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il Tema della Privatizzazione dell’Acqua

"di Paolo Merli”


Acqua - dollari

“L’utilizzazione dell’acqua e dei servizi connessi deve essere orientata al soddisfacimento dei bisogni di tutti e soprattutto delle persone che vivono in povertà” (Mons. Mario Toso, segret. del Pontificio Consiglio della Giustizia e Pace).

Il tema della “privatizzazione dell’acqua” è balzato agli onori della cronaca, scatenando nell’opinione pubblica interrogativi preoccupati. A scatenare queste reazioni è stata una legge che, secondo i promotori dei referendum abrogativi, vorrebbe svendere ai privati il prezioso oro blu. Ci vogliono portare via l’acqua? farla diventare una merce riservata a chi la può pagare, e negata agli altri? Permettere ai soliti furbi di comprare a prezzi di saldo il bene comune e poi rivendercelo a caro prezzo? Chi sta permettendo tutto questo, e perché? L’acqua non è un bene di tutti? Non è un diritto? Non è il bene più sacro che possediamo, fonte della nostra vita e materia prima di cui è fatto il nostro corpo? Cosa c’entra la borsa, cosa c’entra il mercato, cosa c’entrano le multinazionali con tutto questo?

..Come spesso accade, l’opinione pubblica viene catturata da falsi problemi.

