penna

la Storia di Giovanni Raicevich

“quando l’uomo più forte del mondo abitava a piacenza”

Il 17 febbraio 1909 “la Gazzetta dello Sport” superò per la prima volta le centomila copie vendute, un traguardo simbolico che, in quel particolare momento storico, rivestì un significato del tutto particolare. Dimostrò, in pratica, che un fenomeno sociale nato solo pochi anni prima, lo sport, non solo aveva conquistato definitivamente l’interesse degli italiani, ma era anche in grado di imporre i suoi “idoli”. E un vero idolo sportivo fu certamente il protagonista dell’impresa celebrata nelle pagine della “rosea” quel giorno, l’indomani del trionfo mondiale del lottatore triestino Giovanni Raicevich. Un alone di leggenda ha sempre circondato e ancora circonda il nome, purtroppo oggi sconosciuto ai più, di un personaggio per il quale si sprecarono le iperboli, in un periodo che esaltava proprio il mito della “forza”. “L’uomo più forte del mondo”, il “Maciste buono”, il “lottatore invincibile” riemerge dal passato attraverso vecchie foto ingiallite e ci può anche apparire un po’ buffo, per via dei mutandoni ascellari e dei reggicalze che indossava sul ring. E poi quel cranio rasato, il collo taurino, l’immenso torace, le braccia che paiono tronchi d’albero. Immagini stereotipate, come tutta la sua vita, segnata da gioie immense e dolori lancinanti, da gloria accecante e dalle tenebre dell’oblio. Una parabola umana completa, nella quale vengono a galla gli ideali, le ribellioni, i sacrifici, il coraggio e anche gli errori di un uomo sicuramente fuori dalla norma. Dalle esibizioni sotto il tendone di un circo ai grandi palcoscenici dei teatri di tutto il mondo dove, agli inizi del Novecento, si lottava per conquistare fama e denaro. Dal rifiuto di servire l’esercito austriaco alla Grande Guerra combattuta sotto la bandiera italiana. Dagli sfavillii della “Belle Epoque” al secondo dopoguerra, in un Paese prima perso tra le sue macerie e poi troppo intento a rincorrere il nuovo benessere per ricordarsi del vecchio campione che, con le sue imprese, aveva riempito d’orgoglio gli italiani. Dai baci della “Bella Otero” alla poltrona sdrucita sulla quale “Giovannone” visse amaramente il suo crepuscolo umano.


