penna

la Palla di Neve

Gli inverni degli anni ’50 mi parvero sempre lunghissimi, freddi e nevosi. Forse furono davvero insolitamente rigidi ma è più probabile che tali apparissero a me fanciullo che li desideravo e al tempo stesso li temevo. Infatti l’arrivo dell’inverno mi calava nel magico periodo delle feste con gli agognati regali di Santa Lucia e gli sfavillanti addobbi natalizi sull’albero ma al tempo stesso, con il freddo, giungevano per me anche gli immancabili guai. Le mie tonsille si infiammavano al minimo colpo d’aria obbligandomi a lunghi periodi di letto con febbroni che poi mi lasciavano spossato e debolissimo. Le mie assenze a scuola erano divenute proverbiali tanto che presto venni additato come il portatore dei bacilli. Ciò nonostante appena la neve faceva la sua puntuale apparizione adagiandosi su tetti, strade e piazze io reagivo con allegra spensieratezza uscendo ad accogliere la bianca coltre con genuino entusiasmo. Dimentico delle insidie del gelo e degli ammonimenti materni passavo ore intere in cortile prendendo a pallate i miei parenti e ingaggiando con i giovani camerieri dell’Hotel Roma furibondi duelli. Avevo pochi amici a quel tempo e solo saltuariamente qualche compagno di scuola veniva a trovarmi in albergo. Con l’amica Rosanna, la figlia dei Civardi, gli scambi di pallate erano rari e poco soddisfacenti, lei era una femmina e quando iniziavo a colpirla mi mostrava la lingua e fuggiva su dai suoi sparendo dalla mia vista per tutto il giorno. Così dovevo arrangiarmi in altre maniere finendo per costruire, se la coltre assumeva un livello considerevole, l’immancabile uomo di neve che poi completavo con qualche cappellaccio logoro e qualche vecchio indumento prelevato dal guardaroba di famiglia che mia madre generosamente mi metteva a disposizione. Certo il mio uomo di neve non poteva gareggiare in statura con il robot di ferro dell’inventore Legati, parcheggiato come sempre sotto i portici del cortile ma ci furono anni in cui riuscii a crearne di belli, e d’altezza notevole anche perché sebbene fossi un bimbetto gracile e sottile ero sicuramente più alto della media dei miei coetanei.


