Del libro, del marito di quella donna, della C di Confalonieri. Che faccia qualcosa per bloccare quell'uomo. Se si fa dire da quella signora dove vive adesso, può prenderlo prima che si metta ad uccidere di nuovo.” “Mm, mm.” “Tu adesso cosa fai?” “Eh! Vado a lavorare.” “In biblioteca?” “Anche oggi, si.” “Forse sarebbe meglio se..” “Pensi che dovrei chiudermi in casa e restare qui in attesa che succeda qualcosa?” “Sarebbe più prudente.” “E se poi non succede niente?” “Tanto meglio.” “Senti, Andrea. Ormai so cosa potrei aspettarmi.. Se poi devo aspettarmi qualcosa.. Comunque, ho il telefono sempre con me e posso chiamare aiuto. Metti che lui mi rincorra, pensi che uno zoppo che cammina con un bastone possa correre più forte di me?” “No, ma.. Non sappiamo come agisce. Potrebbe prenderti di sorpresa.” “E tu? Non vorresti prendermi di sorpresa?” “In che senso?” “Venirmi alle spalle, stringermi e baciarmi sul collo.” “Milla..” “Stai tranquillo, andrà tutto bene.” “Bene. Senti, io tamattina devo andare a fare qualche commissione.. Ci sentiamo poi.” “Okey. Ciao. Un bacio?” “Si, Milla. Cento baci!” Milla Confalonieri per andare al lavoro prendeva il bus della linea 3, che dalla via Farnesiana, passando per la Stazione Ferroviaria, Viale dei Mille e la Piazza del Duomo, percorreva Via Romagnosi, dove la ragazza scendeva. Dalla fermata alla biblioteca c'erano un centinaio di metri. Il bus, nel suo percorso, proseguiva per Via Milano, passava davanti al Palazzo Farnese e, quando arrivava al monumento al Pontiere, dove vi era l'accesso al ponte sul Po, girava a destra per ritornare da dove era partito. Filippo aveva passato la notte disteso sulla riva sabbiosa del Trebbia ad ascoltare il rumore dell'acqua sui sassi ed a guardare le stelle. Non faceva particolarmente freddo, ma il plaid che aveva portato con sé non gli era pesato. Spuntò l'alba. La sua ultima notte era passata. Filippo si mise in moto. Era soddisfatto di sé stesso. Aveva calcolato bene i tempi di percorrenza ed ora si trovava sull'autobus su cui era salita la ragazza. Era vestito con una felpa grigia ed aveva in testa un berretto da baseball blu. In tasca aveva il coltello. Aveva riconosciuto Milla già da lontano mentre era in attesa alla fermata, vestita un po' come tutte le ragazze di oggi che non hanno bisogno di vestiti né di trucco per apparire. Aveva gioito nel vederla salire ed ora lei stava là in fondo all'automezzo tra gli altri passeggeri. Filippo era seduto nel posto riservato agli invalidi che era situato proprio vicino all'uscita e, per prudenza, non gettò mai lo sguardo dalla sua parte. Quando la ragazza gli sarebbe passata accanto per scendere, se ne sarebbe senz'altro accorto. Sarebbe passata a nemmeno un metro da lui ed allora.. Poteva agire del tutto liberamente perché il suo compito sarebbe terminato un attimo dopo ver affondato il coltello nel suo cuore e tutto il resto non avrebbe avuto più importanza. Ci sarebbe stato un gran trambusto, forse non sarebbe nemmeno riuscito a fuggire, ma lui si sarebbe sentito in pace perché finalmente Pierluigi Farnese sarebbe stato vendicato! D'altronde, non poteva fare diversamente. Ultimamente le sue condizioni di salute erano peggiorate e non era capace di muoversi come una volta, di fuggire in fretta o di buttare qualcuno dal finestrino di un treno in corsa. La notte precedente non aveva dormito bene, anzi non aveva dormito affatto. I tentacoli del male stavano raggiungendo il suo cuore. Mentre saliva sull'autobus, un dolore spasmodico gli aveva attraversato il petto e bloccato il respiro. Poi un sudore fretto aveva invaso il suo corpo e tutto aveva incominciato a girare attorno a lui. Se non si fosse subito seduto, sarebbe caduto a terra senza potersi più rialzare. Erano stati momenti terribili, ma pian piano il dolore era passato ed il suo respiro era diventato meno affannoso. Aveva perso sensibilità alle mani