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Biglietto di Terza Classe

“di Silvia Pattarini”


Lina è una ragazza di vent’anni che agli albori del ‘900 emigrò in America in cerca di fortuna. Il lungo viaggio in bastimento, destinazione New York. Le paure durante la traversata, in terza classe, giù nella stiva, con emigranti che fuggivano dalla disperazione alla ricerca di una vita migliore. Il Nuovo Mondo, gli umilianti controlli sull’isola di Ellis, chiamata dai migranti “l’isola delle lacrime”. La nuova vita da cittadina americana. Le difficoltà, le lotte per i diritti delle donne e contro lo sfruttamento minorile. I pericoli e le avversità da affrontare. Infine l’amore, ma per questo ci sarà un alto prezzo da pagare..


l'isola delle lacrime a new york

la Filanda di Rivergaro

Passarono gli anni e la famiglia di Lina fu funestata da un tragico evento. La sorella Paolina morì di parto. Il giorno del funerale, con lei morì anche la piccola creatura neonata. Furono così sepolte insieme, madre e figlia nella stessa bara. Fu una tragedia che scosse la piccola comunità, che si riunì a lutto accanto a quella famiglia disgraziata. Il cognato Pietro, rimasto vedovo e solo, fuggì in America e non fece avere più notizie. L’anno seguente a Pasqua Lina aveva deciso che sarebbe assolutamente partita per l’America, però le occorreva il denaro per l’acquisto del biglietto e non aveva un soldo. Le rimesse che mensilmente mandava a casa Emilia servivano per estinguere il debito che la famiglia aveva contratto per acquistare il suo biglietto d’imbarco. Lina scrisse allora una lunga lettera a suor Lucia e le chiese aiuto per trovare al più presto un lavoro. Dopo qualche giorno la suora le rispose e le consigliò di rivolgersi al parroco di Rivergaro. Una mattina sul finire di maggio, al canto del gallo, Lina partì a piedi, zoppicando, verso Rivergaro, nella speranza di trovare un passaggio di fortuna. Giunta nei pressi del paesello di Perino, udì alle sue spalle uno scalpitio di zoccoli e un fruscio di ruote che scricchiolavano sulla ghiaia polverosa. Si trattava di un mezzadro della zona, che conosceva di vista e che si recava a Rivergaro per vendere degli ortaggi al mercato. Vedendola zoppicare la riconobbe subito, in zona non c’erano molte signorine zoppicanti ed essendo in buoni rapporti con suo padre, pensando di farle un grande favore, si fermò. «Vi serve un passaggio, signorina?» «Magari! Sto andando a Rivergaro!». «Allora salite, c’è posto dietro in mezzo alle verdure!». Lei accettò volentieri il passaggio, consapevole che le avrebbe risparmiato un bel po’ di tempo e fatica. Durante il viaggio, sballottata tra gli ortaggi, Lina spiegò all’uomo che doveva trovare al più presto il curato per chiedere il suo aiuto. Giunti nella piazza principale del paese, scese dal calesse, ringraziò il mezzadro del passaggio e si mise subito alla ricerca del curato, chiedendo di lui tra le bancarelle del mercato. Il campanile della chiesa rintoccò le 8,30. Fu facile trovarlo perché tutti lo conoscevano e lo consideravano una persona di grande umanità e infinita bontà, pronto ad aiutare tutti i bisognosi. Le indicarono di recarsi alla chiesa di S. Agata. Il sacerdote si trovava proprio sul sagrato, intento a litigare con la vecchia serratura del portone. «Buongiorno padre, siete voi il curato?» L’uomo si voltò lanciandole una rapida occhiata e annuì. «Mi chiamo Lina e suor Lucia mi ha consigliato di rivolgermi a voi!». Lina si presentò a don Luigi con voce tremante, mentre saliva i pochi gradini di