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Ricordi Giovanili di una Maestra

lo Scorrere della Vita a Roncarolo di Caorso

“di Luigina Consolini”

Prefazione di Claudio Consolini.
L'autrice di questa raccolta di memorie, la mia cara zia Luigina, ha trascorso infanzia ed adolescenza qui a Roncarolo, trasferendosi poi più volte, seguendo la sua missione di Maestra Elementare. Stabilitasi infine a Canneto sull'Oglio (Mantova), ha continuato ad insegnare fino all'età del pensionamento. Ancora oggi, nonostante gli acciacchi dell'età, coglie ogni occasione per tornare ad "ossigenarsi" a Roncarolo, dove restano i suoi ricordi di gioventù.


Luigina Consolini – tessera del 1942

Introduzione.
Alla gente di questa terra generosa perchè valorizzi e continui ad amare la ricchezza di vita, di cultura e religione scandite dal calendario popolare del vecchio mondo.

Perché tutto non vada perduto.
Si sono spenti nel silenzio usi, tradizioni, cerimonie che un tempo scandivano il ritmo della vita e del lavoro del contadino e del pescatore. Guardare a ieri senza rimpiangere un mondo di stenti e fatiche serve oggi a godere di quel benessere che ci circonda. Superata la povertà e vinta la vera fame, niente ci impedisce di rivisitare il tempo perduto per capirne la saggezza e l'umanità e per scoprirvi eventuali strade ancora in grado di portarci verso orizzonti più luminosi. L'intendimento di queste mie pagine è di testimoniare quanto avveniva nel passato (dal 1930 circa) sia come modo di vivere, come abitudini di lavoro, di vita sociale, in un paese di campagna a me tanto caro: Roncarolo. Rievocare il passato è come compilare una pagina di storia da non dimenticare, da cui attingere valori etici e morali sempre validi per una convivenza serena. Chiedo venia se vi possono essere alcune lacune o dimenticanze. Sono pagine semplici, ma veritiere, di vita vissuta in un periodo quando la famiglia era ancora patriarcale, unita, guidata dalla figura maschile più anziana, mentre alla donna era affidata la cura dei figli e l'assistenza alle persone avanti con l'età o malate. Non sono mancati sacrifici, rinunce, abnegazione e sottomissione ad un regime autoritario che toglieva libertà di pensiero e di azione. Uno dei suoi motti era "Taci! Il nemico ti ascolta!"

L'infanzia.
Sulla riva destra del fiume Po, a circa 15 chilometri da Piacenza, sopravvive il paesello di Roncarolo, tanto caro alla mia memoria, dove ho vissuto gli anni belli della mia giovinezza, dove ho subito gli incubi di una guerra tremenda, dove ho coronato il sogno più lieto della mia vita. A volte mi soffermo, nel silenzio della mia casa, a pensare e spesso ritorno con la mente al mio paesello. Rivivo i disagi sofferti e mi rivedo piccola, quando, per coronare il sogno di diventare maestra, dovevo ogni giorno sobbarcarmi, in bicicletta, i 15 chilometri che mi separavano dalla città. In paese non c'erano mezzi di trasporto pubblici. La strada sull'argine del Po era sterrata fino alla statale di Fossadello e, a quel tempo, gli inverni erano ricchi di neve e di gelo. A volte il vento ammucchiava la neve sull'argine, per cui bisognava alzare la bicicletta per oltrepassare quei cumuli candidi. Sull'asfalto spesso si formava il ghiaccio nelle carreggiate dei carri, dei carretti e dei pochi camion che transitavano. Nella bella stagione si vedeva ancora qualche calesse, lusso che poteva permettersi qualche agricoltore agiato in possesso di un buon cavallo. Non c'era via vai di macchine, non c'era smog, si respirava aria pulita e anche una bambina poteva immettersi sulla strada con la bicicletta.


panorama di Roncarolo

Avevo allora undici anni e venivo dalle elementari di Caorso, dove avevo frequentato la V classe con il maestro Castani, insegnante preparato, serio, attento ai problemi dei suoi scolari. A lui devo la mia carriera: aveva capito il mio desiderio di diventare maestra, ha convocato mio padre e ha saputo smuovere il preconcetto, che vigeva a quei tempi, di privilegiare i maschi ad intraprendere una carriera professionale mentre le femmine erano principalmente predestinate a mansioni casalinghe. A Roncarolo esistevano solo le prime quattro classi elementari. C’era una bellissima scuola costruita al tempo di Mussolini, con due ampie aule al piano terra con servizi di vecchio stampo, ma sufficienti a quei tempi. Un'ampia scala portava al primo piano adibito agli appartamenti delle due insegnanti. Di queste ho un bellissimo ricordo, soprattutto della signorina Nella Cinti, che era molto buona e ci voleva tanto bene. Era difficile che ci castigasse anche se a volte l’avremmo meritato. Ricordo che una volta nessuno aveva studiato la lezione di geografia. Si è tanto rammaricata e, mentre ci sgridava, le sono scese alcune lacrime. L'altra insegnante, la signorina Emilia Del Prato, entrata nella nostra classe, forse attirata dal tono inusuale di voce delle collega, si è adirata ed ha rimproverato tutti, compreso la signorina Nella per la sua tolleranza e la sua bontà. La signorina Emilia era una brava insegnante, ma più severa, più autoritaria e i bambini di lei avevano soggezione. Una volta però le è toccata grossa. I banchi erano fissi, a due posti, graduati in altezza; negli ultimi c'erano i bambini più grandi, quelli che avevano ripetuto alcune classi. Questi davano ordini e i più piccoli dovevano sottostare ai loro comodi. Ben difficilmente eseguivano i compiti a casa ed in classe prendevano la risoluzione dei problemi dai compagni pili attenti e, se qualcuno non ce la faceva a passare i bigliettini, all'uscita erano guai. Un giorno l'insegnante stava passando tra due file di banchi, per controllare i compiti, quando dagli ultimi posti è uscito uno zoccolone. Allora c’erano i bambini che portavano i "troccoli", ossia scarpe, spesso fatte in casa, con la suola di legno alta e rigida. La maestra è inciampata, è caduta fratturandosi una gamba. Di un’altra volta ricordo la marachella della vite. Era autunno, tempo di vendemmia. La maestra aveva chiesto ad un bambino (era grande e grosso, al limite dell’obbligo scolastico) di portare un pezzo di tralcio con grappolo d’uva e pampini per rendere la lezione più viva ed interessante. Il mattino dopo il bambino tardava ad arrivare. La lezione vera e propria non si può iniziare. La maestra si decide a presentare teoricamente la vite quando si sente un colpo di zoccolo alla porta. "Avanti" dicono tutti, ma nessuno entra, anzi si sente un’altra zoccolata. La maestra si alza, apre la porta e si trova davanti il bambino che trascina non un tralcio, ma addirittura una pianta di vite comprensiva anche di radici. Lo spasso fu unanime: risate sonore, domande ad alta voce, tutti fuori dai banchi per potersi godere meglio lo spettacolo. La maestra, meravigliata ed incredula, fatte alcune domande all’incauto protagonista del fatto, riuscì a stento a fare ordine e riprendere e portare a termine la lezione.

Le scuole.
Era il periodo fascista ed anche Roncarolo doveva sottostare al regime di Mussolini. A scuola le bambine indossavano il grembiule nero col collettino bianco. Il sabato pomeriggio si doveva indossare la divisa di "Figli della Lupa" i più piccoli, o di "Balilla" o di "Piccole Italiane" e si faceva ginnastica, o meglio, si doveva imparare a marciare. Negli anni trenta un angolo del giardino venne abbellito da una pompa per l'acqua, in stile francescano. All'inaugurazione ci fu una bella festa con canti patriottici e poesie alla presenza delle autorità del Comune. Il giardino che abbelliva il frontale della scuola, era spazioso, con aiuole ornate da bellissimi fiori e molte viole e pini maestosi che ospitavano tanti uccelli canori che attiravano spesso l' attenzione degli alunni. A volte una delle insegnati ci portava nel suo soggiorno per ascoltare la radio. Seduti per terra prendevamo posto anche sotto il tavolo: eravamo in tanti perchè le classi miste erano unite a due a due. Noi bambini al lunedì cercavamo di svolgere i lavori in classe in fretta perchè alla più svelta era accordato "l'onore" di lucidare le scarpe alla maestra. Per noi era un premio, di cui andavamo orgogliose, il poter lucidare quelle scarpe cosi morbide, più belle di quelle delle nostre mamme. La signorina Nella ci ha ricordato con tanto amore fino alla fine dei suoi giorni, alla età di centotre anni. Quando ho rintracciato il suo indirizzo (a Terni) ho provato tanta commozione nel sentire la sua voce per telefono. Ci ricordava ancora tutti e con tanto affetto si interessava della nostra vita e voleva sapere di tutti i suoi scolari e delle loro famiglie. Ogni tanto ci sentivamo ed ogni volta mi trasmetteva serenità e mi infondeva coraggio con un filo di voce, ma con una lucidità da fare invidia ai giovani. Poi silenzio! Quando le ultime volte l’ho cercata al telefono e non ho più sentito il suo debole "Pronto" ho provato un tuffo al cuore: se ne era andata serenamente portando con se il ricordo dei suoi scolari. Nella mia mente è viva ancora la figura di quelle insegnanti che si facevano compagnia tra loro perchè non avevano una famiglia propria. Vestivano sempre con abiti dalle tinte tenui, soprattutto di rosa ed azzurro.


