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Monteventano

“Racconto di Domenico Ferrari Cesena"
a Ettore Carrà

Rinaldo si fermò. Gli scarponi avevano ricominciato a fargli male. Il fastidio era cessato durante la battaglia, subissato dalla tensione, ma, ora che il gruppo stava ripiegando su Monteventano per ordini superiori, era tornato a farsi sentire. Rinaldo aveva le estremità gelate, come gli capitava spesso anche prima di essere “andato in montagna” a far la guerriglia contro i tedeschi e i loro fiancheggiatori fascisti. In più, i piedi non si erano ancora abituati agli scarponi “nuovi” (in realtà, molto usati, ma da altri, fino a qualche giorno prima), e gli facevano male.
Quando, un momento dopo essersi fermato, si rimise in moto, era rimasto solo. Stavano tornando da quella che sarebbe poi stata chiamata “la battaglia di Vidiano”, nella quale un gruppo di partigiani del Distaccamento Autonomo di Monteventano aveva impedito a truppe tedesche e mongole di invadere l’alta Val Luretta venendo dalla zona della Rocca d’Olgisio in Val Tidone.
Era il 24 novembre 1944. Da pochi giorni, era iniziato il “grande rastrellamento” che avrebbe consentito ai tedeschi di rioccupare molte delle zone montane della provincia di Piacenza controllate dai partigiani. Il Distaccamento era già praticamente isolato, e doveva urgentemente ritirarsi vesso sud-est per non cadere nelle mani dei tedeschi che stavano per accerchiarlo. A metà del pomeriggio, mentre la linea dei difensori della Val Luretta continuava a tenere, infliggendo perdite ingenti agli assalitori, era giunto l’ordine di ritirarsi e di lasciare al più presto anche la base di Monteventano.
Rinaldo era arrivato alla base del Distaccamento ai primi di agosto, poco meno di quattro mesi prima. A quell’epoca, il Distaccamento si stava ancora organizzando, ma il periodo di rodaggio era durato poco, e i ragazzi del gruppo, quasi tutti attorno ai vent’anni come Rinaldo, vi si erano creati un nido, che a molti sembrava d’aquila, poiché alla sicurezza fisica (il luogo sarebbe stato imprendibile se, come capitava nel medioevo, i nemici non avessero avuto i mortai) si accompagnava una rete di comunicazioni efficiente, che comprendeva anche una radio rice-trasmittente installata nel sottotetto dell’edificio scolastico dove il Distaccamento aveva il suo quartier generale.
La notizia che avrebbero dovuto lasciare Monteventano aveva rattristato Rinaldo e i commilitoni con cui aveva scambiato qualche parola sulla via del ritorno: per loro, il luogo era diventato una seconda casa, e il gruppo una seconda famiglia. La prima casa di Rinaldo era l’appartamento di Piacenza dove aveva vissuto con la madre (il padre era morto ancora molto giovane quando lui non aveva ancora compiuto 12 anni) e i suoi fratelli fino alla chiamata alle armi nell’autunno del ’42. Iniziato il servizio militare in fanteria come soldato semplice, era stato trasferito per l’addestramento in diversi posti del Nord Italia; l’8 settembre lo aveva sorpreso a Gorizia, ed era tornato a casa a piedi, riuscendo, poco dopo la fuga dalla caserma dove aveva rischiato di essere catturato dai tedeschi, a scambiare la sua divisa, diventata pericolosissima, con abiti borghesi, o meglio proletari.
Non aveva risposto alle ripetute chiamate dell’esercito della Repubblica Sociale, restando con la famiglia sfollata presso parenti vicino a Sarmato. Benché fosse nato e cresciuto nell’Italia fascista, la retorica del regime non lo aveva mai pienamente convinto: gli sembrava spesso vuota, talvolta addirittura ridicola; ma si era ben guardato dall’esternare questo suo disagio anche nell’intimità della famiglia, sebbene l’ambiente sociale in cui essa era immersa mostrasse simpatie piuttosto tiepide per il regime. La guerra e la sua breve partecipazione ad essa gli avevano aperto gli occhi: si era accorto, o almeno così gli pareva, che gli italiani erano stati raggirati dal fascismo, e che il castello di bugie da esso costruito non aveva retto la prova dei fatti; e ora tutti ne soffrivano, anche se l’unica loro colpa era quella di aver creduto alle autorità e aver obbedito senza discussione. Ma un amico le cui simpatie andavano ai partigiani, e che infatti li aveva raggiunti in montagna nella primavera del ’44, gli aveva obiettato che il regime non avrebbe tollerato nessuna discussione, e l’aveva fatto riflettere sulla mancanza di libertà che aveva caratterizzato l’Italia fascista.
Con l’estate del ’44, le retate, anche nella zona di Sarmato, si erano intensificate, e Rinaldo si sentiva sempre meno sicuro. L’amico partigiano, durante una visita clandestina alla sua famiglia, aveva potuto facilmente convincerlo a seguirlo in montagna, e Rinaldo si era così aggregato al Distaccamento che si stava formando. A Monteventano aveva trovato uno strano miscuglio di due atmosfere molto diverse: quella rilassata di una vacanza con gli amici e quella, molto tesa, di una comunità in continuo pericolo; un pericolo mortale. Ora sperava che il gruppo di coloro con cui aveva fatto più amicizia potesse restare unito nonostante il trasferimento in una località tuttora ignota e il terribile rischio di annientamento che il rastrellamento portava con sé. Ma il suo futuro non era mai stato più oscuro e più minaccioso.