Giovanni Raicevich chicago 1909

Ma chi era veramente Giovanni Raicevich? E perché la sua grande vittoria del 1909 esaltò gli sportivi italiani come mai era accaduto prima per un successo sportivo? Ma, soprattutto, perché quel trionfo ebbe una eco del tutto eccezionale proprio a Piacenza? Cosa legava dunque il ventottenne triestino alla nostra città? Per saperne di più bisogna partire dall’inizio, quindi dal 10 giugno 1881, giorno in cui il futuro campione nacque, a Trieste, che all’epoca faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico. Nonostante l’opposizione della madre, che voleva farlo crescere da subito in città, egli visse fino a cinque anni a Lagosta. Di quell’isola della Dalmazia era originario il padre, marinaio, che lo allevò in maniera del tutto spartana, così come aveva fatto per fratelli maggiori Emilio e Massimo. Quando arrivò il momento di frequentare le scuole elementari, Giovanni tornò a Trieste dalla madre. La povera donna si ritrovò dunque a gestire un bambino fino ad allora cresciuto allo stato brado. Il richiamo del mare, in particolare, era per lui assolutamente irresistibile. Di nascosto, scappava al bagno Sant’Andrea, da dove partiva per lunghe nuotate insieme ai suoi coetanei. Le prime sfide in acqua maturarono in lui la passione per la competizione, una passione incoraggiata dal fatto che quasi sempre primeggiava sugli altri. Ma ben presto per lui si palesò lo sport che lo avrebbe reso veramente famoso: la lotta. I primi incontri furono nient’altro che baruffe da strada. Confronti senza cattiveria, perché Giovanni era sì un piccolo colosso, ma aveva il cuore di marzapane. Ben presto, vista la sua schiacciante superiorità, non trovò più nessuno con cui “giocare” e così, a quattordici anni, decise di iscriversi alla società Ginnastica Triestina, della quale facevano già parte anche i fratelli Emilio e Massimo. Iniziò ad allenarsi con scrupolo e nel 1898 partecipò a un torneo per dilettanti a Vienna, dove naturalmente risultò vincitore. Da lì, in pratica, iniziò l’epopea di Giovanni Raicevich. Nel 1899, a Trieste, batté il quotato milanese Federico Palazzoli e, benché fosse ancora giovanissimo, questo successo lo convinse a passare professionista. Intanto, a Trieste, aveva aperto insieme ai fratelli il “Circolo Raicevich”, una palestra dove chiunque poteva avvicinarsi alla disciplina della lotta. Per sbarcare il lunario, iniziò anche a lavorare in un circo equestre. Sulle piazze, oltre a dare semplici dimostrazioni di forza, egli sfidava i presenti in gare di lotta, mettendo ogni volta in palio mille lire. Nessuno, naturalmente, riusciva a batterlo e lui provava un piacere tutto particolare nell’atterrare gli austriaci. Egli, infatti, si sentiva profondamente italiano e nello stesso tempo odiava visceralmente gli Asburgo. Dichiarato abile alla prima visita militare, non si diede per vinto e, pur di non servire l’esercito dell’aquila bicipite, si finse sordo da un orecchio. Ma davvero sordo alle sue richieste fu l’ufficiale medico che lo visitò una seconda volta a Zara, arruolandolo senza troppi complimenti. Allora Giovanni prese la sua decisione: s’imbarcò con i fratelli alla volta di Ancona, lasciando alla chetichella Trieste, dove peraltro era ricercato dalla polizia per aver distrutto un noto locale del centro, il “Caffè Nicolò Tommaseo”, durante una scazzottata proprio con un gruppo di ufficiali austriaci. Lontano dalla sua città, tornò quindi alle gare e nel gennaio 1902 conquistò il Campionato Italiano di lotta nella categoria “medio-massimi” (all’epoca pesava “solo” 82 chili). Quella manifestazione fu per la famiglia Raicevich un autentico trionfo, visto che Emilio s’impose nei “massimi” e Massimo nei “leggeri”. L’anno dopo, Emilio e Giovanni si iscrissero ancora al torneo che assegnava i titoli tricolori, ma gli organizzatori non li ammisero alle gare perché li considerarono sudditi degli Asburgo. Giovanni si consolò subito prendendo parte ad alcune esibizioni. La sua prima affermazione ufficiale di una certa importanza a livello internazionale la ottenne comunque nel febbraio del 1905, ai Campionati Europei di Liegi, dove vinse l’oro dei pesi “massimi”, battendo in finale il serbo Antonich, un colosso di 210 centimetri. Nella stessa categoria, Emilio mise al collo la medaglia di bronzo, mentre Massimo si aggiudicò l’argento tra i “medi”.