Contrariamente a quanto la gente pensa, anche grazie alle bugie raccontate dai promotori del referendum, il Decreto non comporta affatto alcun “obbligo di privatizzare”. Esso riguarda semmai le procedure da seguire per l’affidamento della gestione del servizio, non le forme di gestione, che restano le stesse di sempre: impresa pubblica, concessione a privati, società mista. Ed è sempre il comune a scegliere. Solo che, mentre prima l’affidamento all’azienda pubblica avveniva in modo diretto, ora deve passare al vaglio di una gara. Ma alla gara possono partecipare tutti (anche le imprese al 100% pubbliche). L’autorità pubblica definisce le regole, stabilisce il contenuto di interesse generale del servizio declinandolo nei particolari, valuta le proposte, approva le tariffe e sceglie il vincitore (con molti margini di discrezionalità, non certo “aprendo le buste”) . La legge concede poi ai comuni che volessero evitare la gare alcune scappatoie; in sostanza, gli si dice che possono conservare l’affidamento diretto a patto che: si dimostri che la gara non porterebbe vantaggi; oppure, che il comune ceda con gara una quota del 40% del capitale, trasformando la gestione diretta in un partenariato; solo per le società quotate, se i comuni, attualmente proprietari del 51% o più, cedono un’ulteriore quota, scendendo sotto il 30%. Non è un obbligo, quindi, ma un’opzione che i comuni possono seguire se non vogliono fare la gara. Ma perché non dovrebbero farla, poi? Non c’è la minima possibilità che una buona azienda pubblica perda la gara a casa sua. Una volta rassicurati i cittadini sul fatto che la privatizzazione è un’opportunità e non un obbligo bisogna discutere riguardo ai vantaggi e svantaggi che possono derivare da questa opportunità. Anche in questo caso, circolano leggende secondo cui la privatizzazione rappresenterebbe una mercificazione di un bene fondamentale, una svendita del bene comune ai “mercanti”. Ma si tratta, ancora una volta, di una semplificazione grossolana. Alcuni pensano: siccome il privato deve fare profitti, le tariffe aumenteranno, e i cittadini pagheranno di più per avere qualcosa che già gli appartiene. È un ragionamento del tutto scorretto. Un conto è “chi gestisce”, un altro “chi paga” (la fiscalità generale o la tariffa). La gente deve sapere che le tariffe aumentano perché i costi che prima erano a carico della fiscalità generale ora devono essere coperti in altro modo, finanziando gli investimenti attraverso il mercato. Chiunque sia il gestore. I nostri fiumi sono ancora lontanissimi dai traguardi europei, mentre nella Senna e nel Tamigi sono tornati i salmoni. Queste sono le emergenze nazionali, altro che l’acquedotto (bene o male, l’acqua nelle case arriva quasi dappertutto). La finanza pubblica questi soldi non li ha. Il mercato è disposto a darceli, ma pretende di riaverli indietro e vuole interlocutori credibili. Per ottenere credito, qualunque azienda, pubblica o privata non fa differenza, deve coprire i costi con i ricavi, lasciando un
margine per ripagare i debiti. In questo contesto, la casacca del gestore è un tipico falso problema. Nessuno mette in discussione il fatto che il servizio idrico sia un diritto fondamentale dei cittadini, chiunque sia il gestore. L’acqua, proprio per la molteplicità dei suoi possibili utilizzi, si presenta come un bene complesso, è al contempo un bene essenziale per la sopravvivenza e l’igiene dell’uomo, un bene idrico per scopi agricoli, e una materia indispensabile per le attività industriali. Cosa diversa, è l’acqua necessaria per la sopravvivenza dell’uomo, dall’acqua necessaria per i fini agrari e zootecnici, dall’acqua che serve come materia indispensabile alle produzioni industriali. La prima è un bene volto alla soddisfazione di un bisogno vitale, quindi per sua stessa natura è un bene primario. Il che non vuol dire affatto ‐ come potrebbe sembrare a prima vista che questo bene perda le sue caratteristiche economiche, ma che per il suo utilizzo occorre pagare un prezzo equo che sia anche funzionale e commisurato alla necessità che di esso non se ne possa fare spreco. L’acqua per l’irrigazione dei campi e per la sopravvivenza degli animali e per l’utilizzo industriale entra a far parte di circuiti produttivi che sono protesi a collocare sul mercato beni economici di consumo (anche questi fra loro con diversa intensità sociale), che ricercano sul mercato una loro adeguata remunerazione e che pertanto dovrebbero essere in grado di fronteggiare attraverso prestabilite tariffe (magari commisurate alle necessità sociali ed economiche delle loro produzioni) il costo sostenuto per l’acquisizione e il consumo dell’acqua. In questi casi (anche se con modalità diverse tra agricoltura e industria) l’acqua è uno dei fattori produttivi necessari per la produzione e come tale deve trovare la sua remunerazione attraverso il prezzo di collocamento dei prodotti. In altre e più semplici parole, l’acqua è un bene economico sui generis e come tale porta in sé alte complessità di indagine solutiva, ma anche una primaria esigenza sociale. Per queste ragioni deve essere economicamente gestito con la massima attenzione avendo cura di questa sua peculiarità; diversamente ogni discorso e ogni soluzione che si mette in essere per il suo più adeguato utilizzo divengono astratti e comunque non soddisfacenti. La carenza dell’acqua è una preoccupazione ancestrale per ogni essere umano; l’uso, invece, che dell’acqua viene fatta (specialmente nei paesi economicamente più avanzati) non ha quasi mai una conseguente attenzione. Non si può nascondere che spesso in passato (anche in un recente passato e in alcuni luoghi anche nel presente) l’acqua è stata una leva di potere sul territorio attraverso il cui “rubinetto” condizionarne l’economia, assoggettandola (e spesso perimetrandola) ad arretratezza e costringendo sotto un potere iniquo e prevaricatore del bene comune le popolazioni. L’acqua è un bene comune che serve per postulare anche la soddisfazione di bisogni essenziali comuni. Possiamo, in questo caso, dire che è un bene comune al servizio del “bene comune”; ma per poter essere raccolta, conservata, controllata, distribuita ed adeguatamente utilizzata (con un’espressione: gestita verso il consumo) occorre sostenere dei costi. Occorre che vi sia un’organizzazione adeguata (un’azienda) che si prenda carico e sostenga questi costi. Questo bene comune, quindi, ha la necessità di essere “gestito” per poter essere utilizzato, e dunque diviene anche un bene economico.

Gestire il processo dell’acqua verso il suo corretto consumo non è, in ogni caso, una sorta di “petrolizzazione” dell’acqua stessa.