fronte alla chiesa. «Mi ha detto che forse voi potete aiutarmi». «Ti manda suor Lucia?» rispose il curato vedendola molto agitata. «Vieni figliola, entriamo in canonica e così mi racconterai tutto con calma». Il parroco, dopo aver ascoltato la sua triste vicenda, decise di aiutarla e la rassicurò. «Non preoccuparti, conosco qualcuno che sicuramente ti darà un lavoro, nel frattempo mentre io vado a cercarlo perché non prepari qualcosa da mangiare? Guarda, lì c’è la dispensa, dovresti trovare qualcosa da cucinare». Lina si mise subito all’opera, andando a rovistare nella piccola dispensa, posta vicino al muro sotto un grande Crocefisso di gesso. La aprì ma le parve vuota. Appoggiata sul tavolo stava sola soletta una scodella con all’interno una manciata di fagioli bianchi in ammollo. Volgendo il suo sguardo all’insù verso il Crocefisso lo pregò di farle trovare ancora qualcosa da cucinare, perché da quella dispensa vuota proveniva solo un odore di cera e di candele spente, e i soli fagioli non sarebbero stati sufficienti per placare la fame di due persone. Frugando meglio trovò, nascosto tra due canovacci, del pane raffermo, poi in un angolino scoprì due cotiche. Infine le venne in mano una scatola di conserva di pomodoro. Qualcosa si poteva combinare. Ringraziò il Signore di averla ascoltata. Dopo qualche ora il reverendo rientrò e aprì la porta della canonica chiamandola, ma il suo olfatto fu immediatamente rapito da un invitante profumino di sugo con fagioli e cotiche. «Lina! Ho buone notizie per te! Ti ho trovato un lavoro!». «Davvero? Grazie don Luigi, le sarò eternamente grata! Allora dobbiamo festeggiare!». «Cos’è questo profumino di buono?». «Ho preparato un pranzetto coi fiocchi! Nella dispensa ho trovato del pane secco, così vi ho preparato pisarei e fasò! Spero siano di vostro gradimento». «Di mio gradimento? Altroché se mi piacciono» esclamò il parroco accomodandosi al tavolino, e iniziando a divorare quel piatto povero, fatto con pochi avanzi di pane raffermo e ingredienti semplici, ma ricco di sapore. «Ma il sugo come lo hai preparato? È squisito» mormorò il curato leccandosi i baffi. «Ho trovato nella dispensa anche la conserva di pomodoro e due cotiche, il resto è un segreto! In realtà è una ricetta delle suore, me l’hanno insegnata loro quando sono stata in convento» spiegò la ragazza mentre gustavano con un certo appetito quei gnocchetti squisiti. «Ti ho trovato un lavoro presso la filanda di Diara, lì lavorano tante donne come te, non è lontano da qui, ma si lavora anche dieci-dodici ore al giorno. Ti servirà un posto in cui fermarti a dormire,, conosci qualcuno, parenti o amici che possano ospitarti?» domandò don Luigi. «No, purtroppo non conosco nessuno di Rivergaro, solo le sorelle del convento di Bassano, potrei chiedere la loro ospitalità» rispose la ragazza. «È troppo lontano, finiresti con lo sfinirti, già dieci ore di lavoro sono dure, figuriamoci se devi fare anche tutta quella strada a piedi! E con la tua gamba poi! Non se ne parla nemmeno, ti troverò un posto adeguato in cui fermarti a dormire. Ho già un’idea, vieni con me!» le comunicò don Luigi con fermezza, alla fine del pranzo. Si avviarono lungo la strada dritta, passando davanti alla stazione tranviaria, dove alcune carrozze erano parcheggiate sotto la tettoia a spiovente. Sul retro un enorme serbatoio per l’acqua che serviva ad alimentare la caldaia a vapore della locomotiva. «Dove porta questo treno?» domandò la ragazza incuriosita dal mezzo di trasporto. Non ne aveva mai visto uno così da vicino.