banchi e arredi di un’aula

Corredo scolastico.
I testi scolastici erano due: sussidiario e letteratura, ed erano imposti da Roma, naturalmente improntati sul fascismo. Il corredo scolastico era formato da un quaderno a quadretti per l’aritmetica ed uno a righe per dettati, temi, riassunti e grammatica; un album per il disegno, carta assorbente, cannuccia con pennini che si intingevano nel calamaio pieno di inchiostro infisso nell'apposito buco sul banco. Quanti begli scarabocchi su quei poveri quaderni, soprattutto quando si intingeva troppo il pennino o questo si spuntava o non si tamponava bene lo scritto con la carta assorbente! Nell'astuccio, di solito di legno, trovavano posto cannuccia, matita, qualche pastello, una gomma doppia ed alcuni pennini di ricambio. L’edificio scolastico, situato nel centro del paese, dava vita al posto con il chiacchierio e le urla dei bambini che si dilettavano a rincorrersi, a giocare can le biglie, con la fionda e la "sgerla", un legnetto appuntito in entrambe le estremità. Con un bastone si batteva con forza su una punta ed il legnetto partiva a razzo. Vinceva il bambino che riusciva a fargli raggiungere la massima distanza. Il rintocco di una campana annunciava l'inizio delle lezioni. Tutti entravano spingendosi e urlando. In classe, ognuno in piedi al proprio posto assegnato dalla insegnante; dopo aver dato il buongiorno veniva recitata una preghiera, poi iniziavano le lezioni. Quando entrava qualcuno tutti si dovevano alzare, salutare e rimanere in piedi fino a che la maestra dava l'ordine di sedere.

Ricordo della scuola di Roncarolo
“testimonianza di Lisa Marchetta 1978”

Il Po, per quanto mi ricordo, non ha mai cambiato corso ed è sempre rimasto nel suo letto attuale, ma il 18 maggio 1926 straripò: allora gli argini erano molto più piccoli rispetto agli attuali. Io stavo zappando il mais alle Gerre. La mia casa fu distrutta e altre 5 o 6 vicine subirono danni: rimasi solo con il grembiule da lavoro che indossavo ed in famiglia eravamo in cinque. A quei tempi mio fratello, che ora vive a Piacenza, frequentava la quarta elementare. Andai in Comune per chiedere il permesso di poter abitare provvisoriamente nell’edificio della scuola, dato che, a quel tempo, le maestre non abitavano lì, ma viaggiavano; mi risposero che non avrebbero avuto nulla in contrario, se le maestre Emilia Del Prato e Nella Cinti avessero trovato il modo di sistemarmi, e fu così. Andai perciò ad abitare in una stanzetta con Iside Braghè, con la quale sono ancora molto amica. Nella scuola erano ospitate, oltre a noi due, 3 o 4 famiglie che avevano le case danneggiate e rimasero fino a quando riuscirono a rimetterle in buono stato. Noi invece rimanemmo perché don Sidoli, il parroco di allora, ci disse che le maestre sarebbero state contente se fossimo rimaste. Cosi ce ne andammo solo 35 anni dopo, quando venni ad abitare dove sono tuttora. A scuola frequentavano circa 50 ragazzi, che potevano seguire gli studi fino alla quarta elementare; chi voleva proseguire gli studi doveva recarsi a Caorso per frequentare la quinta elementare; questa venne aggiunta a Zerbio negli anni quaranta ed a Roncarolo nel 1950. A quei tempi si faceva il tempo pieno: solo in seguito è stato tolto il doposcuola. Mi ricordo che c'erano tre file di banchi, le aule erano belle e grandi. Ci si trasferì al nuovo edificio delle scuole, da quest’anno chiuse, quando io frequentavo la quarta elementare.

Il paese.
Confinavano con il giardino della scuola due giochi di bocce: divertimento per i giovani e le persone mature. Erano di proprietà dei gestori dell'osteria vicina, dove si potevano trovare, oltre a buoni boccali di vino, anche sale e tabacchi, qualche genere alimentare ed il telefono pubblico. In quell’unica piazza si trovava la botteguccia della "Marianna" cara ai bambini perchè, alla domenica, chi poteva avere la mancetta andava a comperarsi qualche caramella, confettini colorati, frutti.. Qui si trovavano anche quaderni, matite, e pennini.


al Gaton e la Marianna

All’esterno c’erano due panche, occupate, alla domenica, da ragazzi e adulti che si divertivano a stuzzicare le ragazze che passavano. Accanto all'osteria c’era il barbiere che aveva lavoro per se e la moglie: era l’unico in paese, allora abitato da quasi mille persone. Durante la settimana si recava nelle campagne dove c’erano persone anziane impossibilitate a raggiungere il paese. Che dava risalto alla piazza era la villa del "Romano", stupenda costruzione a due piani con scala in marmo, tavernetta, stanze ampie con mobili di pregio, affreschi e quadri, un bel parco, fontana con tartarughine, voliera con tanti uccelli. Era l’orgoglio e l’invidia del paese. Era frequentata soprattutto durante l’estate, da persone di una certa cultura ed agiatezza: amici e parenti dei padroni provenienti da Roma.

La Chiesa.
Proseguendo verso il Po, sulla destra, alta e maestosa si ergeva la chiesa parrocchiale, dedicata a San Lorenzo Martire. La facciata era semplice e lineare.


la chiesa parrocchiale a Roncarolo

Appena si entrava dall' ampio portale, si era colpiti dal grande dipinto posto sulla parete di fronte, sopra l’altare maggiore, dalle forti tinte delle fiamme che, da sotto una graticola di ferro, martirizzavano il povero San Lorenzo dal volto serafico, gli occhi rivolti verso il cielo, solo dal quale poteva ottenere tanto coraggio.Dietro l'altare maggiore vi era il coro in legno, dove trovavano posto i cantori nelle feste solenni, quando la Messa veniva cantata con l'accompagnamento dell’armonium. Una balaustra in marmo separava il presbiterio dallo spazio riservato ai fedeli, più basso di un gradino. Sul lato sinistro c’era la cappella della Madonna del Rosario e, situato sotto la statua della Madre, il simulacro in gesso del Cristo morto, che la sera del Venerdì Santo veniva portato, insieme alla statua della Madonna Addolorata, per le vie del paese fino alla corte dei Sigg. Galli, affittuari di una tenuta delle suore, dove veniva impartita la benedizione ai presenti, estesa a tutti gli abitanti del paese. Poi si ritornava in chiesa e si andava a baciare il "Signore morto". Per l'occasione si illuminavano e addobbavano le case e si faceva a gara per preparare rappresentazioni di angeli che adoravano la Croce, impersonati da bambini, altari con quadri, crocifissi o statuette della Madonna, candele e fiori di carta. Tutta la strada veniva illuminata, in entrambi i lati, da lumini raccolti in bicchieri di carta. La processione era seguita da tante persone che rispondevano alle preghiere e partecipavano ai canti con entusiasmo. Il cortile dove la processione sostava era illuminato a giorno ed aveva sempre un altare abbellito da fiori di carta, ceri e festoni di edera. Era suggestiva questa processione. La Madonna nel suo dolore composto, mostrava lo strazio che aveva dovuto subire a causa dei peccatori che avevano tanto torturato il sua Figliuolo fino a portarlo a morire sulla croce.

Santa Rita.
Ai lati dell'unica navata delIa chiesa si trovavano due nicchie con le statue di Santa Rita e Sant’Agnese, patrona dei pescatori, che veniva festeggiata e portata in processione il 21 gennaio, e, qualche volta, portata in processione sulle barche nel Po.

Sant’Agnese.
Il paese ci teneva molto a fare festa a questa Santa. Per il passaggio della processione venivano ornate le finestre delle case con candide lenzuola o coperte. Era un modo per chiedere protezione soprattutto per chi aveva il suo lavoro sul fiume.


processione per Sant’Agnese sul Po

Il Po.
Fiume nobile e capriccioso, legato alla storia degli uomini e capace di impressionare e far sognare. Fiume di bellezza antica e lontana, amato e temuto da chi gli abita vicino. Il suo carattere, la sua forza, il suo cipiglio dimostrano la possanza del grande fiume, primo d'Italia, che in momenti di riposo rispecchia i boschi di salici e pioppi che si snodano lungo le sue rive. A quei tempi procurava lavori a tanti uomini che, con la pesca e la raccolta della legna e della sabbia, riuscivano a trovare il sostentamento per la loro famiglia. Un camioncino la mattina partiva per la città carico di pescigatto, storioni, alborelle,"stricc", lucci, tinche, carpe, ecc., e tornava sempre vuoto. Di giorno c'erano le reti da riparare e farne di nuove, andare a posizionare le nasse. Lungo le rive del fiume venivano accatastati mucchi di legna raccolta nell'acqua soprattutto quando c'era qualche piena, e allora c’erano anche grosse piante dal legno molto duro che erano rimaste tanto tempo In acqua.

