penna

l'incredibile caso del Fegato Etrusco

“di Paolo Maurizio Bottigelli”


Per Piacenza quegli anni erano anni strani, la città si ingrandiva, crescevano case ospitavano una immigrazione interna proveniente dalla montagna. Nelle strade cominciavano ad apparire le prime Fiat e le prime insegne luminose dei Bar stuzzicavano la curiosità.. Il tempo aveva camminato più in fretta di me e mi aveva superato, ma potevo tentare di raggiungerlo davanti ad un piatto caldo di tortelli e con i piedi sotto al tavolo come si dice da queste parti. La trattoria dove chiesi rifugio era il Tre Ganasce di via Sopramuro.. pochi tavoli con le gambe rigonfie di tondelli, in terra le piastrelle di cotto, al centro della stanza la grande stufa rossa di creta. – Coma va commissario? - Bene.. Renato..- Intanto, Renato, aveva cominciato ad affettare coppa salsiccia e me ne portò un piatto, riempì con religiosità un bicchiere di vino..- E’ roba nostrana commissario.. tanto per farsi la bocca. Il vino nel calice sorrideva diffondendo ottimismo insieme al profumo dei sempiterni salami che usciva dallo spioncino della cantina. Cominciai a mangiare quella coppa, un piacere raro, bevvi un sorso, trattenendo il Monterosso in bocca al punto di annegare le papille, dissi Renato: ”alla fine per onorare la cucina mi affido alla fantasia del cuoco, e che vinca il migliore”. Nel frattempo sentii una voce alle mie spalle: Sempre con appetito commissario..! Che vuol farci. Era Rachele, una signora a modo, avrà avuto sui sessant’anni molto ben portati, capelli e occhi sul grigio e quando rideva sembrava si togliesse gli anni. Rachele gestiva il banco del lotto a pochi metri dal ristorante, dove tutti i venerdì una parte della popolazione si accalcava nella ricevitoria per le ultime giocate al lotto discutendo a voce alta previsioni e speranze. Invece per tutte le altre sere, era la cassiera del cinema Garibaldi. Mi dai alcuni numeri da giocare Rachele,- la signora Rachele parlava adagio senza enfasi. E’ una richiesta un po’ pazza caro commissario, disse, se avessi la sfera.. Commissario! si sente Marlowe o Maigret? Mi sento Mike Vargas il poliziotto messicano che combatte il capitano Quinlan, Pati, Domite, aut mori. Perché proprio Vargas? Storia complicata e complicata la risposta signora Rachele. L’incipit indimenticabile de “L’infernale Quinlan2, opera maledetta di Orson Welles, è il piano sequenza più impressionante della storia del cinema.- Condivido signora Rachele.- Forza a mangiare commissario, e a Rachele cosa porto?- Renato si presentò con zuppa di pesce del Po, e di secondo una montagna di albarelle, così croccanti da sembrare biscotti appena sfornati. Poco dopo Renato, ritornò dalla cucina con due piatti: Ragazzi, qui ci sono due anguille in umido, che vanno mangiate, ecco qui per la Rachele e per il commissario- Genio d’un Renato, laudetur Renatus dominus noster esclamai, lasciandomi beatificare dal profumo amorevole e misterioso di quella pietanza. Primo e secondo intensi, ma il dolce fu il vero Gloria nei cieli.. per il palato, frittelle di farina di castagne, il tutto intinto nella malvasia.. era come se tutto venisse da un mondo che non era la terra. La grappa era un canto fra grandoni gotici e fiordi spigolosi. Terminato la cena , prima di andarmene, con garbo salutai la signora Rachele e con gratitudine Renato.. che dopo quel pasto fossi stato il sindaco gli avrei consegnato le chiavi della città. Dopo la trattoria, me ne andai alla festa di via Borghetto. Quando arrivai, cominciavano una serie di fuochi d’artificio.., margherite e stelle.. e colori a grappoli.. quando venivano sparate le figure di stelle che dopo l’apertura rimanevano sospese nel cielo notturno per qualche minuto, tutta la gente guardava con il naso all’insù.. quasi morendo a furia di trattenere il respiro dalla meraviglia.. ce ne sono in giro di spettacoli di fuochi d’artificio, ma come quello, alla gente di Cantarana sembravano unici. Il quartiere rinchiuso in una felicità misteriosa, di corse, di scintilli, di sguardi e di brusii pareva tornare a quel mondo infinito dove le risate irridevano il civico potere e la cupa autorità. Giacomo, prendendomi per un braccio in una atmosfera di urla scoppi e musica che si scioglieva nelle nebbie dei caldi odori che salivano dalle cucine roventi allestite nella via, mi disse: “ti piace commissario?”.. –fantastica- dissi, c’è anche La balera.


