penna

ho in Mano un Tesoro

“racconto di Giovanna Vegezzi Mezzadri”

Mi sono sempre piaciuti i vecchi ricettari di cucina che vedevo in certe case dove andavo da bambina.. sbucavano da cassetti rivestiti di carta fermata da puntine insieme a forbici un po’ arrugginite, elastici, copridita di gomma, scatolette piatte di Saridon contro il mal di testa, tappi di sughero di ogni dimensione, ritagli di fogli di giornale, foglie secche di alloro. Se potevo, li sfogliavo, ma da bambina capivo poco, non pensavo certo di essere in grado di mettere in pratica una ricetta, ma mi piacevano come fatti in sé. Vedevo, forse immaginavo, donne con un grembiule stretto in vita, un cucchiaio di legno in mano, la collana di perle al collo, magari i tacchi, davanti a questi quaderni aperti sul tavolo della cucina. Erano tutti quaderni rigorosamente scritti a mano, un po’ sgualciti, un po’ unti, ma mi attiravano. Poi, a distanza di anni, mi sono ritrovata, tra un trasloco di una zia, la chiusura di una casa di un’altra zia, la morte della nonna, un regalo di un’amica (poi rivoluto indietro), un regalo di un caro amico, a gestire tanti vecchi bellissimi ricettari provenienti da famiglie diverse. Era un tesoro interessante e divertente, ma per un bel po’ di tempo è rimasto in un mio baule anche perché, certe ricette sembravano ormai non destare più alcun interesse, addirittura sembravano anche poco appetibili, poi certi ingredienti erano veramente irreperibili. Le drogherie stavano sparendo dalla città e nei supermercati si trovava di tutto, ma niente di quello che chiedevano certe ricettine.