i fratelli Massimo, Emilio e Giovanni Raicevich

Per nulla appagato dal trionfo di Liegi, nei mesi successivi “Giovannone” continuò a mietere successi e raggranellare premi a San Pietroburgo, a Krefeld e in Westfalia. Attraversò anche l’Oceano e andò a conquistare il titolo del Sud America. Una vittoria ancor più eclatante la ottenne però nel 1907, in Francia. Allora, in po’ come succede oggi nel pugilato, non esisteva un unico Campionato Mondiale. Così, quell’anno, a Parigi vennero disputati due distinti tornei, entrambi con in palio la corona iridata. Uno lo organizzò “L’Auto” e laureò campione il francese Paul Pons. Il secondo, allestito da “Les Sports” alle “Folies Bergère”, salutò invece il trionfo del nostro Raicevich. Un altro francese, Laurent le Beaucairos, rappresentò l’ultimo ostacolo prima dell’apoteosi. Al termine delle gare, ammirata dalla forza di “Giovannone”, la più famosa soubrette dell’epoca, Carolina Otero, meglio conosciuta come la “Bella Otero”, corse in pedana per abbracciarlo. Eppure, anche a distanza di molti anni, di quella che definì «la serata più emozionante della mia vita» il lottatore triestino amava ricordare, con malcelato orgoglio, un altro episodio. Subito dopo la vittoria, era stato avvicinato dall’ambasciatore dell’Impero Austro-Ungarico, che gli disse: «Lei è di Trieste e quindi austriaco. Sono dunque felice di stringerle la mano». I complimenti continuarono a lungo, ma Raicevich, appena prima di salire sul podio per essere premiato in pompa magna, si avvicinò al direttore della banda, che di lì a poco avrebbe accompagnato la cerimonia di premiazione, e gli chiese di intonare non l’inno austriaco, bensì quello italiano. Tra lo stupore di buona parte del pubblico, alle “Folies Bergère” risuonò dunque la Marcia Reale. Appena libero dagli impegni protocollari, Giovanni si precipitò al telegrafo più vicino e inviò al direttore de “La Gazzetta dello Sport”, Emilio Costamagna, queste poche righe: «Vittoria! Ora lieta trionfo abbracciovi pensando adorata Italia, mia Trieste. Giovanni Raicevich». Un messaggio sconclusionato solo all’apparenza, perché in tre sole parole racchiudeva tutta la vita del primo, vero eroe del nostro sport: Vittoria, Italia, Trieste. Con il Campionato Mondiale conquistato nel 1907, Raicevich conobbe una clamorosa impennata di popolarità. Gli italiani erano innamorati del lottatore che, pur essendo alto “appena” 172 centimetri, riusciva a primeggiare in un mondo popolato da personaggi perennemente sospesi tra cronaca sportiva e leggenda, con nomi esotici e fisici straordinari, spesso accompagnati da una fama sinistra. Come Anglio Anastase, la montagna d’ebano della Martinica, e il cosacco Ivan Romanoff, con il suo orecchio deforme e il viso attraversato da profonde cicatrici. Oppure l’elegante francese Aimable de La Calmette e il tremendo lottatore del sultano, vale a dire il turco Mustafà Kara, un ghigno da tagliagole reso ancor più ripugnante dalla foruncolosi che ne devastava il volto. C’erano pure Nikola Petroff, il bulgaro dall’istinto omicida, e il siberiano Kacheff, un vero “gigante” del ring con io suoi 2 metri e 20 centimetri d’altezza. Senza dimenticare l’altro russo Ivan Zaikin, detto “Il terribile”, e soprattutto il più grande di tutti, Paul Pons, francese baffuto e brutale, che combatteva indossando calzoni alla zuava. All’immagine propriamente sportiva di Raicevich, poi, si associava, inscindibile, quella dell’irredentista, del ragazzo fuggito da una Trieste soggiogata dagli Asburgo e riparato in Italia, la sua unica Patria.

un manifesto delle “Folies Bergère” in cui appare la soubrette la “Bella Otero”