stazione del tramvay e automobile postale

«Questo trenino collega Rivergaro a Grazzano Visconti. La ferrovia è stata ultimata da poco» rispose il parroco mentre proseguivano sempre dritto lungo la via sterrata parallela ai binari in direzione di Diara. Giunsero di fronte a un grande capannone. «Ecco, questa è la filanda di cui ti ho parlato. Entriamo a parlare col padrone». Lina lo seguì all’interno del capannone. Tante donne, giovani come lei e meno giovani, stavano sedute attorno a grandi tavolini, con tante ceste piene di bozzoli di bachi da seta, tutte intente a svolgere il loro lavoro, senza parlare troppo tra di loro. Don Luigi chiese del proprietario. «Ora ve lo chiamo!» rispose il capoturno. Di li a poco arrivò il padrone, un uomo tutto d’un pezzo, sulla cinquantina, vestito con abiti eleganti e si avvicinò al curato. «Buon giorno don Luigi. È la ragazza di cui mi ha parlato prima, vero?» si informò l’uomo scrutando Lina dall’alto al basso. «Esattamente, si chiama Lina e ha tanto bisogno di un lavoro signor Dante!». «Bene, ha già lavorato in filanda, signorina?» le domandò l’uomo. «No, so fare la sarta e la contadina» rispose Lina con un certo timore, tenendo lo sguardo rivolto al pavimento rossiccio. «Non importa» disse l’uomo, «imparerai a svolgere la mansione a cui sarai destinata, l’importante è che tu abbia voglia di lavorare, i fannulloni sono banditi da questa filanda. Puoi cominciare domani, in prova, se poi supererai il periodo di prova, sarai assunta come le altre, con un regolare contratto di lavoro. Ricorda che qui occorre unto di gomito figliola!» annunciò l’uomo con tono burbero. «Va bene signore, il lavoro non mi spaventa. A che ora si comincia?» «Domattina alle sette fatti trovare qui. Poi ci penserà il capo turno ad assegnarti una mansione» precisò il signor Dante. «Allora se non c’è altro noi andiamo, la ragazza si presenterà qui domani mattina come d’accordo» intervenne il curato. Successivamente uscirono dal capannone e don Luigi la accompagnò al convento di Pieve Dugliara, poco distante dalla filanda. «Vediamo se le suore hanno un posto per accoglierti, so che ospitano già due donne di Travo che lavorano alla filanda». In dieci minuti giunsero al convento. Don Luigi bussò. Aprì una giovane suora che, non appena lo vide, gli disse: «Don Luigi, a cosa dobbiamo la sua visita?» «Devo parlare con Madre Veneranda, sorella per favore me la può chiamare?». La giovane sorella corse a chiamare la madre superiora che arrivò di corsa. «Che novità ci sono don Luigi?» chiese la suora, sapendo che il curato riservava sempre sorprese. «Vi porto una persona che ha bisogno di aiuto. Si chiama Lina, abita nei dintorni di Perino e da domani lavorerà alla filanda. Avete un posto per farla dormire?» si preoccupò il curato. «Veramente saremmo già al completo ma se le due donne di Travo sono d’accordo, potrei metterla in stanza con loro. Saranno un po’ strette ma non ho altro posto per il momento!» La sorella apparve dispiaciuta di non poterle offrire di meglio. La ragazza si presentò. «Per me andrebbe benissimo, se le altre sono d’accordo. Mi chiamo Lina, sorella. Per sdebitarmi del vostro disturbo posso cucire o rammendare o cucinare, qualsiasi cosa di cui avrete bisogno chiedetemi pure. So anche leggere e scrivere» disse Lina orgogliosa di se stessa. «Buon per te figliola, la cultura non è mai troppa» rispose la Madre Superiora senza mostrare il minimo interesse per quella affermazione, infine aggiunse: «Seguimi, ti mostro la stanza». Lina seguì la suora lungo un corridoio spoglio e buio, impregnato da un odore di chiuso misto a candele spente, sul quale si affacciavano, da ambo i lati, delle porte tutte chiuse. Probabilmente erano le cellette delle suore. Appesa sopra a ogni porta una piccola croce gigliata si alternava a una croce trifogliata. Suor Veneranda si fermò