Percorreva, a breve distanza dagli altri, la strada che da Groppo Arcelli porta a Monteventano. Dopo una curva, tra i tronchi degli alberi di un boschetto che la strada costeggiava, cominciò ad apparire il borgo. Esso si trovava un poco più in basso della strada. Il sole del tramonto (era stata una bellissima giornata di primo inverno) arrossava le due torri, quella perfettamente cilindrica del castello e il campanile della chiesa. Monteventano sembrava da quella posizione una nave a due alberi, costruito com’era su un’altura stretta e lunga e appuntita alle due estremità. Tutt’attorno, il mare mosso delle colline della Val Luretta, nel quale la recente nevicata aveva creato una geometria di bianchi e di neri, o di grigi chiari e di grigi scuri, corrispondente a quella di verdi e di gialli che Rinaldo vi aveva trovato al suo arrivo in agosto.
Questo paesaggio, stupendo a tutte le ore del giorno, era reso ancora più prezioso dall’oro, dall’arancio e dal rosso del crepuscolo. Rinaldo si fermò ancora, ma questa volta non per il dolore ai piedi. Aveva visto Monteventano diecine di volte da quella stessa posizione, e parecchie a quella stessa ora, ma non lo aveva mai guardato con quell’intensità; non era mai stato così colpito dalla bellezza e dall’unicità di quel vero gioiello. Stavano per lasciarlo: cosa sarebbe successo a Monteventano? Con ogni probabilità, nulla: lui e i suoi amici avrebbero nascosto le armi e le munizioni che non potevano portare con sé, e cancellato tutte le tracce dei mesi di vita partigiana che vi si era svolta. I nemici sapevano che lì c’era stato un covo di guerriglieri, ma a loro interessava neutralizzare la guerriglia e terrorizzare le popolazioni che la appoggiavano, non distruggere i luoghi in cui i combattenti clandestini si erano annidati. Eppure, gli spiaceva molto che il gioiello, di cui aveva appena scoperto la grande bellezza, cadesse nelle mani dello straniero.
L’Italia del Nord era in balìa dei tedeschi. Tutti i tesori che essa conteneva, sia quelli che aveva visti nella sua città e nei pochi altri luoghi visitati durante il servizio militare, sia quelli che immaginava esistessero nelle tante altre città e campagne dell’Italia settentrionale, i castelli, i palazzi, le chiese, i panorami, erano ora nelle mani di un esercito straniero che poteva farne ciò che voleva.
Ascoltando le discussioni tra i suoi compagni d’arme nelle lunghe sere passate nella scuola del borgo a lume di candela, si era inorgoglito al pensiero di essere lì non solo per sfuggire all’arruolamento nell’esercito repubblicano o alla deportazione “per contribuire allo sforzo produttivo della Germania”, ma anche per assicurare un avvenire libero a sé e ai suoi fratelli partecipando (entro i suoi modestissimi limiti) ad uno sforzo comune per ottenere la disfatta della Germania nazista ed una più rapida e positiva conclusione della guerra. Ora gli sembrava di aver capito qualcosa che gli era fino ad allora sfuggito, e che forse non molti dei suoi commilitoni avevano afferrato: la patria, termine abusato dal fascismo e quindi inviso a tutti coloro che non avevano mai amato il regime o che, avendo visto i danni da esso provocati, avevano cessato di amarlo, non coincideva solo con la propria famiglia, i propri parenti, i propri amici, la propria casa; né era soltanto la comunità di tutti i piacentini o di tutti gli italiani: la patria era anche la nostra terra, con i suoi tesori e con le sue memorie, non tutte belle, forse, come i tesori, ma altrettanto care e degne di essere amate.
Aveva sentito dire che il borgo di Monteventano non era di proprietà pubblica, ma apparteneva ad una coppia di coniugi che lo aveva messo a disposizione dei partigiani. Ma che importava la proprietà legale? Monteventano, come tutto ciò che esisteva sul territorio, e come il territorio stesso, era di tutti i piacentini, anzi, di tutti gli italiani: era una parte della patria, della terra dei padri. Bisognava difenderla, questa terra, sottrarla al controllo dello straniero; dei tedeschi, in quel momento, ma poi forse sarebbe venuta la volta degli americani o degli inglesi o, molto peggio, dei russi. Intanto, occorreva aiutare gli alleati a scacciare e sconfiggere i tedeschi, che, se avessero vinto la guerra, avrebbero certamente negato agli italiani la libertà anche in tempo di pace.
Rinfrancato da questi pensieri, che gli avevano chiarito meglio lo scopo delle sue azioni e dei rischi che avrebbe continuato a correre fino alla fine della guerra o fino alla morte, Rinaldo si rimise in cammino e, qualche minuto più tardi, fece il suo ingresso nel borgo.
Da “Terre piacentine - Bellezza, memoria e sofferenza di un territorio italiano”,
di Giovanni Zilioli e Domenico Ferrari Cesena, Lir edizioni, Piacenza, 2010.



Piozzano Castello di Monteventano fine 800