«L’uomo più forte del mondo è a Piacenza» titolò in prima pagina “Libertà” del 21 dicembre 1907.
In effetti, da qualche tempo, “Giovannone” abitava in via Sant’Antonino, insieme al fratello Emilio e a una sorella. Il peregrinare lungo la penisola lo aveva dunque portato nella nostra città, dove, peraltro, i Raicevich erano già stati in diverse occasioni, per partecipare ai tornei di lotta che all’epoca andavano in scena al “Politeama”. Il loro soggiorno piacentino durò circa un paio d’anni e fu caratterizzato da diversi aneddoti, alcuni decisamente simpatici. Ad esempio, quando non erano in tournèe, Emilio e Giovanni erano soliti allenarsi in casa. Così, spostavano tavolo e sedie, mettevano terra i materassini e provavano “cinture” e “doppi elson” sotto lo sguardo perplesso del loro splendido cane danese, che pare fosse di stazza molto simile a quella dei padroni. Durante questi match simulati, come è facile immaginare, l’edificio che ospitava l’appartamentino dei Raicevich tremava paurosamente. Il proprietario della casa, preoccupatissimo, in quel periodo fece fare più un sopralluogo tecnico per verificare la stabilità di muri e pavimenti e probabilmente tirò un grosso sospiro di sollievo quanto la Salus et Virtus, dopo il trionfo di Parigi, nominò Giovanni socio onorario, consentendo a lui e al fratello l’uso gratuito della sua palestra, in Piazza Cittadella. In estate, poi, i due fratelli trovavano “asilo” alla Nino Bixio, dove, sulle acque del Po, dimostravano grande abilità anche con la voga. Nel tempo libero, accompagnato dall’inseparabile cane danese, Giovanni amava invece compiere lunghe passeggiate in periferia, soprattutto sul Pubblico Passeggio, dove si esercitava anche alla guida (la patente gli fu rilasciata proprio nella nostra città), non di rado rincorso da gruppi di ragazzini vocianti. Di indole mite e bonaria, accettava di buon grado le morbose “attenzioni” dei più giovani, che lo prendevano quasi d’assalto soprattutto per toccagli i poderosi bicipiti. I piccoli ammiratori favoleggiavano sulle sue “misure”, che, in effetti, erano impressionanti: 110 chili di peso, 130 centimetri di torace, 57 di braccio, 33 di polso. Il collo aveva una circonferenza di 51 centimetri e proprio facendo leva su questa parte del corpo il campione triestino aveva affinato la famosa “difesa in ponte”, che tante volte salvò la sua imbattibilità. Proprio da Piacenza, nel novembre del 1908, i fratelli Raicevich partirono ancora alla volta della Francia, per partecipare nuovamente al torneo di “Les Sports”, questa volta in programma al “Casino de Paris”. Giunti nella capitale transalpina, però, avvertirono subito una certa ostilità nei loro confronti da parte degli organizzatori. Giovanni cominciò comunque a macinare vittorie e avversari, accompagnato dalla simpatia dello sportivo pubblico francese e dei tanti emigrati italiani. I turchi Karaman e Pengal e il giapponese Akitaro Ono (un maestro di Jiu-Jitsu che combatteva a piedi nudi) furono costretti a cedergli il passo, al termine di combattimenti epici. In semifinale Raicevich si ritrovò quindi di fronte il russo Ivan Zaikin e qui accadde il “fattaccio”. Durante l’incontro, mentre l’atleta giuliano si stava rialzando dopo essersi allacciato una scarpa, l’avversario lo colpì a tradimento, spedendolo fuori dal tappeto. Nella caduta, l’italiano batté violentemente la testa contro il pavimento e rimase tramortito, toccando terra con le spalle. La giuria, ignorando la palese scorrettezza, attribuì la vittoria a Zaikin. A nulla valsero le veementi proteste dei fratelli Raicevich, sostenute anche dal pubblico neutrale, perché la giuria non tornò sui suoi passi. Sdegnato, “Giovannone” non solo abbandonò dalla manifestazione, ma annunciò anche il ritiro dall’agonismo. Tornò dunque a Piacenza, ma la voglia di riscatto era troppo forte: così, sfidò pubblicamente tutti i lottatori del mondo, in un nuovo torneo internazionale che “La Gazzetta dello Sport” stava organizzando a Milano. All’appello risposero i migliori, Pons in testa, e dalla metà del gennaio 1909 nella capitale lombarda iniziò una serie di spettacolari incontri.