“E guarda c’è anche il Palo della cuccagna”. Era posto all’incrocio tra via Borghetto e la via San Bartolomeo. Un grosso palo di legno di circa 12 metri di altezza con posto in cima, un cerchio in ferro con pietanze di vario genere. Solitamente non mancava mai qualche bel gallo, o un grosso coniglio ancora vivi, che, spaventati dall’angusta posizione, forse immaginavano già quale sorte sarebbe stata a loro riservata. Inoltre, si vedeva spesso penzolare qualche bel salame unitamente unitamente ad un bel “sacco di pasta” da 5 chilogrammi ed a volte qualche pacchetto di sigarette. Il palo veniva poi cosparso di grasso per rendere la vita meno facile a chi lo arrampicava. La balera era montata nella via maculani, erano tavole di legno lucidate e messe giù in cerchio. Era piena di gente che roteava al suono di un’orchestrina di sei elementi vestiti con pantaloni bianchi e giacche blu luccicanti, i capelli impomatati. Un delirio di suoni.. rumbe magiche.. melodie tzigane.. chitarre.. fisarmoniche, guardavo le coppie come ballavano, restavano impigliate in un ritmo infinito, quasi la danza si trasformasse in una marcia infinita, mentre le loro ombre fuggivano vacillando. Amici e amanti in ghingheri, popolo operaio e signore attardate con cappe color fumo e con i capelli sciolti, ad esorcizzare gli anni che passavano, tutto infuriava, in quel mondo di eroi tra fabbriche e falsi profeti ridevano gridavano come in una grande festa prima della fine del mondo. La città in cui camminavo divennero due, una sensazione nuova, un gioioso stupore mi accompagnava. Guardavo quei corpi partecipare alla festa, impetuosi accaniti. Dopo i conflitti e le lotte furibonde la cui posta in gioco era la vita e il gusto della democrazia, la civiltà e la dignità della loro persona. Il solo fatto di esistere quella sera, diventarono incuranti del tempo, della loro condizione sociale. Quella sera l’importante era “brillare” per sfuggire alla monotonia dei giorni. Ai bordi della balera c’era un gruppo di operaie delle fabbriche dei bottoni, che qui chiamano batusa, che se la ridevano con un gruppo di militari che portavano i loro cappelli infilati nelle spalline della camicia. Giù poco distante dalla balera vidi Ginevra con due ragazzetti, ma non c’era Antonia, mi avvicinai: Ciao, allora Ginevra.- Ciao commissario, vieni a bere con noi?.- No, credo di no. Tutti hanno smesso di bere vedo, commissario. Ginevra soffiò con vivacità un anello di fumo, scuotendo la testa e sporgendo le labbra, era divertente come manteneva tutti quei vezzi come fosse ancora una ragazzina. Anima splendida- dissi- e Atonia?- Sorrise, dicendomi che era venuta da sola, che Atonia non c’era perché aveva un impegno. Ginevra aveva due belle gambe, lunghe e tornite. C’era nei suoi occhi qualcosa di dolce e di infelice, si accarezzò la nuca e sorrise senza guardarmi. Si era messa a bere troppo, anche adesso aveva bevuto, fragili sentimenti i suoi con la sua disperazione, i morbidi movimenti delle braccia e dei fianchi affascinavano gli uomini e il suo parlare con la gente aveva un fondo di pigro piacere. Ti abbraccio Ginevra- dissi salutandola. Ciao commissario. Alla fine mi stancai della festa e passando sotto il torrione andai a fumarmi una sigaretta seduto sul muretto che porta al vallo delle mura. C’erano coppiette abbracciate, una ragazza si staccò dal suo compagno e si mise a ballare e a cantare.. Guardai le foglie che si muovevano al vento leggero, udii le voci, mi abituai al buio.. e benché la testa fosse piena di canti, mi risuonava forte preceduto da un suono spettrale un nome.. Fegato etrusco.