C’era una drogheria a Piacenza in Via Legnano, angolo Via Roma, che aveva un pavimento fatto di assoni in legno e una bella pedana sotto il banco sempre di legno rumorosa e scricchiolante. Il banco, enorme, sorreggeva una serie di vasi di vetro con il coperchio di alluminio pieni di ogni bendidio e anche dietro c’era una serie doppia, tripla e anche quadrupla (spesso il ricordo dilata tutto) di contenitori di legno, con oblò in vetro, sovrapposti in sbieco da cui si vedevano, caramelle, spezie, cioccolatini, mentine, giuggiole, farine, colle, cremor tartaro, corteccia di china contusa, bastoni di cannella, baccelli di vaniglia e poi il salnitro, l’acido citrico, la conegrina, la soda, la senapa e.. non finirei mai questo elenco. A me piaceva vedere tutti quei prodotti e annusare tutti quei profumi commestibili e no che si mescolavano. Ad alimentare, ancora adesso il ricordo di questa drogheria, era la padrona: una vecchietta piccola, grassottella, vestita di grigio, che era la zia di una mia amica, la zia Rina. Io accompagnavo, gentilmente, la mia amica a trovare la zia in negozio e mentre loro si facevano i convenevoli io, ad un cenno della mano della mia amica, prendevo tutto quello che potevo e me lo infilavo in tasca.. Fuori poi passavamo il resto del pomeriggio a sgranocchiare, succhiare, smangiucchiare finché ce n’era! Così pian piano tutte le drogherie o quasi sono sparite e tanti prodotti e ingredienti dai nomi belli, ma un po’ strani che leggevo sui libri della nonna o della zia Lena non sapevo proprio dove reperirli. C’è stato anche un periodo, piuttosto lungo, in cui le vecchie ricette non interessavano più a nessuno, ognuno cercava di fare in fretta da mangiare, i supermercati offrivano sui banchi degli ottimi surrogati dei cibi fatti in casa, degli ottimi biscotti, delle belle cose in generale per cui, troppa attenzione e cura alla cucina e all’arte culinaria, erano proprio fuori moda ed una perdita di tempo.. anzi le famose ricette che volevano vedere a lungo la cuoca in faccia (per usare una bellissima espressione del Pellegrino Artusi) erano bandite dalle donne (che cuoche non amavano chiamarsi) e dalle loro cucine, un po’ all’americana o perlomeno dalle cucine asettiche e lucide degli anni ’80. Poi c’è stata un’inversione di gusti, di esigenze e i fratelli Rebecchi di Rivergaro, hanno colto questo richiamo e lentamente, con delicatezza e attenzione hanno riportato, non più nelle drogherie, ma nei supermercati tanti ingredienti, che io pensavo si fossero tristemente perduti per sempre. Invece io li ho ritrovati con gli stessi nomi o i soprannomi e allora ho potuto di nuovo tuffarmi nei ricettari e provare o riprovare a fare piatti dai nomi antichi, cibi che mangiavo alle feste, in casa dei nonni: ogni festa, aveva un piatto particolare e così ogni persona e così ogni domenica, ogni comunione o battesimo. Io sono una cuoca strana, non faccio tortelli, anolini e neanche pisarei, ma faccio molti pranzi, molte cene, molte feste e ogni volta che invito qualcuno o festeggio qualche cosa per qualcuno faccio qualche cosa di speciale che possa fare piacere al festeggiato per dire o pensare: ”Ho capito che ci tenevi! ”oppure: ”Pensavo che ti facesse piacere! ”E così, ho pensato, di assemblare questi libri, fare rivivere sì queste ricette, ma anche tanti ricordi che io stessa non sapevo di avere. Anzi, proprio il ricettario della nonna non mi è arrivato direttamente, ma ha fatto un giro strano: è arrivato in Spagna ad un’altra nipote spagnola, l’Elisina, Io ho pensato: “Chissà quanti strachini gelati o dolce Mussolini, o ciambelle con il buco si farà l’Elisina a Madrid.?” Ben, però l’Elisa è stata brava e dopo un po’ mi ha mandato per posta la fotocopia di questo libro con queste parole : “Pensavo che ti avrebbe fatto piacere averlo!” E’ stata proprio attenta e, anche se avrei preferito la copia originale con le patacche originali vere, mi sono accontentata e mi sono persa in quei fogli di ricette con i nomi tra parentesi di signore che le avevano tramandate con generosità e fierezza. Sono tutti nomi di donna perché, se Dio vuole, allora di uomini, in cucina, non ce n’erano, quelli che c’erano, poverini, dovevano proprio esserci e non passavano le ricette a mia nonna. Poi gli unici due che a quell’epoca facevano proprio da mangiare per la sussistenza e la sopravvivenza cioè 365 giorni all’anno a pranzo e a cena, non sono menzionati con nessuna ricetta: sono Guido cuoco, cuoco titolare e titolato della famiglia e mia madre nuora titolare e non so se titolata. Ma a parte questo io amavo perdutamente le cucine di mia nonna: quella di campagna e quella di città. Con tutti i nostri tanti ragazzi che partono per luoghi sparsi nel mondo, ma anche non tanto lontani in cerca di lavoro, identità, sicurezza, forse in cerca di qualche cosa che qui non trovano, in fuga da qualche cosa da cui sono disturbati, io penso di regalare loro un po’ di tradizioni, una ricetta dimenticata, un lessico ormai poco usato. Non so se quando tornano apprezzano tutto questo, un’accoglienza, un piatto speciale, il frigorifero pieno di cose buone, la nonna a capotavola, il cuginetto appena nato (è un maschio o una femmina e.. tutto a posto?), le notizie sparse belle o brutte che non devono essere pettegolezzi. Non è facile, cogliere il momento giusto per dire una cosa, offrirne un’altra e proporne un’altra ancora.. Sempre al limite del corretto. Ma riuscire ad offrire loro una parvenza di famiglia davanti ad una tavola con cibi giusti e fatti con amore è già un bel passo avanti. “Pensavo ti facesse piacere!” Quindi ho scelto le ricette di questi libri di cucina che a volte accarezzo con le mani e con lo sguardo adattandoli a periodi dell’anno ben precisi a cose che mi capitano, alle persone che vengono a casa mia per pranzi, cene, feste e merende. Sono ricette, ricettine, ricettone dai nomi semplici o altisonanti, a volte dai nomi un po’ buffi, ma che vale la pena di leggere, ma soprattutto di provare. La cosa interessante, poi, in una città piccola come Piacenza, è che ogni ricetta ha all’inizio, tra parentesi, il nome della signora o della famiglia a cui appartiene e.. bene o male io le ricordo tutte o quasi. Molte signore non ci sono più , addirittura due cognate di mia nonna che non si parlavano forse non si sono mai parlate, sono presenti con la stessa ricetta, nome diverso, ma lo stesso dolce.. molto, molto semplice, ma elegante.. che poi era la ricetta della famosa donna Letizia (che era la moglie di Montanelli). Gli ingredienti sono le ova, i torli, la zucca monda, il rosoglio , il liquore forte, l’alio o l’oglio. A volte nella ricetta tra una parola e l’altra c’è il buco: non so se è una voluta dimenticanza o il non volere passare la ricetta intera o magari è solo una svista e una dimenticanza. Addirittura la zia della mia amica si è indebitamente appropriata in blocco delle ricette di un’altra zia che era poi sua cognata, ma si sapeva, poi, chi era la cuoca vera e chi la ladra. Le ricette erano scritte con la penna stilografica, con una scrittura chiara e un po’ obliqua e io ho sempre detto che le ricette di mia nonna avevano vicino anche l’assaggio tanto “erano impataccate”, ma ora sono rimaste solo delle macchie scure, alonate e anche qualche buco (forse le ricette fatte con aceto, limone o vino bianco). Le ricette del tempo di guerra sono le più originali e scopri proprio l’arte di arrangiarsi e di come fosse grande il desiderio di avere un surrogato di quello che prima era sulla tavola quasi abitualmente.