L’acqua resta sempre un bene comune, ma per il suo utilizzo è necessaria una gestione tecnica, ovvero la ricerca di adeguate efficienze di tipo allocativo, produttivo distributivo, di scelte per gli investimenti tecnologici e di risultati sociali; e il tutto ha (come chiunque può notare) risvolti economici. È una sana gestione economica di
questo tipico bene comune che risulta indispensabile affinché il bene possa essere adeguatamente utilizzato rispetto alle comunità di riferimento. Non si tratta di privatizzare l’acqua, essa è e resta un bene pubblico, si tratta di scegliere se la sua necessaria gestione economica debba essere svolta, in ogni caso, direttamente o indirettamente da enti pubblici territoriali (attraverso aziende pubbliche) o se, invece, non possa essere anche svolta da aziende private sotto il controllo di privati. L’acqua potabile, secondo il pensiero di Giovanni Paolo II, è un diritto umano elementare, come lo sono il diritto al cibo, alla casa, all’autodeterminazione e all’indipendenza (Messaggio per la giornata mondiale della pace 2003, ora ricompreso anche in Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, 365) . Se l’acqua potabile è un diritto umano elementare, il suo accesso diviene il diritto di tutti; ne consegue, quindi, che siamo dinnanzi ad un diritto universale e inalienabile. In quanto inalienabile nessun essere umano può esserne escluso, per cui ne deriva che l’acqua potabile “non può essere trattata come una mera merce” giacché il “suo uso deve essere razionale e solidale”. In quanto rientrante tra i diritti umani elementari, l’acqua potabile è anche un bene pubblico “caratteristica che va mantenuta qualora la gestione venga affidata al settore privato”. Secondo Benedetto XVI (nella Caritas in Veritate), la mancanza o la carenza di accesso all’acqua potabile, insieme alla carenza di cibo, di istruzione di base e di cure sanitarie, sono da considerarsi un “vizio della società opulenta”; sono cioè storture del sociale dovute al tornaconto e alla mancanza di solidarietà e di capacità sussidiaria. Siamo di fronte a storture sociali che dipendono dall’aver adottato nei confronti di questi servizi e questi beni elementari un approccio squisitamente liberal capitalista. Secondo questo approccio, infatti, il tornaconto è l’unica motivazione che supporta l’agire economico e in sua assenza si manifesterebbe, invece, disinteresse e abbandono dell’atto socio economico con la conseguente insoddisfazione del bisogno che si sottende a quel particolare diritto elementare ed universale. La proprietà e la ricchezza non sono diritti assoluti, ma sono talenti a disposizione per il bene comune. L’accesso all’acqua potabile (in quanto bene pubblico) , origina un diritto elementare ed universale; questo diritto non può venir mai meno e deve essere sempre difeso dai cristiani, ai quali, di conseguenza e di fatto, viene demandato il compito di monitorare e verificare che esso possa essere oggettivamente esercitato da tutti, giacché esistono vie e strutture che lo rendono adeguatamente praticabile. All’acqua potabile deve essere sempre riservata la caratteristica di bene pubblico anche quando “la gestione venga affidata al settore privato”.L’acqua, in buona sostanza, è e deve sempre restare un bene pubblico.

“L’utilizzazione dell’acqua e dei servizi connessi deve essere orientata al soddisfacimento dei bisogni di tutti e soprattutto delle persone che vivono in povertà” (Mons. Mario Toso, segret. del Pontificio Consiglio della Giustizia e Pace).