Diedi un calcio ad un sasso. Alle volte alla domenica giocavo con i figli di Colucci, intorno alla casa c’era un piccolo terreno, c’era un’altalena e i bambini si dondolavano, avevano negli occhi una sensazione di piacere, che manifestavano anche chiassosamente con grida e risa, ed io il mio spingere le due altalene nel mezzo di quel momento gaudium, divertito. Colucci, che nel frattempo era incaricato del pranzo, di tanto in tanto, guardava felice dalla finestra del salotto divertito come i suoi bimbi. Una volta con Colucci e i figli montammo sul treno e andammo a Bettola.


Lo prendevo spesso il tramway per Bettola, che lasciata la stazione centrale, spuntava in fondo allo Stradone Farnese, quelle mie escursioni le chiamavo il viaggio, era nella mia mente un nirvana, la dolcezza del viaggio, del continuo; come un flaneur. E’ semplicemente un dato di fatto che gli uomini raccontano storie viaggiando. E’ così che viviamo, è parte della nostra natura umana, “è così che assimiliamo il mondo”, dice Paul Auster. Come nello svagare passeggiare boudelairiano mi lasciavo portare dal caso, non pretendendo di arrivare in nessun luogo, ma solo il godere di andare sempre avanti, fotografando immagini, evocando ricordi, osservando i tipi umani che incontravo, registrando voci e racconti. Non c’erano risposte, in quella ricerca, ma solo testimoni privilegiati di un tempo che procedeva per svolte epocali. Non per illudersi di capire, ma per non perdere la memoria di un passato recente che ha lasciato cicatrici nelle città e negli uomini e che pèure sembra già spazzato via dalle ruspe insieme alle macerie, Mi piaceva muovermi pigramente, senza cogliere e liberare nessun frammento di speranza, di felicità, ne promesse di un qualsiasi futuro, che venivano man mano sepolte dal respiro meccanico delle ruspe. In quei brevi viaggi cercavo almeno di trovare me stesso e una ragione per continuare a vivere. Peregrinavo per quella valle, la Val Nure, ora misurandone le sue ondulazioni fatte da altitudini e gole, ora guardando la luce strana che si infilava tra gli alberi. E quando il treno si avvicinava all’ultima stazione ferroviaria, Bettola, quello era il confine del mondo. Una mattina in uno dei miei viaggi, mentre il treno proseguiva verso la collina, una improvvisa pioggia vetrosa cominciò a cadere con una certa intensità, martellava sui finestrini con un tenue suono e portava con se un freddo intenso, allora con le dita intirizzite cominciai ad intrecciare ghirigori insensati sul vetro appannato del finestrino. Era come un codice impercettibile, oscuro nel cuore del giorno un’ultima poesia alla fine del mondo. Arrivavo sempre all’osteria del Cacciatore, mi bevevo sempre la mia Malvasia, il vino di quelle colline era amabile e aspro, i raggi del sole, l’azzurro del cielo, amavo quelle atmosfere, il canto degli uccelli, io ho amato e ho vissuto e ora vivo, nient’altro. Il suono delle campane di mezzogiorno mi metteva dell’umore giusto, e lasciava la piazza e le strade deserte, mentre il suono delle campane si perdeva in una nuvola sonora tra i monti, la gente sedeva a casa sua, e solo nei giorni di mercato o di domenica, le osterie si riempivano di agricoltori, di mediatori di bestiame, viaggiatori della domenica. Nel vento gli odori dei cibi, sembravano messi li apposta per ispirare un poeta agreste e civettuolo. Quando andavo nell’osteria, sedevo in un angolo, un piatto di puleinta e graséi, Malvasia, e con lo sguardo che affogava oltre i vetri della finestra, guardavo quel mondo che si faceva vecchio, e incomprensibile come l’essere umano. A suo tempo ero stato in grado di leggere libri importanti, e in compagnia di amici dire sciocchezze a buon mercato, a suonare il pianoforte, a riflettere sull’opportunità di una manifestazione, preparare un volantino. Adesso le convinzioni sono confuse, e le passioni, nel cuore e nella testa della gente, si sgranano come foto non bene a fuoco. E il nostro presente assomiglia ad una fortezza sospesa e rumorosa di niente e di silenzio, molte parole languivano nell’aria stagnante. Eccomi nella grande piazza, scruto le facciate dai contorni incerti, i tetti, i loro alti comignoli, cercavo un punto d’appoggio.