Emilio e Giovanni Raicevich in allenamento

Nel suo cammino verso la finalissima, Raicevich dovette affrontare atleti di altissimo livello, in particolare Mustafà Kara, Ivan Romanoff e Anglio Anastase. Li atterrò tutti e il 16 febbraio, finalmente, si arrivò all’ultimo, decisivo match col fuoriclasse francese Paul Pons, che due mesi prima, a Parigi, si era ancora aggiudicato la “sciarpa gialla” de “L’Auto”. L’attesa dell’incontro era spasmodica, tanto che la polizia fu costretta a creare un cordone di sicurezza attorno al teatro “Dal Verme”, che si riempì in ogni ordine di posti. Pons era alto 23 centimetri più di Giovanni e più pesante di 25 chili. Nato nel maggio 1865 a Sorgues, figlio di un agricoltore, fino a 25 anni aveva lavorato come fabbro prima di scoprire la sua vocazione, nel luglio 1890, partecipando quasi per caso a una competizione di lotta. Ora, a 44 anni, era ricchissimo, con numerose proprietà non solo in Francia, ma anche oltreoceano, in Argentina. L’avvio del grande match di Milano vide Raicevich guardingo. Pons, più aggressivo, tentò ripetutamente ma inutilmente di stringere in una morsa il collo dell’italiano. Anzi, alla seconda ripresa, proprio Raicevich atterrò l’avversario, che però riuscì ad evitare il “fuori combattimento”. Subito dopo, fu il triestino a salvarsi da un’analoga situazione grazie al pezzo forte del suo repertorio, la “difesa a ponte”. Sempre più stanco e nervoso, col passare del tempo Pons iniziò a portare alcuni colpi proibiti, tanto che la giuria si vide costretta ad ammonirlo. Intanto, i due colossi continuavano a colare sudore: il tappeto era ormai completamente fradicio. Dopo quarantasette minuti e dieci secondi, finalmente, l’epilogo. In rapida sequenza, Raicevich portò due attacchi col braccio girato e il secondo andò a segno. Pons finì a terra, sconfitto. Quando Giovanni gli schiacciò le spalle al tappeto, una bionda ed elegante signora del pubblico si tolse il cappellino color malva, ne sfilò un fazzoletto di seta e lo lanciò verso il vincitore. Dopo trentadue sere di lotta, il mondo aveva incoronato il suo Ercole. Il 19 febbraio 1909 “Libertà” annunciò trionfante il ritorno del campione: “Raggiante di felicità, è giunto ieri a Piacenza il vincitore del Mondiale”. Solo tre giorni dopo, il giornale piacentino tornò ad occuparsi di lui, per raccontare un episodio curioso che lo vide protagonista suo malgrado. Era carnevale e in tale ricorrenza, allora, a Piacenza si usava bersagliare con lancio di sacchetti di crusca, castagne e aranci chi avesse in testa la bombetta, un cappello duro che in dialetto era chiamato “chìttar”. Il buon Raicevich, che non conosceva questa usanza (in verità abbastanza discutibile), uscì con la sua bella bombetta calata su capo. Così, passando in piazza Cavalli, fu preso di mira da un gruppetto di ragazzi. Non ci fece troppo caso e, del resto, appena gli improvvisati frombolieri lo riconobbero cessarono immediatamente i lanci. Tutti, tranne uno, che non volle saperne di mollare il bersaglio e, incurante del perentorio invito di smetterla rivoltogli dalla sua “vittima”, finì per colpirla in volto. Riuscì dunque nell’impresa di far arrabbiare “il gigante buono”, che gli mollò un sonoro ceffone, peraltro con la stessa forza che avrebbe impiegato per scacciare una mosca fastidiosa. Ma tanto bastò perché il malcapitato “persecutore”, dopo aver piroettato un paio di volte su se stesso, finisse lungo e disteso a terra. Rialzatosi, con molta filosofia, commentò poi: «Tutto sommato, potrò sempre vantarmi di essere stato preso a schiaffi da Giovanni Raicevich». In fondo, la reazione del campione triestino fu davvero poca cosa, se si pensa che lo stesso giorno, si racconta, un signore particolarmente esasperato arrivò a estratte una rivoltella per far cessare i lanci dei monelli piacentini.