e quando si era guardato nel riflesso dei vetri era inorridito. Il suo viso era paonazzo, i suoi occhi erano spenti ed infossati ed una barba incolta cancellava i suoi lineamenti rendendolo simile ad un mostro. La stessa cosa poteva capitargli da un momento all'altro e, per questo motivo, Filippo si reggeva forte al sostegno a cui si stava aggrappato, come se fosse stato un'ancora di salvataggio. Sentiva di avere ancora poco tempo, ma non voleva morire prima di aver completato la sua missione.Nel pensare a sé stesso ed a com'era ridotto, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Lui le spazzò via con un gesto rabbioso della mano. Meccanicamente il suo sguardo si spostò su Milla che in quel momento stava chiacchierando con un'altra ragazza. Com'è giovane!, pensò. E mentre pensava questo, per un istante il suo desiderio di ucciderla svanì e la sua fantasia di uomo di mezza età volò su quel profilo. Subito si pentì di quel pensiero. Doveva essere forte. L'autobus era affollato di studenti che parlavano a voce alta, si spingevano e idevano ad ogni momento. Milla si trovava vicino ad una ragazza che faceva la commessa in un negozio di abbigliamento di via XX Settembre e che conosceva di vista perché spesso si trovavano sullo stesso autobus, mentre andavano al lavoro. Non sapeva nemmeno come si chiamasse ed i loro discorsi per lo più riguardavano la lentezza del servizio e l'affollamento del mezzo. “A volte mi sembra di essere una fetta di salame chiusa in un panino” disse la ragazza. “Ed io una noce nello schiaccianoci!” replicò Milla. Tutte e due si misero a ridere. Quando ci fu la fermata davanti alla stazione ferroviaria, molti passeggeri scesero e la ressa si diradò. Solo allora Milla poté gettare uno sguardo verso la testa dell'autobus. Fu allora che lo vide. Seduto vicino all'uscita c'era un uomo con una folta barba ed una gamba rigida protesa in avanti. Teneva stretto tra le cosce un bastone ortopedico e si sosteneva con una mano al palo d'alluminio che gli stava accanto. Milla capì che era lui. Lo zoppo, il serial killer che la stava seguendo per ucciderla! L'uomo non la stava guardando, non sembrava nemmeno essersi accorto della sua presenza, ma Milla istintivamente si ritrasse e gli voltò le spalle. Ma poi si disse che forse stava esagerando le cose. Come poteva essere sicura che fo sse proprio quello l'uomo che la voleva uccidere? A lei, quel tipo areva un poveraccio, quasi un barbone e non immaginava come avrebbe potuto rincorrerla e colpirla, con quella gamba rigida. Si girò per dargli un'altra occhiata, ma questa volta incontrò il suo sguardo. Lui l'aveva vista! Non la stava guardando distrattamente. Stava proprio fissandola come Johnny Depp guardava Heather Graham nel film su Jack lo squartatore! Non l'avrebbe guardata in quel modo se le sue intenzioni fossero state innocenti. Forse lui penserà di colpirmi quando gli passerò davanti al momento di scendere, pensò. Bene, si disse. Staremo a vedere! L'autobus era arrivato alla fermata di Piazza del Duomo. Le porte automatiche si aprirono e l'amica di Milla scese. Le due ragazze si salutarono con un cenno della mano. Milla avanzò verso la testa dell'autobus, quasi vicino al posto del conducente. Non aveva guardato lo zoppo quando gli era passata davanti ed ora lui le voltava le spalle. Ora poteva osservarlo bene. Se si fosse voltato per cercarla, sarebbe stata sicura che l'assassino era lui. Dopo un attimo, lo zoppo si voltò per vedere dove fosse. Lei evitò il suo sguardo ma rimase immobile. Quel volto gli esprimeva una sensazione orribile e, per la prima da quando era salita, provò un senso di terrore. L'autobus ripartì e l'uomo si rigirò. Filippo aveva visto la ragazza avanzare dalla parte posteriore e sistemarsi alle sue spalle. Non capiva il senso di quel movimento, ma quando era passata davanti a lui non lo aveva nemmeno guardato. i non poteva sospettare