Un po’ mi dilungo perché mi vengono in mente certe cucine con i pentoloni appesi, con i loro coperchi, i lavandini di pietra, i camini, dei bei servizi di piatti, dei bicchieroni con il culo spesso, la macchinetta per il flit da spruzzare “finita la cucina” o quelle carte moschicide appese ai lampadari e poi le bugie con le candele e le scatole di fiammiferi accanto, l’odore dell’aceto casalingo, le fornaselle, il pavimento di cotto pulito, ma pieno di macchie, i bottiglioni di vino anche loro con il culo spesso e profondo, il secchio con l’acqua del pozzo con vicino il mestolo con cui tutti potevano bere. E poi il burro in un panetto giallo un po’ sciolto e un po’ puzzoso e certe pere dure nel cestino della frutta, il pane nel sacchetto di tela, la madia con due o tre tipi di farina, i coltelli più pericolosi avvolti meticolosamente nella carta di giornale, la padella di ferro con il sugo da un arrosto all’altro, il sale grosso dentro un contenitore di legno con il coperchio in alto. Le “polinere” pesanti e pulite solo ogni tanto con dei fogli di giornale appallottolati, i giornali poi erano anche nei gabinetti tagliati a pezzi regolari ed infilati in uno spago, ma questo non c’entra con le ricette. E poi ancora il pentolino con il latte sul fornello incrostato perché scappato (il latte!); il profumo del latte scappato e il sapore di quel crostone di grasso che si formava in superficie è indimenticabile; l’asciuga-insalata di ferro con il manico di legno, i mattarelli enormi da sfoglia con un pomello solo da una parte infilati in un buco del tavolo di marmo, i grembiuli a righe da cuoco o da cuoca che, anche puliti, sapevano di rancido. Così aspetto ad entrare nelle ricette vere e proprie perché ogni ricordo, ne fa affiorare altri e il “ricordar mi è dolce in questi tomi”. In molte case, poi, si mangiava sempre uguale a seconda dei giorni della settimana con qualche variazione dovuta alla stagione e ai prodotti offerti dal mercato o dalla campagna. A me questo non piaceva: cenare a casa della nonna e sapere già che cosa avrei mangiato non mi sembrava bello, ma faceva parte dell’economia di una famiglia senza sprechi e avanzi e senza troppa fantasia. Magari la domenica c’era il brodo con i lessi misti, poi lunedì una pasta con il sugo rosso e il formato era mezze maniche dei frati, il martedì con l’avanzo del brodo della domenica si faceva il risotto, anzi un bel risotto bianco e sopra ci si mettevano i messicani che erano involtini di carne nuova con un po’ di carne del lesso avanzato tritato con uovo, formaggio, pane e salvia, il mercoledì si faceva pollo o fegato, il giovedì cotolette, ma la sera c’era il riso ”mangiarino”, cioè riso stracotto con dentro molto prezzemolo (aiuto!). Il venerdì era per il merluzzo o per il pesce del Po con la polenta o uova, il sabato era il preludio della domenica con arrosto e patate cotte a puntino nel sugo dell’arrosto che poi rimaneva nella polinera. Questa era un po’ la rotazione settimanale a casa di mia nonna che tra l’altro, un po’ mi vergogno a dirlo, ma a dirla tutta mi vergognavo anche allora, aveva un cuoco, il Guido. Le ricette non sono del Guido, perché le ricette di mia nonna, come altre dei libri che ho, non contengono ricette di prima necessità. Per molte signore della Piacenza bene il fare da mangiare era un divertimento per sé e per quelli che venivano invitati e per cui le varie signore si esibivano. Quindi canapé, tartine, barchette, mousse, spume sono tutte parole che mi ricordano mia nonna e le signore che offrivano i tè su carrelli tintinnanti, verso gli anni ‘60. Queste ricette fatte per stupire erano non solo gioia degli occhi, ma anche del palato perché, a parte le torte, erano anche buone. Ma in cucina per il sostentamento c’era il cuoco, il Guido cuoco che, quando vedeva la sua padrona girare in cucina con le sue ricette si arrabbiava un po’, ma non lo dava a vedere, emetteva solo uno strano rumore felino dal naso e poi tirava dritto. Poi toccava a lui lavare tutte le ciotole, le spatole, le tasche che la nonna sporcava senza risparmio.