il famoso "ponte" di Giovanni Raicevich

Nel 1909 Raicevich toccò l’apice della sua carriera e la “Gazzetta dello Sport” lo scelse come padrino della sua grande creatura: il Giro ciclistico d’Italia. Poi, oltreoceano, trovò modo di accrescere ulteriormente la sua fama. Al “Madison Square garden” di New York fu protagonista di sfide memorabili. In particolare, la sera di Natale del 1911 quattromila spettatori (e, tra loro, anche il celebre tenore Enrico Caruso) invasero il teatro e lo videro abbattere l’enorme polacco Stanislao Zbysko. In Sud America ricevette ottimi ingaggi per partecipare alle più disparate prove di forza. Nel 1913, a Buenos Aires, stabilì il primato mondiale di sollevamento pesi “in ponte” (153 chili alzati per cinque volte). La spola tra Europa e America (attraversò ben 44 volte l’Atlantico) terminò con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Schierato subito dalla parte degli “interventisti”, con una condanna a morte del tribunale austro-ungarico che gli pendeva sulla testa, si arruolò nell’esercito italiano come volontario. Proprio nel 1915, il fratello Massimo, scoperto alla frontiera, venne fucilato dagli austriaci a Salisburgo. Nel maggio 1917, in pieno conflitto, Raicevich trovò il tempo di sposare l’amata Bice, dalla quale ebbe in seguito quattro figli: Giovanni, Giorgio, Giovanna e Maria. Il 1918 celebrò la sua vittoria più bella: il trionfale ingresso con le truppe italiane in una Trieste finalmente liberata dal giogo asburgico.

Giovanni Raicevich con la divisa dell’Esercito italiano

Ricco e famoso, terminata la guerra, Giovanni scoprì il cinema. Anzi, fu il cinema a scoprirlo e a sfruttarne il personaggio. Le sue incredibili caratteristiche fisiche gli valsero numerose apparizioni in film del genere “Maciste”. A lanciarlo fu la “Cines”, ne “Il leone mansueto” del 1919, un film diretto da Henrique Santos. Passò quindi al produttore napoletano Gustavo Lombardo, che nel 1920 lo chiamò ne “Il re della forza” (dove interpretava sé stesso) e quindi in altre fortunate pellicole, come “Il pugno del gigante” del 1921, “Il Club degli stravaganti” e “Il colosso vendicatore” del 1922. Un successo addirittura clamoroso, con incredibili resse davanti alle casse dei cinema, fu quello ottenuto sempre nel 1922 da “L’uomo della foresta” di Ubaldo Maria Delcolle, nel quale il campione triestino era una sorta di Tarzan chiamato “Buono”, talmente forte da averla vinta contro una coppia di tori inferociti. L’enorme notorietà, però, gli diede forse alla testa e lo convinse a creare una propria casa cinematografica, la “Raicevich Film”, con la quale, ancora nel 1922, produsse e recitò come attore protagonista “Il trionfo di Ercole” del regista Francesco Bartolini. Il film si rivelò un fiasco clamoroso, così come i successivi “Un viaggio nell’impossibile” (1923) e “Il cavaliere della lieta figura” (1924), impedendogli di realizzarne la continuazione, dal titolo “Ercole al bivio”, che infatti non uscì mai nelle sale. A sue spese, “Giovannone” aveva capito che la vita di tutti i giorni era ben diversa dal ring. Tornò quindi sulle pedane, nel 1924, ma subito il destino gli inferse un nuovo “colpo basso”. A Buenos Aires, mentre attendeva di disputare la finale del torneo contro Hans Kavan, assistette alla morte del fratello Emilio, che aveva voluto salire sul quadrato benché soffrisse di una flebite. Distrutto dal dolore, Giovanni si ritirò. Il 18 dicembre 1925, a Roma, il lottatore giuliano si ritrovò di fronte Kavan e lo batté nettamente, ma la federazione internazionale annullò l’incontro. Solo il 15 ottobre 1928, al teatro “Adriano” della capitale, l’italiano poté sancire definitivamente la sua superiorità sul boemo, con una vittoria inequivocabile. Fu il suo ultimo grande combattimento, prima del definitivo ritiro, due anni dopo, praticamente imbattuto.