Testimonianza di un pescatore
“Savino Finetti”

"Quando io facevo il pescatore gli strumenti del mestiere erano la barca e le reti. A quei tempi non si conosceva il significato della parola "inquinamento"; l’acqua del Po era limpida. Anche per questo i pesci erano molto più numerosi di oggi, non solo nel Po, ma anche nelle acque del Nure. La pesca la effettuavo di notte, mentre di giorno andavo a vendere il pesce: mi spostavo con la bicicletta. La barca che usavo era in legno, ed io stesso me la sono costruita." Sulla sponda opposta, d’estate, si formava una spiaggia, meta di giovani che andavano con la barca a prendere la tintarella, anche se allora le ragazze non amavano diventare scure, anzi, chi lavorava nei campi si copriva con fazzolettoni e cappelli di paglia a falde molto larghe, e portava maniche lunghe e guanti per conservare il biancore della pelle. Il Po, a volte in giugno diventava una pista per motoscafi che svolgevano gare di velocità per la gioia degli spettatori che affollavano le rive. Si trasformava però in mostro cattivo quando, dopo lunghi e paurosi temporali, le acque spumose si gonfiavano, si espandevano oltre l’arginello che proteggeva le casupole delle famiglie dei pescatori che erano nella zona golenale in Cantaragna. Queste erano molto basse, superavano di poco l'argine maestro, per cui ad ogni minimo aumento del fiume, venivano allagate. Di fronte a queste, oltre la stradicciola che portava al fiume, primeggiava una costruzione abbastanza spaziosa, a due piani normali con annessi portico, stalla, fienile e granaio. Gli abitanti erano dipendenti del sig. Marchesi e coltivavano il terreno adiacente a cereali, prato e piante. Spesso il loro lavoro veniva vanificato dalle acque limacciose ed irruenti che inondavano i campi, lasciando uno stato di limo che rendeva fertile il terreno.

L’inondazione.
Nel Maggio del 1926 vi fu una piena immane: le acque del Po ruppero l'argine maestro, travolsero, come fosse un giocattolo, la casa che si trovava di fronte alla falla e inondarono il paese e le campagne per diversi chilometri. Io ero troppo piccola e sono stata allontanata con mio fratello e portata da una zia. Cresciuta, quando mamma voleva farci stare buoni, ci raccontava l'avvenimento nella sua crudeltà. L’acqua era arrivata a circa tre metri di altezza, lambiva il soffitto del piano terra, mentre le casupole basse intorno erano sommerse. Alcune persone, salite sul tetto delle loro case, si aggrappavano ai comignoli e gridavano aiuto. C’erano persone con barche, con tinozze che andavano a recuperare queste persone, ma c'erano anche tanti sciacalli che andavano a fare razzia di tutto ciò che trovavano: mobili, animali, legna.. Quando era stato dato l'allarme del pericolo, tutti gli uomini, anche papà, erano andati sull'argine ad aiutare i militari intenti a rafforzare e ad ammucchiare sacchetti di sabbia per trattenere le acque. Mamma era rimasta a casa da sola. Non si perse d'animo: portò ogni cosa al piano superiore tranne la stufa perchè troppo pesante. Portò di sopra i pochi animali che aveva ed anche una damigiana di acqua potabile. Papà, quando tornò a casa era distrutto. Pianse nel vedere i macchinari della sua segheria sommersi. Il legname se ne andava con le acque. Uno zio e il nonno erano venuti in aiuto, avevano cercato di imbrigliare con delle corde le cataste delle assi dei tronchi che si trovavano nel cortile, ma fu tutto inutile: la forza dell'acqua disperse un po' dappertutto quel legname e recuperarne almeno una parte fu un'impresa difficile. Il lavoro di un paio d’anni se ne era andato in fumo. La mamma era rimasta sola a vigilare la sua casa, la sua roba. Al pomeriggio alcuni uomini su una barca si erano avvicinati al balcone con intenzioni sospette. Mamma capì e finse di non essere sola e si mise a chiamare papà e nonno. Quelli se ne andarono alla chetichella e non si fecero più vedere. Scendeva la sera, la casa tremava per la forza dell'acqua che aveva invaso tutto il pian terreno. Mamma incominciò ad avere paura e, quando papà, nonno e zio tornarono, non fece resistenza, si calò dalla finestra nel mastello di legno che era servito da barca e si lasciò trasportare al caseggiato sopra la segheria, dove si erano rifugiati donne e bambini perchè sicuri che l'acqua non li avrebbe raggiunti in quanto l'edificio era alto. Quando, dopo qualche giorno, le acque calarono, si videro i disastri. Le case erano invase dal fango e dalla sporcizia; nei campi c'erano carcasse di animali, oggetti di ogni tipo; mobili spezzati, alberi sradicati, pali divelti.. Qui il racconto veniva sospeso perchè noi bambini avevamo il viso rigato di lacrime. Mamma ci abbracciava, ci puliva il visetto e ci rincuorava. Tutto era passato e noi eravamo ancora nella nostra casa che, dopo tante fatiche, era tornata linda ed accogliente. Noi non capivamo il disastro economico che il "Po cattivo" aveva inflitto ai poveri abitanti del paese.


si controllano gli argini dopo l’inondazione del 1926

Un'altra ondata di piena ci fu nel tardo autunno del 1951, ma quella volta non oltrepassò l'argine maestro. Causò danni alle campagne a causa dei fontanoni che si erano formati nei campi adiacenti all’argine. Essi furono tamponati con sacchi di sabbia dai militari, e soprattutto dagli uomini del posto che sorvegliavano giorno e notte le loro terre dopo aver messo in salvo le masserizie ai piani superiori ed accompagnato gli animali nei paesi vicini, scortati da carri di fieno per il loro sostentamento. Lungo le strade era una processione di animali che muggivano, latravano, belavano. Sembrava si rendessero conto del pericolo. Era uno strazio sentirli. I contadini inzaccherati di fango, quasi irriconoscibili per la paura e la stanchezza, andavano pungolando ed incitando le loro bestie. Quasi tutte le case quella volta si erano svuotate, le persone erano state portate al sicuro. Qualcuno però non ha voluto lasciare la sua casa, le sue cose per paura dello sciacallaggio: preferiva perire insieme alla sua dimora. Alcuni si sono muniti di una barca, legata alla porta spalancata, pronta in caso di emergenza. Altre volte le acque del Po si sono gonfiate inondando le zone golenali. Specialmente di notte il rumore delle acque impetuose faceva paura, ma chi abitava vicino al fiume, nonostante tutto, difficilmente abbandonava la sua terra: c'era quasi un legame affettivo tra il Po e gli abitanti del posto. Solo gli abitanti delle casupole in Cantaragna, oltre l'argine, abbandonarono le loro abitazioni definitivamente e queste col tempo crollarono.

Il teatrino.
L’argine maestro era meta di biciclettate di giovani e di scorribande di bambini che si divertivano a scalarlo, a giocare a nascondino approfittando del caseggiato del bar con negozio vicino, che aveva ripostigli sul retro per la merce necessaria alla vendita. Era piccolo il bar e piccolo il negozio, situati sulla piazzetta della chiesa, dove si poteva trovare un po' di tutto. Accanto a questo caseggiato si ergeva il salone-teatro costruito negli anni trenta con il contributo dei parrocchiani. C’era chi prestava gratuitamente la sua opera dopo il lavoro, chi si adattava a fare il muratore, chi il manovale, chi il falegname, chi prestava carri e cavalli per il trasporto dei materiali. Venne dotato di panche, di palcoscenico, di luci, di sipario e di fondali di volta in volta che veniva allestito uno spettacolo. Erano i giovani e le ragazze del posto che, aiutati dal parroco e dalle sue sorelle, preparavano spettacoli. Nei primi momenti erano farse e recite per soli uomini o per sole donne. Don Francesco Chiesa iniziò ad allestire spettacoli con attori misti. Egli stesso assisteva alle prove, faceva da regista e suggeritore. Si era formato un buon gruppo di attori e di attrici che si impegnavano a fare le prove di sera dopo una giornata di lavoro. C’era entusiasmo, era un modo sano ed allegro per stare in compagnia, per divertirsi anche se costava fatica studiare a memoria la parte. Di solito veniva preparato lo spettacolo in occasione delle festività di Sant’Agnese, San Lorenzo, Natale o Pasqua. Seguivano poi le repliche anche fuori paese, così il divertimento continuava. Il ricavato andava a coprire le spese sostenute di volta in volta.


gara dei "mangioni"