di niente. Non avrebbe mai potuto immaginare il motivo dell'interesse che aveva per lei. Lui l'aveva individuata mantenendosi a distanza e l'aveva seguita senza che se ne accorgesse. Era la prima volta che lei lo vedeva e non poteva conoscerlo. Si era voltato a guardare dove si trovasse, ma non capiva perché si fosse spostata verso la testa all'autobus, quando prima o poi avrebbe dovuto tornare indietro per scendere. Pensava che sarebbe scesa alla fermata di Piazza del Duomo, invece anche lì aveva tirato dritto. Il suo piano però non cambiava. Quando l'avrebbe vista scendere, avrebbe allungato il suo bastone. Lei sarebbe inciampata e sarebbe caduta fuori dall'autobus. Lui sarebbe sceso e le si sarebbe buttato addosso, come per soccorrerla. Poi, in un attimo l'avrebbe colpita quante volte sarebbero bastate. Con lo stesso coltello le avrebbe inciso la C sulla fronte e si sarebbe rialzato gridando agli eventuali soccorritori di chiamare l'ambulanza perché c'era una persona ferita a terra. In seguito, si sarebbe allontanato senza dare nell'occhio, approfittando della confusione che si sarebbe creata. L'autobus continuò la sua corsa percorrendo la via Romagnosi. Poi avrebbe girato a destra verso la successiva fermata di via Milano. Milla aveva intenzione di scendere là. Una donna di colore con un vistoso abito giallo e con in mano una grossa borsa suonò il campanello per la fermata e si piazzò davanti all'uscita. L'uomo con la gamba rigida si voltò a guardare Milla e la vide ferma immobile con lo sguardo rivolto altrove. L'autobus si fermò e le porte si aprirono. La donna di colore prese a scendere lentamente i tre gradini oltre l'uscita, impacciata dalla borsa che portava con sé. Quando arrivò a terra, per un attimo le porte rimasero aperte, ma pareva che nessun altro intendesse scendere. Invece, all'ultimo momento, si vide Milla fare tre passi veloci e balzare a terra. Filippo, sorpreso dalla manovra, si alzò di scatto e con incredibile agilità scese anche lui dall'autobus. Milla se ne accorse. Attraversò la strada di corsa dirigendosi verso la scuola Mazzini davanti alla quale sostavano gruppi di scolari e genitori in attesa dell'orario d'entrata. Milla pensava che lo zoppo non avrebbe potuto starle dietro, ma quando si voltò, vide che anche lui stava attraversando la strada arrancando sul suo bastone. Malgrado la menomazione, malgrado quella gamba che si trascinava dietro, avanzava veloce e con decisione. Mi ha visto! pensò Milla e allora riprese a correre oltre l'angolo della scuola verso il Palazzo Farnese che si ergeva maestoso davanti a lei. Di colpo, una cosa le venne in mente: il cellulare! Si fermò un attimo prendendo fiato e compose il numero di Andrea. A parole smozzicate gli gridò che lo zoppo la stava inseguendo. “Dove sei?” le chiese con la voce piena d'ansia. “Sono davanti al Farnese. Sto scappando, ma quello continua a seguirmi!” “Milla! Aspettami, arrivo subito!” Milla si ricacciò il telefono in tasca e si voltò: quel maledetto pazzo era sempre più vicino! Andrea era appena uscito di casa in bicicletta, quando gli era squillato il cellulare. Avrebbe dovuto andare in copisteria, ma la voce agitata di Milla e il contenuto drammatico delle sue parole gli fecero cambiare programma. Lei gli aveva gridato che si trovava davanti al Farnese e che lo zoppo la stava inseguendo cercando di ucciderla! Stava succedendo proprio quello che lui aveva temuto. Quell'uomo, seguendo la sua logica assurda, era veramente intenzionato a vendicare il Duca uccidendo una Confalonieri. Sarebbe stato l'ultimo atto del suo piano mortale. Come aveva fatto a trovare Milla? E adesso, cosa sarebbe successo? Col cuore in gola, si alzò sui pedali ed iniziò la più folle corsa che avesse mai fatto in vita sua. Doveva salvarla. Doveva arrivare in tempo! Senza rispettare né regole, né divieti, si diresse a gran velocità verso il centro della