nevicata in piazza cavalli
Vi fu un inverno però in cui ebbi finalmente un compagno di giochi e d’avventure. Era lontano nipote del barbiere Papilli che aveva bottega poco oltre il Roma verso piazza e sebbene non lo avessi mai visto né frequentato prima d’allora, mi prese in simpatia finendo per venire in cortile quasi tutti i pomeriggi di quell’autunno –forse si era nel ’53 o nel ‘54- a giocare con me. Mi par di ricordare che il suo nome fosse Ivan o Ivano ma non ci giurerei poiché la nostra amicizia, iniziata con tanto trasporto, finì bruscamente quell’inverno stesso, e non ebbi più occasione in seguito di rivederlo. Ivan, lo chiamerò così, era di almeno un paio d’anni maggiore di me e molto robusto per la sua età. Subito nacque da parte mia, insieme all’amicizia, un sentimento di soggezione nei suoi confronti avendo io intuito quasi subito il forte carisma di cui era dotato. Ivan, di origini modeste, era un figlio del popolo; parlava quasi sempre il dialetto del quartiere Tobruck, da cui proveniva, e pareva sapere sul mondo molte più cose di me. Di Ivan seppi sempre poco, lui sull’argomento non era molto loquace. Forse era venuto ad abitare presso lo zio barbiere poiché in famiglia c’erano troppe bocche da sfamare o più probabilmente, avendolo i suoi iscritto alla Media Manzoni, era per lui più comodo recarsi a scuola partendo dalla casa degli zii. Fatto sta che Ivan divenne in breve il mio miglior amico; finalmente avevo di nuovo un compagno di giochi maschio dopo la tragica morte di Mario Delfanti inghiottito dal Po qualche estate prima sull’isolotto Maggi. Possedevo a quell’epoca una bella collezione di soldatini d’ogni epoca e paese ed altri giocattoli che mostrai con orgoglio a Ivan. Pur non essendo per natura vanitoso in quell’occasione mi davo delle arie per i regali ricevuti dai miei e contavo di suscitare l’invidia del mio amico. Ci rimasi dunque male quando mi avvidi che le belle cose che gli mostravo lo lasciavano completamente indifferente. Maggior interesse da parte sua riscosse la mia collezione di francobolli che da qualche tempo occupava le mie ore di ozio. Ivan rimase affascinato da quei piccoli quadrettini di carta informandosi sul loro valore e sulla loro provenienza. Io feci sfoggio della mia competenza in campo filatelico rispondendo a tutte le sue domande con sicurezza. Ivan mi ascoltò per un poco con attenzione poi parve aver perso interesse all’argomento. D’improvviso mi chiese quasi a bruciapelo se avevo una ragazza. Aveva infatti intravisto Rosanna giocare con me in cortile un pomeriggio e voleva sapere qualcosa di lei. Gli risposi balbettando che eravamo soltanto amici ma lui prese a canzonarmi dicendomi che se me la facevo con le bambine non avrei mai concluso nulla, lui invece aveva conosciuto delle vere donne che.. Quel discorso non mi piacque, Ivan voleva dimostrarmi che io ero un lattante mentre lui era uno che forse già frequentava le puttane, così almeno pareva farmi credere. Feci finta di nulla e deviai il discorso su altri temi ma in cuor mio ero furioso con quel saputello. Qualche giorno dopo tuttavia fui io a ritornare sull’argomento, avevo continuato a rimuginare su quella parziale ammissione del mio amico; aveva davvero avuto a che fare con quelle donne o voleva semplicemente far colpo su di me? Gli chiesi di essere sincero e di raccontarmi qualcosa dei suoi approcci con l’altro sesso. Ivan dapprima si schermì, dicendo che ero troppo piccolo per quei discorsi, che non sapeva se dovesse fidarsi di me ma si vedeva che aveva una voglia matta di parlare. Io insistetti parecchio finché lui, fattosi improvvisamente serio, mi fece giurare che quello che stava per dirmi non dovevo raccontarlo a nessuno. Mi aspettavo che mi parlasse delle signore che popolavano qualcuno dei rinomati bordelli cittadini dove io e alcuni compagni di scuola avevamo fatto qualche timida sortita mesi addietro spinti dalla curiosità e dai primi pruriti dell’adolescenza. Il racconto di Ivan invece prese una piega ben diversa. Era vero, ammise, aveva avuto rapporti sessuali completi con una donna mi confessò, una donna più grande di lui ma non si trattava di una prostituta, era stato con una cugina che frequentava casa sua. Era successo un pomeriggio in cui lui era solo in casa e lei era venuta in visita agli zii. L’avevano fatto sul divano del salotto quella prima volta, poi lui era andato spesso da lei che abitava poco distante in un piccolo appartamento che divideva con un’amica. Carla, la cugina, era originaria di Ferriere dove ancora abitavano i suoi ma lavorava in città da qualche tempo, impiegata in una ditta di trasporti. Era una bella e prosperosa ragazza bruna, assai sensibile agli allettamenti del sesso che aveva voluto sperimentare con il giovane cugino sebbene avesse un fidanzato che faceva il metronotte. Ora purtroppo si era sposata e questo aveva posto fine ai loro amplessi. “Da lei ho imparato che il sesso è una gran bella cosa”, aggiunse Ivan. “Da allora spesso cerco di infilarmi di sera in un casino di Vicolo Buffalari dove mi hanno detto che accettano anche i più giovani ma finora non mi è riuscito di entrarci. Un giorno di questi, aggiunse, potremmo andarci insieme. Rimasi molto colpito dal racconto del mio amico e gli promisi che saremmo presto andati in esplorazione in uno dei lupanari piacentini, dissi proprio così, poiché avevo appreso da poco la parola in un libercolo pornografico che circolava in classe in quei giorni. Ivan rise udendo quel termine, che forse sentiva per la prima volta, poi mi fece promettere di nuovo che non avrei raccontato ad anima viva la sua esperienza con la cugina pena la fine della nostra amicizia. Passò qualche settimana, il freddo calò sulla città scacciando l’ immancabile nebbia che l’aveva fatta da padrona in quei giorni novembrini, poi la temperatura risalì ed un bel mattino mia madre al risveglio mi annunciò che c’era una sorpresa invitandomi ad alzarmi e a correre alla finestra. Tutte le strade apparivano bianche mentre una vera e propria tormenta di neve infuriava sulla città. Quel giorno, con mia grande gioia, mia madre volle che rimanessi a casa per precauzione mentre la nevicata assumeva un’intensità inconsueta e non sembrava voler smettere. Nevicò fittamente per tutta la giornata e per tutta la notte seguente. Il mattino dopo la città era paralizzata, nessun mezzo circolava, e il silenzio era davvero impressionante. Piacenza pareva addormentata sotto un cielo plumbeo che faceva temere altre future precipitazioni, erano le dieci del mattino e pareva notte.