Sotto la torre.
Una caratteristica di Roncarolo era la campana dedicata a San Lorenzo chiamata "San Lorenzo Spaccatempo" perchè, se veniva suonata quando un temporale minacciava tempeste, strano ma vero, il paese veniva risparmiato dalla grandine. All’ombra della torre, piuttosto massiccia, con tre campane e l’orologio che batteva le ore, oltre alla canonica c’era la casa del sacrista campanaro e la casa con la stalla, fienile e rustici per la famiglia che coltivava il terreno annesso alla chiesa, fonte di sostentamento per il parroco che veniva arrotondato dalle offerte di prodotti agricoli dei contadini. Per il mantenimento delle spese inerenti la chiesa, parecchie famiglie, un anno, hanno pensato di offrire le uova che le galline facevano alla domenica. Parecchi furono i parroci che si sono succeduti nelle Parrocchia. Io ricordo don Eugenio Sidoli, don Francesco Arfini, don Serafino Dalla Valle, don Francesco Chiesa, don Rino Faccioli, don Giuseppe Bavagnoli, don Giulio Montenet.


don Serafino DallaValle con i giovani

Ho un particolare ricordo di Don Francesco Chiesa. Era un tipo solare, molto disponibile verso le persona bisognose per le quali aveva svuotato i cassetti della sua mamma che viveva con lui, per soccorrere persone malate alle quali portava indumenti intimi, quali camicie da notte, maglie, calze.. Sapeva conquistarsi la simpatia degli uomini con i quali gareggiava, alla domenica, nel gioco delle bocce tra una funzione e l'altra. Quando sentiva il rintocco delle campane che annunciavano il richiamo della funzione, sospendeva il gioco, cercava di togliere la polvere dalla tonaca ed incitava i presenti a seguirlo: avrebbe continuato e portato a termine la partita dopo la Messa. Al pomeriggio tratteneva i bambini per lo studio del catechismo, continuava con il catechismo per gli adulti, il vespro cantata per poi intrattenere i bambini ed i giovani per i quali apriva la canonica e il salone per i vari giochi. Durante il periodo di guerra aveva riunito il gruppo di ragazze che, al pomeriggio della domenica, si dedicavano a lavorare ai ferri, a cucire per aiutare una famiglia numerosa, con bimbi piccoli, rimasta priva del padre richiamato alle armi. Erano poverissimi, non avevano sufficienti indumenti e letti, e i più piccoli dormivano nel “navaseul”, il mastello che serviva per il bucato. Chi ha avuto il compito di portare gli indumenti confezionati con tanta pazienza è rimasto veramente scioccato nel vedere tanta miseria ad ha potuto meditare e capire quanto bene si può fare anche con poche cose per alleviare le sofferenze altrui. Quella domenica nevicava e tutto era coperto da circa quaranta centimetri di neve. Ci si perdeva tra tanto candore: erano spariti i sentieri, le strade, e fu gioco di forza per quelle ragazze attraversare i campi per riuscire ad arrivare a casa prima del buio. A quei tempi il freddo d'inverno era intenso: la galaverna cambiava l’aspetto della natura: le piante diventavano come alberi di Natale con i rami ingrossati e bianchi, che luccicavano ad ogni sprazzo di sole. Alle grondaie si formavano lunghi e grossi ghiaccioli a mò si stalattiti e noi bambini cercavamo di carpirli per sgranocchiare il ghiaccio, incuranti dei germi che potevano contenere, come la neve che trasformavamo in granita aggiungendo un pò di zucchero, qualche goccia di limone o qualche cucchiaiata di vin cotto preparato in casa durante la pigiatura dell’uva. Questa veniva fatta con i piedi in grossi tini tra canti e risate da parte degli uomini, donne e bambini che trasformavano il lavoro in festa. Il primo mosto che usciva veniva prelevato per fare il vin cotto, ottenuto facendo bollire tanto liquido fino a farlo diventare denso, oppure si preparava il “sugo”, un specie di budino fatto con mosto a farina bianca. Il freddo predominava anche nell'interno delle case perchè l'unico riscaldamento era dato dal camino o dalla stufa a legna che serviva per la cottura dei cibi. Le camere da letto erano gelide, tanto che sui vetri delle finestre si formavano dei bellissimi ricami di ghiaccio somiglianti a tendine di pizzo. In parecchie casupole, al primo piano, non c'era il soffitto in muratura, c’erano le “arelle” o solo le tegole del tetto, per cui, quando soffiava, il vento entrava all’interno. Un’asse chiudeva la botola che immetteva sulla scala ripida di legno che partiva dalla cucina soggiorno. Appena possibile, alla sera, si riscaldavano i letti con braci coperte di cenere messa negli scaldaletti e questi nei trabiccoli, detti “pret”, che sostenevano le lenzuola. I materassi in lana spesso erano sostituiti da sacconi di piume, e di piume erano anche i cuscinoni che tenevano caldi i piedi. Chi aveva possibilità arredava le stanze da letto con mobili intarsiati, testate dei letti molto alte, armadi non eccessivamente ampi, perchè gli abiti non abbondavano. I cassettoni contenevano la dote (quando c’era) della sposa, con lenzuola bianche di cotone, magari tessute artigianalmente. Queste venivano lavate in un bucato annuale che esigeva aiuti in quanto, dopo aver messo in ammollo la biancheria con la lisciva, fatta con la cenere bollita nell’acqua e poi filtrata con una tela, le lenzuola attanagliate ai due bordi opposti, venivano battute e ribattute su un'asse appoggiata ad un mastello lungo e stretto e bisognava essere in due. I bambini davano una mano pompando l’acqua e alimentando il fuoco sotto il pentolone. Il bucato durava qualche giorno, poi veniva steso nei cortili o lungo il margine delle strade vicine o lungo le capezzagne dei campi. I bambini facevano la guardia pronti ad intervenire se qualche capo cadeva a terra. Dopo tanto lavoro c’era soddisfazione a vedere tanto candore dondolarsi nel vento e sentire il profumo di vero pulito.


il bucato steso all’aperto

Le massaie cominciavano presto a scegliere la cenere giusta, ben cotta, poi la insaccavano per il prossimo bucato. Gli indumenti che dovevano essere lavati settimanalmente invece venivano insaponati per bene, lasciati riposare magari una notte in acqua e lisciva chimica e poi sfregati con spazzole di setole e forza di braccia. La stiratura veniva fatta con ferri pieni di braci oppure con ferrette scaldate direttamente sulla piastra della stufa. Quando con l’uso i vestiti, i pantaloni e le camicie si logoravano, venivano riparati, magari la domenica, con toppe su toppe.

La vendemmia.
Fazzoletto in testa, forbici in mano, cesto al braccio, la fila dei vendemmiatori si inoltrava sotto i filari di viti da cui pendevano turgidi i grappoli d’uva. Era una festa. Soprattutto donne e bambini, tra grida e canti, racconti di fatti ed avventure, staccavano i grappoli e li deponevano nei cesti. Gli uomini erano addetti in particolare alla raccolta dei cesti pieni ed a versarli nella tinozza che attendeva di venire colmata, sul carro trainato da buoi miti e pazienti. Il lavoro durava qualche giorno fino a che tutti i filari erano spogli. Sotto di essi si formava un tappeto variopinto di pampini che, nella foga del lavoro, venivano staccati dai tralci. Spesso gli acini migliori finivano nella bocca di ognuno che gustava con avidità la polpa succosa. Con il viso invischiato, i vestiti sporchi, le mani appiccicose e luride, i vendemmiatori sospendevano il lavoro per riprenderlo il giorno dopo ed il giorno dopo ancora fino ad esaurimento dei grappoli. Seguiva la pigiatura calpestando i grappoli a piedi nudi e a ritmo quasi di marcia. Il mosto veniva versato nei tini dove fermentava per qualche giorno fino a che la parte zuccherina si trasformava in alcool: il vino era pronto. Il contadino attento ed esperto sapeva quando travasare il vino nelle botti in cantina e quando poteva spillarlo, imbottigliarlo o metterlo nelle damigiane. Nelle cantine fresche e buie si allineavano le damigiane sui banconi e le bottiglie sugli scaffali.

Lavori.
Durante la settimana anche le donne erano impegnate ad aiutare i mariti nelle stalle o nei campi a zappare il frumento per togliere le erbacce, il granoturco per rincalzarlo, poi era necessario cimarlo, togliere alcune foglie, ma soprattutto c’erano da raccogliere le pannocchie. Di sera poi, nelle aie, si riunivano uomini, donne e bambini attorno al mucchio di pannocchie raccolte e, tra barzellette, canti ed urla di bimbi, avveniva la scartocciatura. Si allineavano cestoni di tanto ben di Dio che sembrava oro pronto per la sgranatura. I cartocci venivano usati come mangime per il bestiame ed anche come imbottitura di materassi per i letti più poveri. I tutoli erano materiale per le stufe. Durante i lavori le mamme portavano con se i bambini, quando non c'erano nonne in grado di assisterli: a Roncarolo c’erano solo le quattro classi elementari, ne’ un asilo, ne’ un doposcuola fino al termine della guerra del 1940-45. Se i bambini erano un pò grandicelli, o aiutavano i genitori o giocavano sulla strada. A dodici anni alcuni maschietti erano occupati presso agricoltori come famigli. Nei casolari delle campagne si allevavano i bachi da seta: "i semi" (le uova) piccolissimi, acquistati a piccole once, venivano adagiati su arelle ricoperte di carta e foglie di gelso tagliate finemente, rinnovate ogni giorno. I bambini e le donne andavano a sfogliare i rami dei gelsi aumentando ogni giorno la quantità perchè quelle bestiole quasi invisibili alla nascita, mangiavano in continuazione e crescevano a vista d'occhio. Dopo aver mutato la pelle per ben quattro volte, si racchiudevano nel bozzolo che essi stessi si costruivano attorno al corpo con un filo di seta che emettevano dalla bocca. In quell’involucro avveniva la trasformazione da crisalide in farfalla che, uscita dal bozzolo, deponeva le uova e poi moriva. I bozzoli selezionati venivano portati alle filande. Con il tramonto di queste industrie i gelsi non servirono più e quasi scomparvero. Industrie in paese non ce n' erano. C’era solo una segheria che era per la maggior parte a conduzione familiare, un fabbro ferraio che riparava attrezzi di campagna e ferrava i cavalli, che necessitavano di un riparo in ferro agli zoccoli per poter camminare sulle strade. Alcune ragazze avevano trovato lavoro in una piccola industria di bottoni a San Nazzaro, ma questa poi fallì e si dovettero adattare ad andare in città a fare le cameriere. Molto più tardi venne costruito un laboratorio di articoli di arredamento: fiocchi, bordure, frange, cordoni, ecc.; così una decina di donne e qualche uomo trovarono lavoro in paese.