Non a caso la Dottrina sociale della Chiesa raccomanda che il suo “uso deve essere razionale e solidale”. Affinché l’uso dell’acqua potabile sia razionale e solidale, da un lato, occorre che la gestione dell’acqua (dal suo reperimento sino all’abitazione del consumatore finale o sino a tutti i luoghi di organizzazione collettiva che il sociale
prevede: scuole, fabbriche, ecc.) sia svolta con la preoccupazione che si sta operando economicamente su un bene che è al contempo pubblico e indispensabile e, dall’altro, che il consumatore finale ne faccia un uso consapevole di trovarsi di fronte ad un bene comune e, quindi senza sperperi e sostenendo, secondo le sue capacità economiche (solidale) l’uso collettivo del bene stesso. Una gestione razionale e solidale, ma anche un uso razionale e solidale. Sono proprio le modalità gestionali che debbono essere monitorate e verificate perché sono esse che, nella concretezza delle cose, hanno sempre dinamiche economiche, in quanto, per loro stessa natura, implicano costi (per investimenti e per l’esercizio) da sostenere e obiettivi di efficacia e di efficienza da perseguire; sono esse che possono, più o meno, facilitarne l’accesso a tutti per la soddisfazione del bisogno diritto. Il problema allora si sposta dall’oggetto alla ricerca della sua più efficace, efficiente e solidale gestione. La gestione per questo accesso all’acqua potabile, così come la totalità di tutti gli atti gestionali duraturi e sistematici volti alla produzione di un qualsiasi bene o servizio, non può che essere svolta se non da un’azienda. Solo un’azienda con i suoi elementi patrimoniali, finanziari ed umani è in grado di mettere in essere un’adeguata gestione sistematica e duratura, che vada dal reperimento di questa fondamentale risorsa alla sua più adeguata e solidale distribuzione, affinché il diritto di accesso possa essere adeguatamente ed equamente esercitato. Siamo così di fronte a un’altra scelta: questa azienda impresa deve essere pubblica, privata o mista? Dobbiamo stare attenti perché l’indagine economico aziendale, per definire se un’impresa è pubblica o privata, non si ferma al vestito giuridico che essa ha assunto, ma si inoltra ad individuare chi sostanzialmente è in grado di nominare la maggioranza dei consiglieri d’amministrazione. Potrebbe, quindi, capitare che in una società per azioni (giuridicamente privata) , la maggioranza del capitale sociale sia di proprietà di un ente territoriale (Stato, Regione, Provincia, Comune) e che sia proprio questo soggetto pubblico a nominare la maggioranza dei consiglieri e, di fatto, a determinarne la governance, le strategie e le concrete operatività. In questi casi, sebbene giuridicamente privata, nessuno potrà affermare che l’impresa si trova sotto
l’influenza e il controllo di privati. Dobbiamo essere attenti e non fermarci al “vestito” giuridico dell’impresa, ma alla sostanza economica che la mantiene in essere e si deve altresì verificare come questa impresa pubblica, ma formalmente privata, operi ed agisca concretamente sui mercati di incetta e di collocamento e quindi quale spirito (solidale o tornacontista) mette in essere per postulare i suoi obiettivi tecnici e quelli sociali e con quanta efficacia ed efficienza operi per perseguirli. Il variegato mondo delle possibili “forme” aziendali non è mai indifferente rispetto alla sostanza economico sociale che si intende perseguire. Queste dinamiche non trovano la loro più adeguata soluzione attraverso presupposti ideologici, ma con la vigile attenzione alle congiunture e alle situazioni in cui, di fatto, si vengono a trovare gli enti pubblici, il mercato, le fattive possibilità di mettere in essere una gestione “razionale e solidale”, nonché la possibilità o meno di fronteggiare le necessità degli investimenti necessari, ecc. Occorre, in definitiva, avere uno spirito aperto ed un’intelligenza non soffocata dal pregiudizio per seguire “l’evoluzione che il sistema produttivo sta compiendo” avendo presente “che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro” (Caritas in Veritate). Detto questo, non è possibile tacere un’indispensabile esigenza: tutte le volte che ci troviamo di fronte alla gestione di un bene pubblico che comporta risvolti ampi sul sociale, la sua gestione non può essere lasciata al mero arbitrio del mercato di tipo capitalistico.
Afferma Monsignor Mario Toso:
“L’acqua ha una tale rilevanza sociale per cui gli Stati non possono demandarne la gestione ai soli privati. La gestione dell’acqua, bene pubblico, ha bisogno di un controllo democratico, partecipato. Ciò che alle volte gli Stati non riescono a fare va promosso
tramite una cittadinanza attiva, in un confronto serrato con le stesse istituzioni pubbliche”.
"Paolo Merli, da PMmySite"



Piacenza, inaugurazione impianto idrovoro della finarda 1938 - coll. Pizzamiglio