proprio di fronte all’ultima porta in fondo al corridoio, l’unica che aveva appesa una croce di Malta, girò la chiave che era nella serratura ed entrarono. Era una stanzina rettangolare, spoglia e triste con un piccolo crocefisso appeso sopra un antico scrittoio, e nella parte sotto una finestrella, da cui filtrava un timido raggio di sole, e due brandine, in cui dormivano presumibilmente le due donne. La sera al rientro dal lavoro, si riunirono presso la modesta foresteria del convento e, prima della consueta preghiera di ringraziamento, la suora le informò subito della novità. «Maria, Angela, vi presento una nuova arrivata: lei è Lina, viene da Perino e le servirebbe un posto in cui dormire» riferì loro madre Veneranda. «Andrebbe bene per voi farle un po’ di posto nella vostra stanza? Da domani verrà a lavorare alla filanda, dunque sarà una vostra collega». Le due donne ebbero un attimo di esitazione, poi Maria esclamò «certamente che le faremo un po’ di posto! Dove si sta in due, si sta anche in tre! Nella casa del signore c’è posto per tutti vero Angela?» commentò voltandosi verso la figlia. «Certo!» rispose la giovane. Poi rivolgendosi a Lina si presentò: «Sono Angela e lei è mia madre, Maria». «Mi chiamo Lina e vi ringrazio per la vostra disponibilità! Da domani inizio anch’io a lavorare alla filanda» le informò la ragazza sfiorando i loro volti con uno sguardo di gratitudine. «Bene, allora andremo insieme! Si lavora duramente ma la paga è discreta. L’importante è non chiacchierare troppo o il capo turno si arrabbia» le disse Angela imitandone il verso e, facendo anche una smorfia, ridacchiò: «Bocche cucite e unto di gomito!». Maria la riprese: «Basta! Qualche volta se ne accorge che gli fai il verso! Vuoi farti buttare fuori dalla fabbrica, stai attenta a te!». Poi rivolgendosi a Lina continuò: «è giovane, ha sempre voglia di scherzare!». «Anche a me piacerebbe scherzare, ma da qualche tempo non ne ho più voglia» replicò Lina mentre il suo volto si faceva cupo e triste. «Perché?» chiese la giovane Angela con l’ingenuità della sua tenera età. «Perché la vita riserva sorprese a volte molto spiacevoli che ti fanno passare la voglia di divertirti». A quell’affermazione i suoi occhi azzurri divennero tristi. Maria allora mormorò sottovoce alla figlia: «Lasciala in pace, non vedi che non ha voglia di parlare?» «È come se una parte della mia vita fosse improvvisamente finita, è come se mancasse una parte di me stessa! A volte mi sento terribilmente sola. Non appena avrò messo da parte i soldi per il biglietto, me ne andrò da mia sorella che sta alla Merica!». A quelle parole anche Maria e Angela decisero di confidarsi con lei e raccontarono la loro vicenda. Anche loro desideravano andare in America dove già da qualche anno viveva l’altra figlia di Maria, nonché sorella di Angela. Maria era una signora sulla quarantina, aveva perso il marito qualche anno addietro a causa della pellagra, una malattia molto diffusa a quel tempo specie nel nord Italia che mieteva vittime tra la popolazione contadina che si nutriva prevalentemente di polenta. Volto abbronzato da umile contadina, occhi scuri e tristi, portava sempre un fazzoletto scuro sul capo che legava sotto il mento per nascondere i primi capelli bianchi, ma dalla fronte spuntava comunque un ciuffetto di capelli grigi. Lavoratrice instancabile, aveva le mani ruvide e rovinate dai calli. Sua figlia Angela era una giovinetta sui sedici anni, graziosa, dal volto ovale e le gote rosa, lunghi capelli castani con morbidi ricci che, copiando la madre, copriva con un fazzoletto rosso piegato a triangolo e richiudeva con un nodo dietro la nuca. Gli occhi azzurri erano di suo padre. Indossava un abitino di velluto celeste, lungo fino alle caviglie con un grembiulino rosso sul davanti che si accostava bene al fazzoletto che portava sul capo.