passamantiere Luigi Consolini al lavoro

Utensili.
I piccoli proprietari, prima dell'avvento del trattore, usavano i buoi per l'aratura, la preparazione e la semina dei campi; il cavallo per il traino dei carri e dei carretti, l'aratro, l'erpice, la vanga, il badile, la zappa, il tridente, il rastrello, il voltafieno, la falce messoia per il taglio del grano, la falce fienaia per tagliare l'erba, qualche falciatrice a trazione animale e, per la trebbiatura del grano, si spostava da Caorso nelle corti di campagna la trebbiatrice, che, con il suo rombo sordo, riempiva le giornate afose dell'estate e la polvere, vomitata dalla macchina, faceva bianco il cortile e penetrava sotto i vestiti fin dentro la pelle. La trebbiatura necessitava di parecchia manodopera, in quanto i covoni di grano, ammassati nelle barchesse o nei fienili venivano gettati sulle piattaforme, slegati, calati nella tramoggia che divideva il grano dalla paglia; i chicchi raccolti da piccole scodelle, passavano attraverso i ventilatori che toglievano la "pula"; il grano pulito usciva da un fianco della macchina e raccolto nei sacchi di iuta. In un’altra parte c’era la pressa dove la paglia veniva imballata per essere poi stoccata sui fienili o nelle barchesse. I contadini si davano una mano ed alla fine del lavoro festeggiavano nel cortile con polenta, salame, vino e canti.

La gente.
La gente si integrava in un mondo aperto su un panorama di credenze, pregiudizi, usanze irrinunciabili nel momento del lavoro e della festa. L’uomo si affidava ai proverbi, ai Santi, alleati anche del loro bestiame, che aveva grande importanza nell' economia familiare. Ogni stalla aveva l'immagine di Sant’Antonio Abate ed ogni anno veniva benedetta. I fenomeni atmosferici apparivano espressione diretta di una volontà superiore, divina.
"Sa piova par Santa Bibiana (due dicembre) acqua par quaranta de e 'na smana" "Se la sira al sul al sa volta indrè a ghe l' acqua ataca i pe". Il dottore veniva chiamato quando la malattia si riteneva grave. Per i piccoli malanni si ricorreva agli interventi magico terapeuti di medicone e segnone o alle malie di streghe capaci di dare o togliere il malocchio. Per i mali più leggeri la conoscenza delle erbe salutari bastava per curarsi direttamente in famiglia: l'aglio scacciava i vermi, la salvia curava le gengive, la malva toglieva le infiammazioni, la gramigna, il tarassaco, le radici amare dei radicchi disintossicavano il sangue, il limone era un ottimo digestivo, ecc. Per evitare influenze negative era indispensabile seguire alla lettera la precettistica tradizionale. Per esempio: la donna gravida non doveva scavalcare corde tese, passare sotto il timone dei carri, mettersi collane perchè c’era il pericolo che il figlio nascesse con il cordone ombelicale accollato. Dopo il parto, per quaranta giorni, doveva uscire con il fazzoletto in testa. I contadini osservavano riti propiziatori per avere fertili i campi e buoni raccolti. A primavera nei campi venivano poste semplici croci in legno durante lo svolgersi delle "Rogazioni", ossia benedizioni ed invocazioni da parte del Sacerdote che, con il seguito di fedeli, si inoltrava tra i campi, per tre mattine, esorcizzando disgrazie e calamità naturali con le formule sacrali: "A fulgore et tempesta libera nos, Domine" "A peste, fame et bello libera nos, Domine" "Ut fructus terrae dare et conservare digneris, te rogamus, audi nos, Domine". Le donne in Chiesa e durante le processioni, portavano un velo in testa per rispetto alle funzioni.


processione a Roncarolo

Tempo libero.
I giovanotti e gli uomini, alla sera ed alla domenica si trovavano a giocare a carte o alla morra nel bar o nelle osterie. Queste erano due. Oltre a quella in piazza ce n'era un'altra a circa 150 metri verso la fine del paese. Anche questa oltre il vino vendeva generi alimentari. Adiacente c’era "il Dopolavoro", un saloncino adibito a sala da ballo. Bastava una fisarmonica per intrattenere a volte i giovani alla domenica pomeriggio ed alla sera fino a mezzanotte l’una a ballare il liscio (valzer, tango, foxtrot ecc.). Una volta all'anno, per San Lorenzo veniva allestita la balera (un assito di forma circolare limitato da un parapetto, a cui si appoggiavano panche per la sosta dei ballerini e degli spettatori). A lato c'era il palco dei suonatori. Il tutto era ricoperto e riparato dai tendoni, nello spiazzo davanti a questa osteria o un pò più avanti. Nelle cascine si usava fare il "filos", davanti ad una casa quando la stagione lo permetteva, oppure in qualche cucina dove gli uomini facevano una partitella a carte e le donne lavoravano ai ferri o rammendavano e si riportavano le notizie captate durante il giorno. Durante le serate invernali i padroni di casa, se appena era possibile, offrivano agli ospiti noci o peperoni sott’aceto preparati in casa e qualche fetta di pane casereccio.

Il pane.
La panificazione era un’operazione delicata che richiedeva tempo e maestria. Cominciava con la preparazione del lievito ricavato dalla panificazione precedente, raccolto in una piccola scodella e ricoperto di farina e da un tovagliolo. Il mattino successivo, questo veniva impastato con farina bianca, acqua ed un poco di sale. Il pastone ben lavorato veniva diviso in tante parti, ognuna delle quali prendeva forma, di solito, di pani grossi: Le "micche". Dopo una buona lievitazione, quando il forno a legna era giustamente caldo e pulito dalla cenere, i pani ben gonfi venivano infornati. A cottura ultimata venivano avvolti in teli e sistemati nella paniera dove resistevano morbidi e fragranti anche otto giorni. Quando la massaia cuoceva il pane, si spandeva un profumo invitante ed i bambini elemosinavano un pezzetto di questo ben di Dio e lo gustavano con avidità incuranti del calore che scottava le mani. A sera sostituiva il pane a cena una bella polenta di farina di granoturco, rimestata senza interruzione per tre quarti d'ora e anche più, nel paiolo di rame. Sul tagliere, dove veniva ribaltata, sembrava una bella luna piena avvolta in un vapore caldo. Il companatico era di solito precario per chi non pescava, non cacciava o non poteva allevare animali da cortile o maiali. C’era invece tanta verdura e frutta un pò ovunque. Si andava a raccogliere radici, radichetti, rosolacci nei campi.

Il territorio.
Il paese era ubicato per la maggior parte nelle campagne. C’era la borgata delle Case Nuove, i caseggiati "La Sedazzara", i "Sanguinelli", la "Graffignana", la "Cantaragna", la "Ca’ di Ladar"; casolari sparsi: "Le Gerre", la "Dotta" , la" Busa" , la "Valle" , " i Ronchi", il "Mezzanone", la "Casa Rossa" , il "Porto", la cascina "Gerolo" ed il "Palazzo" abitato dai Sigg. Marchesi, proprietari di una vasta tenuta con boschi, soprattutto pioppeti, campi coltivati a cereali e prati che occupavano parecchie famiglie.
Oltre al bellissimo palazzo a due piani più il granaio, attorniavano l'ampio cortile le case dei dipendenti, le stalle, i fienili, i capannoni per gli attrezzi, i motori ed i carri. C’era pure una cappella, a sinistra dell' entrata, piccola ma suggestiva. Oltre ai dipendenti diretti vi trovavano lavoro famiglie di mezzadri e fittavoli. Al confine del paese la strada sull'argine del Po portava ad un'altra grossa tenuta: la "Baracca". In mezzo a pioppeti vasti e ben tenuti c'era un bel palazzo ed alcune casette abitate da famiglie, dipendenti dai padroni della tenuta. Qui si forma il gruppo dei Partigiani.