Giovanni Raicevich negli anni Quaranta, tecnico della nazionale di lotta

Divenuto tecnico della nazionale italiana di lotta, nel 1932 non poté seguire i suoi atleti alle Olimpiadi di Los Angeles, per un disturbo agli occhi che lo costrinse a terra proprio mentre si stava imbarcando alla volta degli Stati Uniti. Nominato dal Re “Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia”, ricoprì la carica di commissario tecnico federale fino al 1943. Proprio agli inizi della Seconda Guerra Mondiale ebbe modo di tornare per l’ultima volta a Piacenza, dove, al “Politeama”, assistette ad alcuni incontri tra lottatori dilettanti. Sullo stesso assito, molti anni prima, aveva combattuto anche lui e quel ricordo non mancò di procurargli un’accorata nostalgia. Un nuovo dramma lo colpì di lì a poco, nel 1943: la morte del primogenito Giovanni, ufficiale medico dell’esercito, inabissatosi con la sua nave nell’Atlantico. Da quel momento, la sua parabola declinò inesorabilmente. Trascorse la vecchiaia a Roma, in un modesto appartamento, assistito da una figlia, con una piccola pensione passata dal CONI. Triste e malandato, circondato dall’indifferenza più totale, il primo grande mito dello sport italiano passava le giornate nella completa apatia, quasi scacciando gli ingombranti ricordi dei tempi gloriosi, lontani oltre mezzo secolo. Sprofondato nella sua poltrona, che a malapena accoglieva l’enorme corpo ormai decrepito, chissà quante volte “Giovannone” avrà pensato a Piacenza. Del resto, proprio dalla nostra città, che lo aveva adottato e sinceramente amato, era partito per conquistare i successi più belli di una straordinaria carriera. Raicevich si spense la sera del 1° novembre 1957. Imbattibile sul proscenio sportivo, sconfitto più volte dalla vita (destino che ha accomunato tanti altri campioni, prima e dopo di lui), l’“uomo più forte del mondo” morì dunque in miseria. Il giorno dopo, sul “Corriere della Sera” comparve un lungo articolo firmato da Orio Vergani, che ancora rappresenta un esempio di grande giornalismo, anche se forse oggi ci può apparire un po’ d’antan (descrivendone il fisico, lo scrittore lo definì «un ceppo, più che un tronco d’albero»). “la Gazzetta dello Sport”, invece, gli dedicò solo poche righe: fatto emblematico, in un Paese sempre pronto a celebrare entusiasticamente i vincitori, ma troppo spesso irriconoscente verso i vinti e incapace di ricambiare i sentimenti più nobili, proprio quelli che Giovanni Raicevich nutrì sempre nei confronti della sua Italia. (Graziano Zilli - Piacenza)

Invitiamo tutti a dare il proprio contributo inviando informazioni, foto, aneddoti o altre curiosità riguardanti la permanenza di Giovanni Raicevich a Piacenza. Vogliamo arricchire le nostre pagine per offrire ai visitatori un facile sito dove poter reperire informazioni. Grazie a tutti.