città. Perché Milla non era in biblioteca? Cos'era successo? Il cellulare! Doveva chiamare la Polizia. Senza smettere di pedalare, cercò il numero della dottoressa Di Marino che aveva memorizzato. Quando fortunatamente lei rispose, Andrea a frasi smozzicate e con la voce ansimante le disse che il serial killer stava cercando di uccidere ancora. Stava inseguendo una ragazza al Palazzo Farnese, doveva mandare subito una volante per fermarlo! Non poté spiegarsi meglio perché nell'attraversare la rotonda di piazzale Genova sbatté contro un'auto a cui non aveva dato la precedenza e cadde a terra. Addio! pensò, ma subito si rialzò, riprese la sua bicicletta e ripartì. L'auto con cui si era scontrato si era fermata ed il suo conducente era sceso per inveire contro di lui. Alcuni clackson presero a squillare, ma Andrea era già lontano. Gli facevano male sia il ginocchio che il gomito. Aveva preso davvero una bella botta e la ruota davanti della bicicletta strusciava contro il parafanghi, ma a quello avrebbe pensato dopo. Milla riprese la corsa ed arrivò davanti all'ingresso del Palazzo Farnese. Il portone era aperto e lei entrò nel cortile. Voglio proprio vedere se mi segue fin qui dentro, pensò. Ma quando vide che anche lui stava arrivando, corse di nuovo via. Passò davanti all'entrata dei Musei e si mise a salire lo scalone che portava ai piani superiori. Aveva salito solo mezza rampa, quando si sentì chiamare. “Tu!” Milla si fermò e si voltò. Filippo, ansante e sudato, stava camminando lungo il corridoio verso di lei. Tremava ed il suo volto pareva una maschera orribile. “Tu! Confalonieri!” Puntò il dito verso di lei ed incominciò ad avvicinarsi ai primi gradini dello scalone battendo il suo bastone sulle pietre del pavimento. Aveva in mano un coltello. La ragazza sentì su di sé il suo sguardo e si paralizzò. Le tremavano le gambe, le mani e perfino i capelli e non riusciva a muovere un muscolo. Filippo Farnesi salì barcollando il primo gradino, poi il secondo, ma a quel punto si bloccò. Restò per un attimo in sospeso, poi lanciò un urlo e si piegò su sé stesso. Cadde a terra e rotolò indietro. Il coltello gli cadde dalla mano e scivolò lontano. Incominciò a tossire in modo spasmodico, sussultando col corpo, fino ad emettere un ultimo rantolo. Come un grosso fagotto di stracci, il corpo di Filippo rimase immobile in fondo alle scalone. La sua corsa si era fermata proprio sulle scale di quel palazzo che era stata la dimora del Duca. Il berretto blu che aveva portato in testa era volato via e sembrava non aver mai potuto coprire quella testa di capelli striati di grigio. Le prime ad accorrere furono due impiegate addette al Museo che, allarmate dalle urla che avevano sentito, erano uscite dalla porta che dava sul porticato. Non si avvicinarono al corpo dell'uomo steso a terra, ma chiesero ad alta voce a Milla che cosa fosse successo. La ragazza non riuscì a rispondere. Era seduta su di un gradino ed aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Poi arrivò il custode che si avvicinò a Filippo e si chinò a guardarlo da vicino. Subito si rese conto dell'accaduto. Si rialzò e con il cellulare chiamò i soccorsi. “E' stato un infarto” disse. “Si vede dal colore della faccia.” Intanto altre persone stavano accorrendo, fino a formare un piccolo gruppo che attorniò quell'uomo steso a terra. “Non muovetelo!”, disse il custode, ma proprio nessuno aveva intenzione di farlo. Nessuno poteva capire perché vicino a lui si trovasse un coltello. Milla non riusciva a muoversi e rimaneva seduta senza che nessuno si accorgesse di lei. Nei suoi pensieri la paura non era ancora svanita, ma adesso provava un senso di pietà verso quell'uomo che l'aveva terrorizzata. Avrebbe voluto scendere lo scalone e vederlo da vicino, ma non ne aveva la forza e le t remavano le gambe. In quel momento si sentì lo stridio di una frenata ed il rumore di una bicicletta