La guerra.
Era il 10 Giugno 1940. Un altoparlante ci invitava a raccoglierci sul sagrato della Chiesa e là ci trasmisero, via radio, il discorso del Duce che dichiarava guerra a Francia, Inghilterra e Russia, a fianco della Germania di Hitler. Dal balcone di Palazzo Venezia a Roma iniziò il suo discorso: "Combattenti di terra, di mare e dell'aria, camicie nere, uomini d'Italia, dell'Impero, ascoltate! L'ora segnata dal destino batte nel cielo delIa nostra Patria! Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!.." Cosi iniziava il periodo bruttissimo della guerra, che fu anche per Roncarolo portatrice di lutti e di dolori. Sempre più si cominciò a sentire gli effetti attraverso il dolore delle famiglie che avevano i loro cari richiamati al fronte. Iniziò il periodo della “Tessera” per gli alimenti. Si poteva acquistare un quantitativo minimo di pane nero, di pasta, di latte insufficiente per una nutrizione decente (mancavano sale e olio). Bisognava ricorrere a stratagemmi per poter acquistare al mercato nero qualche alimento. In principio sembrava dovesse durare poco il conflitto che si svolgeva sui fronti di Francia, Albania, Africa, ma non fu così. Si trepidava e si ascoltava la radio con il cuore sospeso. Di notte ci faceva tremare “Pippo” l’aereo che dall'alto sorvegliava anche il nostro paese e ci chiedevamo il perchè. Noi non sapevamo che alla baracca si fosse formato un gruppo di Partigiani: erano ragazzi soprattutto dell’oltre Po che dovevano nascondersi, essendo disertori, renitenti, contrari alla politica del Duce e di Hitler: non volevano arruolarsi nelle Camicie Nere. In paese erano sfollate delle signorine di città e un capitano con la sua famiglia. Noi li ritenevamo tipi sospetti: facevano troppe domande e troppi viaggi in città. L’otto Settembre 1943 fu comunicata la firma dell’armistizio da parte del maresciallo Badoglio. Ci eravamo illusi che la guerra fosse finita, invece cominciava il periodo più brutto anche per Roncarolo. I nostri soldati fuggirono dalle caserme, scambiarono i vestiti con abiti civili e, in qualche modo, tanti raggiunsero le loro case e si nascosero per poi unirsi ai partigiani in montagna. Purtroppo tanti non ci riuscirono e furono deportati in Germania come prigionieri. Incominciarono pure a Roncarolo i rastrellamenti, le perquisizioni e le deportazioni. Un giorno, dopo questo otto Settembre, autoblindo setacciarono, sparando, le campagne, catturarono i pochi uomini che trovarono, li accompagnarono in piazza, li caricarono su camion per portarli poi in città ed inviarli in Germania, nei campi di concentramento, stipati su vagoni merci.


lapide in memoria dei Partigiani della "Baracca"

Un’autoblinda andò alla Baracca per catturare il gruppo dei partigiani. Per fortuna una ragazza del paese la Ida sapeva di questo gruppo e, appena, a Caorso, seppe del rastrellamento programmato per la Baracca, con la bicicletta raggiunse il posto, fece fuggire quei ragazzi con le barche pronte nel Po. Rimasero due ragazzi: uno si nascose sul fienile, l’altro Ida lo intrappolò tra le fascine di una catasta di legna. I Repubblichini e le SS cominciarono a sparare, a spaventare le donne che stavano lavorando nei campi vicini minacciando tutti di morte se non avessero collaborato a trovare i Partigiani. Quelle povere donne non sapevano nulla, erano terrorizzate. Esasperati, i militari cominciarono ad incendiare i fienili e la legna. Il ragazzo che si era nascosto lassù, uscì allo scoperto con le braccia alzate gridando: Sono dei vostri, non sparate! Era vestito di nero come loro, ma una raffica di mitra lo colse in pieno. Poi si avvicinarono alla casa di due poveri vecchi, i Fittavolini, che facevano compagnia al loro giovane ragazzo malato, steso sul divano, coperto con un vecchio panno grigioverde. Le SS cominciarono a gridare: Il Partigiano! Il Partigiano!, Lo fecero uscire nel cortile e, davanti ai suoi genitori che imploravano, piangendo, la vita per il loro figliolo che non c’entrava per niente, gli spararono a sangue freddo. Intanto l'incendio divampava. Non trovando altro in quell’abitato, un gruppo di militari si portò nei pioppeti lungo l'argine del Po, verso le proprietà del Signor Marchesi. Qui il sig. Fulco stava controllando le sue piante, quando fu preso e deportato anche lui in un campo di concentramento in Germania dove venne poi finito nelle camere a gas. Appena i Repubblichini si furono allontanati, Ida, preoccupata per il ragazzo nascosto tra le fascine, si avvicinò alla catasta di legna che per fortuna faceva tanto fumo, ma non ardeva perchè ancora verde, tolse la fascina che chiudeva l'anfratto dove c’era il ragazzo e lo liberò. Questo, mezzo asfissiato andò a nascondersi tra i cespugli presso il Po in attesa del buio per poter tornare a casa. In paese c'era tanta paura, non si sapeva ciò che succedeva alla Baracca, si sentivano spari, si parlava di rastrellamento, di incendio, ma quanto era successo di preciso si seppe più tardi quando il camion, carico di uomini che avevano prelevato dai campi e dalle case, scortato dalle autoblinde, partì per la città. Le donne, in preda al panico, cercavano di avere notizie dei loro uomini e solo allora si seppe dell’esistenza dei Partigiani alla Baracca. Quando ci fu un po di calma, uno spettacolo orrendo si presentò ai nostri occhi: due o tre uomini trainavano un carrettino a mano su cui era adagiato il corpo del povero Giulio Fittavolini spoglio, con i piedi nudi a penzoloni, trattato peggio di un cane, colpevole solo di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Gli avevano negato la sepoltura da cristiano solo perchè riparato da una vecchia coperta militare, residuo della prima guerra mondiale. Quel misero corpo non doveva nemmeno ricevere l’ultima benedizione che ricevono tutti i cristiani morti prima della sepoltura. Don Francesco questo non lo permise: pregò e gli impartì la benedizione di nascosto. La cosa non passò inosservata da chi era venuto a Roncarolo come sfollato, ma con compiti ben precisi: fare la spia. Una domenica mattina poco tempo dopo lo svolgersi di questi fatti, durante la prima messa, tre o quattro uomini dal fondo della Chiesa si avviarono a passi lesti verso la torre della campanaria. In un primo momento si pensava fossero alcuni uomini catturati durante il rastrellamento, che erano stati liberati. Ben presto ci accorgemmo che le cose non stavano così: il sagrestano si avvicinò all’altare e disse al parroco qualcosa sottovoce. Era il momento della Comunione; Don Francesco si volse ai presenti e disse: Non abbiate paura, cercano me. Alcune donne uscirono dalla Chiesa alla chetichella e si trovarono di fronte diversi militari che avevano le mitragliatrici puntate verso la Chiesa. Finita la Messa tutti uscirono terrorizzati e ci avviammo verso casa. Lungo il tragitto ci sorpassò un’automobile sulla quale c’era Don Francesco, in mezzo a due sbirri, che ci ha salutato con un segno di croce. Lo portarono in prigione a Piacenza dove fu trattenuto per diverso tempo fino a che servì per fare scambio con un capitano tedesco catturato dai Partigiani. Riuscì a tornare a Roncarolo, a racimolare qualche indumento, ma la sera stessa, salutati alcuni parrocchiani dei quali poteva fidarsi, in bicicletta, partì per la montagna dove svolse la missione di cappellano per i Partigiani. Era l'unico modo per sottrarsi ad una nuova cattura. I parrocchiani evitavano, quando andavano in città, di dire che erano di Roncarolo perchè erano considerati tutti Partigiani, gente che lavorava con il fucile accanto. Intanto "Pippo" continuava le sue visite ogni notte e lanciava bengala sui luoghi sospetti: queste luci rischiaravano a giorno vaste zone alla ricerca di movimenti sospetti. Le case erano tutte oscurate, le finestre venivano coperte con carta blu, non doveva filtrare un filo di luce, "Pippo" avrebbe lanciato le bombe. Si era diventati sospettosi uno dell’altro: di sera si usciva a controllare se qualcuno dimenticava di chiudere bene porte e finestre: c’era tanta paura. Qualcuno aveva costruito nell’orto un rifugio sottoterra per difendersi dalle incursioni aeree che bombardavano la città, i ponti, le fabbriche, i treni, mezzi di trasporto. Un giorno, due camion, carichi di damigiane di acido si erano fermati all’osteria in fondo al paese. I camion erano coperti da un telone e tra le damigiane avevano perso posto diverse persone che cercavano di tornare a casa: erano uomini in fuga, ragazze che tentavano di portare a casa il gruzzoletto che avevano racimolato lavorando come cameriere in città. Erano felici, avevano mangiato qualcosa, bevuto ed anche cantato. Nel primo pomeriggio sono ripartiti salutando le poche persone che si trovavano sulla strada. Dopo qualche minuto, appena oltrepassato il cimitero, due aerei scesero in picchiata e cominciarono a mitragliare i camion a più riprese. Chi riuscì a scendere tentò inutilmente di ripararsi nei fossi, chi era tra le damigiane non ebbe scampo: o vennero colpiti dai proiettili o inzuppati di acido. Quando gli aerei se ne furono andati accorremmo noi che li avevamo visti partire e gli abitanti dei dintorni. La scena era raccapricciante: morti, feriti gravi, sangue dappertutto, odore asfissiante di acido che ustionava quei poveri corpi. In poco tempo i feriti furono portati all’osteria, adagiati sui tavoli; c’era chi con tanto coraggio, si trasformò in infermiere e cerco di prestare le prime cure ai feriti, latte, acqua. Finalmente arrivarono ambulanze da Piacenza che trasportarono tutti in ospedale.