abbondante nevicata sul faxhall
Filtrava da sopra i tetti una luce azzurrognola che regalava agli edifici contorni di fiaba. Il freddo sopraggiunto nella notte, aveva formato stalattiti di ghiaccio sui cornicioni e sulle grondaie delle case creando effetti fantastici. Lo spettacolo era davvero superbo ed io gioivo contemplandolo anche perché la scuola era rimasta chiusa quel giorno e probabilmente lo sarebbe stata anche il seguente. Due giorni dopo la situazione si andava normalizzando, erano entrate in azione squadre di volonterosi che con pale e badili avevano provveduto a sgomberare un poco le strade permettendo una minima circolazione agli automezzi. Il cortile del Roma era stato solo parzialmente ripulito dal personale dell’albergo ma c’erano enormi blocchi di neve accatastati un po’ dappertutto tanto che pareva di camminare in trincea come avevo visto nel film sulla Grande Guerra “All’ovest niente di nuovo”, allora di grande successo. Ivan fece la sua comparsa a metà mattina e subito ingaggiammo una dura battaglia a suon di palle di neve. Lui era più forte e più rapido di me ed anche più abile nello schivare i colpi. Io cercavo di stargli al passo ma ne ricevevo addosso molti più di lui. Ad un certo momento mentre incautamente mi affacciavo dalla mia trincea venni centrato da una dura palla di ghiaccio all’occhio destro. Mi fermai di botto massaggiandomi l’occhio per sgombrarlo dalla neve e attenuare il dolore lancinante che provavo. Ivan invece continuò a bersagliarmi come nulla fosse. Accecato dalla neve ricevuta e sofferente all’occhio tentai di fermarlo ma lui continuava a centrarmi imperturbabile. Mi entrò dentro allora una rabbia cieca contro di lui e incurante del dolore e dei colpi che ricevevo uscii allo scoperto iniziando a centrarlo con un’energia che ricavavo dal mio stesso furore. Ivan rimase un attimo stupefatto dalla mia reazione e ne approfittai per investirlo con una gragnuola di colpi, poi mi avvicinai a lui colpendolo ripetutamente senza smettere un solo momento, imprecando nei suoi confronti con parolacce e grida disumane. Finì che fu costretto a battere in ritirata fuggendo dal portone mentre lo mitragliavo senza pietà invitandolo a non farsi più vedere. Purtroppo mi prese in parola poiché quel mattino fu l’ultimo in cui ebbi a vederlo. Nelle settimane successive cercai di rintracciarlo ma inutilmente. Compresi allora che mi sfuggiva a causa di quell’episodio increscioso. L’avevo offeso gravemente e lui aveva deciso di troncare la nostra amicizia. Ero afflitto per la faccenda ma più di ogni altra cosa mi sgomentava l’aver sperimentato che la rabbia provata-un vero e proprio accesso d’odio-era un sentimento forte che allignava in me come in qualsiasi altro essere umano. Fino ad allora mi ero sempre considerato un ragazzo ragionevole, alieno dalla violenza, capace di autocontrollo e rispettoso nei confronti degli altri. Ora invece quell’episodio dimostrava esattamente il contrario. Ivan mi aveva ferito, è vero, ma la sua insensibilità al mio dolore era una reazione da adulto, io invece avevo reagito come un ragazzino isterico e viziato e non mi perdonavo di aver provocato la fine della nostra amicizia. Seppi in seguito che il mio amico si era trasferito altrove poiché la sua famiglia aveva traslocato da Piacenza. Si diceva che suo padre fosse andato a fare il bidello in una scuola di Cremona. Ciò attenuò in parte il mio sgomento; forse se non fosse andato via da Piacenza tanto in fretta, almanaccavo, avremmo potuto far pace e riprendere le nostre confidenze e i nostri audaci progetti..
Trascorsero i mesi e un bel giorno di primavera, al ritorno da scuola, mia madre mi consegnò una cartolina a me indirizzata. Rappresentava il Torrazzo di Cremona e sul retro una mano poco incline alla scrittura aveva vergato senza firmarsi queste poche parole: Come va l’occhio? Compresi allora che Ivan mi aveva perdonato.
(di Giorgio Vecchi).

pupazzo di neve