che cadeva a terra. Era arrivato Andrea. Non sembrava proprio un cavaliere dalla lucente armatura, ma era giunto in pochissimo tempo. Vide il gruppo di persone e vide Milla rannicchiata su quel gradino. Corse da lei e le si sedette vicino. “Milla! Cos'è successo?” La ragazza sporse il mento additandogli lo zoppo. “E' lui?” Mila annuì. “Si, ma cos'è successo?” chiese ancora Andrea. “Ha fatto tutto da solo. Ad un certo punto è caduto a terra.” “Tu come stai?” “Come potrei stare? Sono stata rincorsa da un serial killer che aveva in mano un coltello..” “E' morto?” Milla alzò le spalle. Andrea si alzò ed andò a raggiungere il gruppo che attorniava il corpo dello zoppo e diede un'occhiata. Filippo Farnesi aveva gli occhi sbarrati e la sua bocca era atteggiata ad un'espressione di stupore. A sirene spiegate arrivò un'ambulanza. Il custode corse ad indicare agli uomini del 118 di entrare nel cortile ed il mezzo si fermò a pochi metri da dove si trovava il corpo di Filippo Farnesi. Gli addetti scesero in fretta e scaricarono la loro attrezzatura. Fecero allontanare tutti e stesero un telo tra loro ed il pubblico per evitare inutili curiosità. Misero subito una maschera con l'ossigeno sul volto di quell'uomo e gli applicarono gli elettrodi del defibrillatore. Le loro voci erano concitate nell'effettuare la procedura di rianimazione che durò a lungo, senza che si potesse intravvedere la speranza di salvarlo. Per ogni minuto trascorso dall'arresto cardio-respiratorio, diminuivano le probabilità di ripresa delle funzioni vitali e, dal momento in cui Filippo aveva smesso di respirare, di minuti ne erano passati più di dieci. Quando alla fine ogni sforzo risultò vano, si misero a cercare qualcuno a cui poter confidare il loro rammarico per non essere arrivati in tempo a salvarlo. Il corpo di Filippo fu coperto con un lenzuolo e fu chiamato per telefono l'ufficio del necroforo comunale perché venisse ad identificare quell'uomo ed a constatarne il decesso. Passò un po' di tempo e sul posto arrivò anche un'auto della Polizia. Dal sedile posteriore scese con calma la dottoressa Di Marino che era stata chiamata da Andrea. Era in tenuta “da battaglia”: occhiali scuri, basco azzurro in testa, una giacca di pelle nera e i pantaloni della divisa. Dopo essersi resa conto della situazione, si avvicinò al cadavere e lo fece scoprire per poterlo vedere in volto. Un agente in borghese che portava una pettorina con la scritta “Polizia”, prese a fotografarlo da più angolazioni. La dottoressa Di Marino gli disse di raccogliere il coltello, che era stato spostato dai sanitari durante la rianimazione, e di infilarlo in una busta di plastica. Andrea, che era ancora seduto poco lontano, vicino a Milla, si alzò e si diresse a passo sicuro verso la dottoressa. “Dottoressa Di Marino!” la chiamò. Lei si voltò e gli fece un sorriso forzato. “Dordoni” gli disse. “Vedo che è arrivato prima di noi. Immaginerà che dovrò farle una serie di domande. Non si allontani.” Andrea era piuttosto nervoso. Si sarebbe aspettato che la Polizia intervenisse prima, molto prima. Non capiva che sarebbe stato impossibile. “Quali domande?” rispose sgarbatamente. “Io le avevo spiegato tutto, ma lei non mi ha mai creduto!” La dottoressa strabuzzò gli occhi, incredula di sentire quelle parole. “Benedetto ragazzo. Cosa mi sta dicendo?” “Che per fortuna quell'uomo ha avuto un infarto, altrimenti quella ragazza” additò Milla, “poteva essere uccisa!” “Chi poteva essere ucciso?” “Non mi ha capito quando prima le ho telefonato? Il serial killer stava inseguendo quella ragazza per ucciderla! Lei si chiama Confalonieri e la C del suo cognome era l'ultima della sigla PLAC e questo significa che..” La Di Marino l'interruppe. “A parte il fatto che a me sembra che la ragazza stia bene, la prego di stare calmo e buono, altrimenti la faccio portare in Questura. D'accordo?” Andrea scosse la