Momenti terribili.
I pochi ragazzi rimasti in paese si erano nascosti nel posti più impensati, perfino sotto ad una concimaia, ma era sempre più pericoloso restare in paese a causa delle spie che circolavano e i rastrellamenti che si susseguivano. Decisero di andare in montagna tra i Partigiani. Per un periodo le cose andarono benino, anche se avevano il compito pericoloso di sabotare i treni ed i camion che trasportavano munizioni e rifornimenti ai tedeschi. Il peggio venne quando i Tedeschi e i Mongoli iniziarono i rastrellamenti anche in montagna. Era la fine del dicembre 1944 quando, a corto di munizioni e vettovagliamento, i capi radunarono i loro uomini, presentarono la grave situazione e consigliarono di cercare di fuggire. A gruppetti lasciarono la montagna. Coperti di teli bianchi, viaggiando di notte nei fossi, cercando di evitare i caseggiati, lentamente alcuni riuscirono a raggiungere le loro case. Tanti ci rimisero la vita perchè sorpresi da Tedeschi e Repubblichini. Chi è riuscito a bussare alla porta di casa sua era sfinito, affamato, i piedi erano talmente gonfi che per togliere gli scarponi, alcuni dovettero tagliarli. Tosse, raffreddore, fame, sporcizia, questo portarono a casa quei ragazzi e maggiore paura di prima, segregati più che mai. E venne l’Aprile 1945. Gli americani, sbarcati in Sicilia, erano giunti nei pressi di Bologna. I capi Partigiani si erano tenuti in collegamento con gli affiliati, e li spronavano a tenersi pronti per quando sarebbe giunto il momento di riunirsi per il colpo finale. E questo arrivò, verso il 20 del mese. Giunse l’ordine di portarsi tutti a Caorso. Quella notte fu l'inferno. Si sentivano i colpi dei carri armati, la fucileria e i nostri ragazzi erano là. Poi dalla riva del Po cominciarono scoppi di bombe, di proiettili che arrivavano fino in fondo al paese, non si capiva più nulla. Da dietro le imposte chiuse si cercava di capire cosa succedeva e si pregava e si piangeva. Un carro armato arrivò fino alla corte del Sig. Galli e andò a fermarsi nel campo di fronte. Poi, sulla strada, si udirono passi veloci: erano militari Tedeschi che andavano verso il Po. Finalmente venne mattina, si fermarono gli scoppi, ci fu silenzio, ma gli animi erano ancora in subbuglio. Che ne era dei nostri ragazzi impegnati a Caorso? Da che cosa era dipeso quel mitragliamento verso il Po? Ci premeva soprattutto sapere come stavano i nostri figliuoli. E allora via in bicicletta a Caorso! Al posto di blocco, in principio al paese, ci rassicurarono che non c'era stato nessun ferito tra i nostri. Andate ad avvisare le famiglie ci fu detto. La gioia ci fece percorrere la strada del ritorno con un passo da velocisti. Furono suonate le campane, issato il Tricolore presso la croce sul fronte della Chiesa. Ci si riunì sul sagrato per raccontarci quanto ci aveva spaventato quella notte, per poter fare un quadro degli avvenimenti. Così si è saputo che diversi Tedeschi erano entrati nelle case delle campagne per impossessarsi di tavoli, di assi e con essi poter attraversare il Po. Era il momento di tentare la fuga verso il proprio Paese. Ormai non c’era più scampo: Hitler aveva fallito, non avevano più il dovere di resistere, di essere ligi agli ordini ricevuti. Presso il Po avevano lasciato due autoblinde cariche di munizioni che avevano fatto esplodere, causando l'inferno che ci aveva tanto spaventato nella notte. Eravamo stanchi, stremati, trepidanti in attesa del ritorno dei ragazzi da Caorso. Ci hanno detto che sarebbero arrivati insieme agli Americani. Abbiamo racimolato delle peonie bianche e rosse e formato un bel mazzo tricolore che abbiamo offerto ai “liberatori” che, giunti da Caorso insieme ai partigiani, ci sorridevano e rispondevano ai nostri applausi dall’alto di un carro armato. Peccato che tra di essi abbiamo notato uomini estranei ai fatti che all’ultimo minuto si sono uniti alla mischia cingendosi un fazzoletto rosso al collo. Si era talmente felici in quel momento che nessuno ha osato recriminare. Quanti abbracci, quante grida! Era finita finalmente! Ma c'era ancora astio negli animi. Passati i primi giorni di entusiasmo ognuno poi faceva il bilancio dei danni morali e materiali subiti, e tanti volevano vendicarsi. In città che uno dicesse: Quello è un fascista¬! che tutti cercavano di sfogare la propria rabbia sul malcapitato. Magari c’entrava per niente col fascismo: forse erano vendette per disaccordi personali. Per fortuna subentrarono denuncie e progetti regolari che ristabilirono l'ordine. Era il momento di rimboccarsi le maniche per mettere in sesto quanto era stato demolito: ponti, strade, ferrovie, fabbriche, case, campi. Roncarolo non aveva subito disastri da bombe, ma aveva bisogno di lavoro per rimediare alle necessità familiari. Tornarono i soldati dal fronte, dalla prigionia. Solo alcuni dispersi e il sig. Fulco Marchesi non tornarono. Del sig. Marchesi portarono un'urna con un pò di terra di Mauthausen che rimane a ricordo nel cimitero del paese. Mancando il padrone della grande tenuta del Palazzo cominciarono a mancare posti di lavoro fino ad arrivare ad abbandonare anche le case che facevano parte della proprietà: la Valle, i Ronchi, il Mezzanone, la Busa, la Dotta; il paese cominciò a spopolarsi: c'era la necessità di trovare lavoro altrove. Le donne rimaste erano costrette a cercare di arrotondare il salario del marito. Don Francesco, con l'aiuto dell'UNRA che distribuiva prodotti di prima necessità, quali riso, pasta, sale, lardo, raccolse i bimbi più piccoli dai due ai sei anni e istituì una scuola materna. Io ben volentieri aderii alla sua richiesta, mi trasformai in una maestra d’asilo e negli anni 1947-48 mi prodigai perchè l’asilo potesse funzionare. I bimbi potevano socializzare, giocare ed apprendere le prime nozioni culturali. L’ambiente non era dei più accoglienti, ma ci si doveva adattare. C’era a disposizione una stanza nuda con delle panchine e un tavolino dove i bambini venivano accolti il mattino prima delle otto dove si leggevano fiabe, si parlava, si cantava, si imparavano brevi poesie e poi si andava nel salone dove si giocava, si mangiava, si appoggiava la testina sul tavolo per riposare. Era l'inizio di un’attività che poteva dare un aiuto alle mamme che lavoravano, non c’erano comodità, ci si adattava in attesa di poter costruire un vero asilo. Una signora faceva la cuoca, dava una mano quando c’era da cambiare qualche bimbo o c’erano da imboccare a mezzogiorno i più piccoli. Non mancava l’appetito e anche quelli che a casa facevano i capricci, all'ora di pranzo chiedevano il bis. Al pomeriggio, dopo l’orario scolastico, si univano i bambini delle elementari fino alla fine del lavoro delle mamme. Confesso che per me fu un’esperienza meravigliosa anche se estremamente stressante e mi dispiace che sia tutto finito dopo qualche anno.