Bettola si offriva allo sguardo, era domenica, la gente passeggiava in abiti primaverili sotto il sole, e per lo straniero c’era più diffidenza che ammirazione. D’un tratto si levò un vento e un frastuono, alcune persone cominciarono a correre. Da tutte le case si udiva il rumore delle finestre che si chiudevano. Sul lastricato deserto e polveroso adesso cadevano le prime gocce di pioggia, e su in alto tra le cime dei monti si innalzava il rombo del tuono, preceduto da certe saette, che proprio il detto “fulmini e saette” pensavo sia stato inventato guardando quei temporale di Bettola. Era uno di quei temporali che a volte venivano inflitti a quei paesi, come fosse un annuncio, un annuncio di un castigo divino. La fine del mondo, e l’avanzata dei suoni distruttori, fecero decidere per tornare verso casa. Sul treno di ritorno, mi misi ad osservare una donna, una signora, che faceva il broncio all’uomo seduto accanto, un tempo forse era stata bella. Quel suo viso non conosceva rughe, pareva accogliere solo l’accenno di rughe, di quelle inevitabili dell’età con letizia. Nel suo viso largo, dai lineamenti puri, appariva un filo di tristezza. Accesi una sigaretta e lasciai che il treno scorresse dentro il paesaggio.


cinema Garibaldi

La sera era per il cinema Garibaldi, proiettavano “L’ultimo Apache” con Burt Lancaster. Quando entrai in platea stavano proiettando il cinegiornale.. si sentiva l’odore che solo le sale cinematografiche hanno.. l’odore del cinema, l’odore che quando esci si trasforma in nostalgia. Partì il film, 1886: dopo la resa di Geronimo e dei suoi guerrieri ribelli, il giovane Massai continua da solo la lotta finchè, sconfitto, si rassegna a trasformarsi in contadino e a sposarsi. Il 1° dei 6 western di Aldriche un fil bello e vigoroso, quello in cui il discorso filoindiano è più esplicito. Ricco di invenzioni, con un Lancaster solido come una roccia. Anche se il finale è stato imposto ad Aldriche dalla produzione. Aldriche lo voleva meno ottimista. Quando uscii.. una pioggia sottile con un leggero vento d’agonia un delizioso Nirvana.. mi sentii puro, buono. Quella notte non volevo dormire, lasciato il Garibaldi, camminai per le strade e i vicoli della città assopita, trascinato dell’incoffessata speranza di vedere apparire l’ultimo Apache, dovevo ritrovarlo ad ogni costo, era lui che cercavo da quando il fuoco yanke ha consumato le nazioni dei nativi, la loro memoria si era persa in un film qualsiasi. Accellerai il passo, l’alba nasceva e io tornai a casa solo. (edizioni Filios, Piacenza).