testa. “Ecco! A lei non si può proprio parlare.” “Ne avrà tutto il tempo. Le ho detto di non allontanarsi e quando avrò sbrigato tutte le formalità del caso, tornerò da lei.” Si girò ed andò a parlare col direttore del Museo. Dopo un'ora il cortile di Palazzo Farnese era di nuovo diventato vuoto e silenzioso. Si sentiva soltanto lo stridio delle rondini. “Adesso, raccontatemi tutto per bene” disse la dottoressa Di Marino. Si trovava nel suo ufficio assieme ad Andrea ed a Milla che erano seduti davanti alla sua scrivania. “O avete perso la lingua per strada?” aggiunse con aria ironica. Milla era taciturna e pareva scossa dal dramma che aveva vissuto. Allora Andrea incominciò raccontare che aveva letto il libro non restituito alla biblioteca datogli da Milla ed aveva scoperto che il serial killer aveva come obiettivo proprio lei, che si chiamava di cognome Confalonieri. “Vede, dottoressa” proseguì con orgoglio, “si dice che la vendetta, è un piatto che si consuma freddo..” “Accidenti!” esclamò la dottoressa Di Marino. “Ma a tanto tempo di distanza, quella che ha inteso fare quell'uomo era freddissima, anzi, gelida! Comunque, complimenti! Pare proprio che quello che abbiamo trovato laggiù sia l'uomo dell'identikit. Quindi, il modo giusto per capirci qualcosa in tutta questa faccenda era quello di accertare perché un certo libro non fosse stato restituito alla biblioteca.” “Certo” disse Milla. “Non ci voleva poi molto.” Stava riprendendosi dallo shock. “Però” intervenne Andrea, “se quel poveraccio non avesse avuto un infarto proprio mentre ti stava inseguendo..” “Non mi sarebbe successo niente perché tu saresti arrivato in tempo per salvarmi” sentenziò Milla. “Beata gioventù!” esclamò la dottoressa Di Marino alzando gli occhi al cielo. Quando Andrea e Milla uscirono dalla Questura, erano quasi le due del pomeriggio. “Stasera arriva mia madre dal suo viaggio a Lourdes” disse Milla. “Il torpedone ferma al Cheope. Mi accompagneresti, quando la vado ad aspettare?” “A-ah” assentì Andrea. “Le sue preghiere ti hanno salvato. A che ora arriva?” “L'orario è per le sette, ma chissà se poi sarà puntuale. Però” aggiunse Milla con circospezione, “vorrei che a lei non dicessi niente..” “Di noi? Ma certo! Diventerebbe una cosa troppo ufficiale.” “Non di noi, scemo. Cos'hai capito? Non devi dirle niente del fatto che, mentre lei era via, sono stata in pericolo e che quel pazzo mi voleva uccidere! Quando mia madre è partita aveva un mucchio di scrupoli nel lasciarmi a casa da sola e non vorrei che le venisse uno shock. Sai, certi sensi di colpa possono condizionarti la vita.” Dopo pochi giorni ci fu il funerale di Filippo Farnesi. Con una semplice cerimonia, la bara fu benedetta nella chiesetta del cimitero ed il prete disse poche parole a suffragio, invocando per il defunto la misericordia di Dio. Chissà se quell'uomo tanto disgraziato avrebbe trovato finalmente la pace eterna. La bara fu portata all'aperto dove il sole batteva implacabile. Non spirava un filo d'aria. Pochi erano i presenti. Penny, vestita di nero, aveva l'aria affranta ed il suo viso era pieno di lacrime. Attaccata al suo braccio, Katy sembrava ansiosa di allontanarsi al più presto da un luogo dove stava accadendo qualcosa a lei incomprensibile. Filippo Farnesi era stato sepolto nel cimitero di Piacenza, ma sulla sua tomba non c'era nemmeno un fiore. Nessuno pareva ricordarsi di lui. Ma un giorno su quella tomba apparve un mazzetto di gigli di campo, gli stessi fiori che apparivano nello stemma nobiliare dei Farnese. Ce l'avevano deposto due giovani, un ragazzo ed una ragazza che, casualmente, avevano conosciuto in vita quell'uomo. Quei fiori vi erano stati messi in ricordo di una gelida vendetta che aveva contribuito a far nascere il loro amore.
“Piero Zucconi” (Stampato presso la tipografia Puntograficopiacenza)



l'uccisione di Pierluigi Farnese – dipinto di Lorenzo Toncini 1833