la scuola materna

Nel 1952 era stato costruito un bellissimo edificio, con tutti i confort per i bimbi, con il ricavato dei risarcimenti dei danni causati dalle acque del Po del 1951 che avrebbero dovuto avere chi aveva subito danni nei loro campi. Purtroppo l’asilo durò solo qualche anno, poi è stato chiuso come sono state chiuse le scuole elementari. Non più grida, giochi, voci squillanti di bimbi felici. Solo alla domenica il paese sembra risvegliarsi quando le campane invitano i fedeli a ritrovarsi per una cerimonia religiosa o per accompagnare qualcuno alla dimora finale, al cimitero che si è dovuto adeguare alle esigenze ambientali. La costruzione della centrale di isola Serafini e di quella di Caorso ha causato l'innalzamento delle falde acquifere per cui le tombe scavate nel prato erano a rischio di essere allagate. Sono stati eretti, attorno a tre lati, colombari sotto porticati che raggruppano anche componenti di intere famiglie. Quando ero piccola, insieme alle altre alunne della classe, ci eravamo fatto carico di tenere pulita e adornare di fiori la tomba di una bimba il cui corpicino era stato ritrovato nel Po. La famiglia era lontana e noi ogni domenica andavamo a togliere le erbacce e a portare qualche fiore, magari di campo, a dire una preghiera e a dare un bacio alla fotografia che ritraeva una bella bimba dai capelli scuri che sorrideva e rassomigliava all’angioletto che sovrastava il cippo della tomba a sinistra dell'entrata. Nel giorno dei Santi era sempre coperta di crisantemi bianchi. Ci eravamo affezionati a quella bimba al punto di diventare gelose se qualcuno ci precedeva a deporre qualche fiore. Il paese era piccolo e bastavano poche e semplici distrazioni come il portare un fiore al cimitero per darci un senso di vita. Per le bambine soprattutto non c’erano tante distrazioni. Per Santa Lucia, la Santa che ci teneva tanto in ansia e ci spaventava la sera del suo arrivo quando dovevamo dormire subito e tenere gli occhi ben chiusi altrimenti ci avrebbe buttato la cenere negli occhi, ci faceva trovare l'indomani qualche arancia, qualche caramella e magari una bambolina di pezza che la mamma confezionava con tanta pazienza. Bastava per farci felici e inventare giochi che si arricchivano di tanta fantasia e immaginazione. Ai maschietti era sufficiente un’assicella con due pezzetti di ramo che funzionavano da ruote per farla diventare un carrettino che veniva trainato da due tutoli del granturco che si trasformavano nell’immaginazione, in cavallini. Fin da piccole le femminucce imparavano a cucire, a lavorare ai ferri, a ricamare e a rammendare.

Avvenimento particolare.
Nel 1946 venne portata in elicottero in Italia la statua della Madonna di Fatima. Ogni paese la tratteneva per un giorno o due, poi gli abitanti, in processione, l’accompagnavano fino al paese vicino e la consegnavano ai fedeli che la prendevano in consegna. I parrocchiani di Roncarolo andarono allo Zerbio incontro alla Vergine, in massa; con tanta fede. Ricordo di aver notato qualche lacrima anche su alcuni visi rugosi, avvizziti di persone provate dal lavoro, attratti dal dolce viso della Madonna. Il canto Bella tu sei qual sole era eseguito da bambini, donne e uomini con tanto fervore. Forse tanti non avevano mai partecipato a canti religiosi, ma l’importanza della folla, l’avvenimento particolare di trovarsi di fronte al simulacro della beata Vergine, apparsa a tre pastorelli nel nostro secolo, arrivata da tanto lontano, ha smosso gli animi. La statua fece sosta per un giorno e una notte a Casenuove in una casa privata dove avevano allestito un altare con tanti fiori e tante luci; una lampada era stata messa alla sommità di un platano e qualcuno del paese l'aveva scambiata per una stella cometa. E’ stato un avvenimento straordinario che ha toccato gli animi infiammandoli e socializzandoli almeno per quella notte. Il ritorno alle proprie case si svolse in silenzio: niente schiamazzi, ma solo commenti entusiasmanti sull' avvenimento e la cerimonia appena conclusa. La Vergine poi sostò nella Chiesa del paese.

Geografia storica di mons. Pio Marchettini.
Il nome "Roncarolo" deriva da una parola che è la radice comune della denominazione di tante località, sia nella nostra provincia che fuori. Il verbo "roncare" indica l'azione per dissodare con la "ronca" o roncola (ferro adunco con asta e tagliente per poter estirpare, recidere, sarchiare) zone più o meno vaste, cioè terreni incolti da liberare dalle erbe inutili o nocive, specialmente dai rovi, per renderli coltivabili e prativi. Così abbiamo tanti nomi derivanti da questa azione dell'uomo: Roncarolo, Roncaglia, Le Roncaglie, Ronchi, Ronco, Ronchetta, Roncole in provincia di Piacenza e così in quella di Sondrio, Verona, Bergamo ecc., parola molto antica, usata nel medioevo ed entrata nel dialetto. Dante per indicare una localita dice:"..dove ronca il Carrarese". (inf. XX 47-48). Per comprendere che questa fu l'origine di Roncarolo basta ricordare brevemente la geografia ¬storica del corso del Po, cui sono legate le successive vicende nei secoli. Quando le acque del mare si ritirarono dalla pianura padana, una volta ampio golfo del mare Adriatico, il corso del Po non ebbe subito un letto fisso e costante, ma si spostava dopo ogni grande inondazione fra l'antica riva, a sinistra, ancora ben osservabile da Fombio a Castelnuovo Bocca D’adda, e a destra la strada Postumia coincidente in gran parte con l’odierna statale Piacenza Cremona. Lungo i secoli sono state molte le variazione del corso principale, con la formazione di tanti rami morti e di tanti isolotti, più o meno estesi, chiamati mezzani (mezzanoni e mezzanini). Molto dipendeva dal trasporto di materiale alluvionale dei corsi d'acqua che scendevano dalle Alpi e dagli Appennini. Quando incontriamo Roncarolo nei documenti storici, esso dista circa due chilometri dal Po ed il suo territorio, in una grande insenatura, quasi a formare una penisola, si estende oltre Caselle Landi. Per questa ubicazione diventa importante nella storia dei rapporti fra Piacenza e Cremona. Nei secolo primo e terzo, Roncarolo, divenuto parrocchia, dopo essere stato una cappellania, dipendente forse da Caorso, o da Sparavera, antichissima Pieve, nota per i suoi fertili campi e coltivazioni (abbiamo notizie di donazioni di questi fin dall’anno 948), centro di controllo della navigazione del Po, e fortificato come difesa (fu costruito un castello nel 1183) contro i cremonesi in lotta frequente con Piacenza per possesso di territori, ma soprattutto per diverso schieramento politico dei Comuni. In questo periodo Roncarolo ha i suoi ordinamenti di comune rurale, con i capitanei del Po e le consorterie o consorzi per lo sfruttamento delle terre. Si alternarono nel possesso dei territori i Dal Verme, i Bentivoglio d’Aragona Visconti ed infine i Landi. Sono questi ultimi signori che, operando la deviazione del corso del Po, incidono sul corso della storia di Roncarolo. I fratelli Cristoforo e Manfredo Landi, su disegno tracciato dal bolognese Scipione Dattari e sotto la direzione dell'ing. Alessandro Bolzoni, eliminarono nel 1595 l’ansa del Po e tutto il territorio di Caselle Landi divenne praticamente Milanese. In seguito anche ecclesiasticamente il nuovo corso del Po segnò i confini delle parrocchie, anche se gli atti ufficiali vennero nei successivi periodi. Abbiamo notizie di visite pastorali fatte da Vescovi di Piacenza: nel 1573 il Card. Beato Paolo Burali d’Arezzo, il 23 giugno inizia una visita minuziosa da Sparavera, a Roncaglia, a Fossadello, Roncarolo, Caselle Landi e Caorso. Allora Roncarolo aveva 180 anime ammesse alla Santa Comunione. Con il nuovo corso del Po, il paese, quasi sulla riva del fiume, subì le vicende delle grandi inondazioni, come risulta dalle relazioni dei Parroci dello stato della Chiesa Parrocchiale di San Lorenzo, fino alla costruzione degli argini, entro i quali le acque erodono e depositano i materiali delle rive opposte. Da allora la storia di Roncarolo decorre normalmente, senza fatti eccezionali: si sviluppa l’agricoltura in alcune grandi aziende ed in molte piccole con ortaggi e frutteti. L’evoluzione politica sarà quella comune della zona rivierasca del Po, iniziata alla fine del secolo scorso. La vita del paese sarà scossa da vicende della guerra 1940-45 e dopo, con lo sbarramento delle acque del Po all’isola Serafini.


"la classe di ferro" del 1916

Conclusioni.
Per motivi di lavoro ho dovuto allontanarmi da Roncarolo, ma mai il mio cuore si è staccato completamente dal mio paesello. Quando ero in servizio e tornavo per visitare la mia famiglia di origine, ai miei colleghi di lavoro dicevo che andavo ad ossigenarmi. Veramente la sosta, anche se breve, a Roncarolo mi dava la forza di riprendere il mio lavoro con coraggio e serenità. Le mie radici continueranno ad assorbire linfa vitale dalle amicizie che ritrovo ogni volta che sosto sul sagrato della Chiesa per qualche anniversario o cerimonia particolare. So che diversi abitanti si sono riuniti per togliere la monotonia del posto isolato, senza nemmeno più un parroco fisso, ma un sacerdote che con sacrificio arriva due volte alla settimana per svolgere le funzioni essenziali. So che ci sono persone che si prendono cura della pulizia della Chiesa, di abbellire gli altari con fiori ed altre che allestiscono feste con tavolate di piatti tipici del posto, sempre affollate. Davanti alla Chiesa trovano posto alcuni attrezzi per i giochi dei bambini, il campo sportivo e un posteggio per le macchine, tenuti ordinati da persone del posto. Ciò dimostra quanto gli abitanti sappiano dimostrare che esiste ancora sensibilità ed orgoglio verso il loro paese. (grazie a Claudio Consolini per la sua collaborazione).