il lavoro nella filanda

Il giorno seguente si recarono tutte e tre alla filanda. Il capo turno destinò Lina proprio al tavolo insieme a Maria e Angela. Iniziava per lei una nuova esperienza. Le ore passavano lente, sedute a quel grande tavolino ad aprire uno a uno i bozzoli dei bachi da seta, posti all’interno di enormi ceste di vimini. Alla sera, quando rientravano al convento, erano stanche e affamate, e con le mani che si screpolavano per il continuo contatto col bozzolo. In breve tempo tra le tre donne nacque una profonda e sincera amicizia, al punto tale che si convinsero a vicenda che il giorno in cui avessero avuto disponibilità di denaro sufficiente sarebbero partite insieme per l’America. Sapevano di non potere confidare alle suore la loro idea di recarsi in America perché la Chiesa era assolutamente contraria all’emigrazione, nonostante l’arcivescovo di Piacenza Monsignor Scalabrini, dal 1892 si fosse attivato a favore degli emigranti, creando degli ordini missionari deputati all’assistenza degli immigrati italiani a New York. Di questa iniziativa umanitaria le tre donne non erano al corrente, anzi, al contrario credevano che il vescovo, come gli altri prelati, fosse ostile all’emigrazione. In chiesa molti preti predicavano di non partire perché si disgregavano le famiglie e molti non facevano più ritorno! «Partono per le lontane Americhe, lasciano a casa mogli e figli, per i primi tempi scrivono qualche lettera, poi dopo qualche tempo non fanno più avere notizie.. e a casa pensano che siano morti.. invec.. si dimenticano dei loro cari che sono rimasti in Italia e si ricostruiscono delle nuove famiglie nelle lontane Americhe, con altre mogli e altri figli! È una cosa scandalosa e vergognosa!». Questo era il monito di alcuni sacerdoti durante le omelie della domenica. Ma che ne sapevano loro della miseria in cui versava la popolazione? A loro il pane non mancava mai. Che ne sapevano loro del suo dramma interiore? Che ne sapevano loro di cosa significa restare zoppa a dieci anni e delle umiliazioni che aveva subito dalla gente per quel suo modo strambo di camminare? Quando passi per strada la gente che non ti conosce ti guarda curiosa e chi ti conosce finge di non vederti per non salutarti! Era già qualche mese che lavorava alla filanda, era diventata brava ed era stata destinata a una mansione superiore a quella iniziale, che le consentiva un buon margine di guadagno, così aveva messo da parte un po’ di soldi, ma temeva non fossero sufficienti per il biglietto e per il viaggio. Ora, dopo circa sei mesi di lavoro in filanda, era giunto il momento di tornare a casa. Anche Maria e Angela prepararono i loro poveri fagotti per tornare al paese. Lina aveva messo da parte circa cento lire, che aveva nascosto nel calzino che indossava. «Addio suor Veneranda! Addio sorelle! E grazie ancora per la vostra generosità e ospitalità». «Addio a voi e che Dio vi benedica figliole!» risposero le suore in coro salutandole. Passarono a Rivergaro presso chiesa di S. Agata a cercare il curato. Lo trovarono che stava dando qualcosa da mangiare a un giovane poveraccio, senza famiglia e fissa dimora, conosciuto da tutti in paese col soprannome di Tandai. Il giovane, vedendole arrivare, alzò le spalle e sbuffando se ne andò canticchiando. «Don Luigi siamo passate a farvi un saluto! Abbiamo finito la nostra campagna e torniamo a casa!». «Sono contento per voi, soprattutto ho visto che siete diventate amiche. Tenete bene in mente che l’amicizia è una cosa grande, che vale più di ogni altro bene materiale. Solo per questo motivo consideratevi fortunate: l’amicizia vera vale più di ogni tesoro! Se avrete occasione di ripassare da queste parti venite a trovarmi!» disse loro il curato. «Lo terremo ben a mente! Per ora ci diciamo addio! Addio don Luigi e grazie di tutto quello che ha fatto per noi» si pronunciò Lina improvvisandosi portavoce del gruppo. Le tre donne si misero in cammino, seguendo la via principale per Bobbio. Attraversando le vie del paese si sentiva un invitante profumo di caldarroste e di polenta. Un vento gelido soffiava in direzione nord e sembrava tagliasse loro la faccia, che era diventata color granata, per il freddo pungente. Le dita delle mani e dei piedi si rattrappirono in fretta. Un altro inverno stava arrivando e Natale era ormai alle porte. Giunsero a Travo sul calar della sera mentre iniziava a nevicare.


travo e la sua piazza

Lina passò la notte a casa di Maria, sarebbe ripartita il giorno seguente. Nevicò tutta la notte, la mattina era impossibile riprendere il cammino perché enormi cumuli di neve imbrattavano le strade. Maria si offrì di ospitarla nella sua umile dimora fino a quando la neve non si fosse sciolta. «Non puoi metterti in cammino da sola con tutta questa neve e con la tua gamba! Rimani qui da noi per qualche giorno, appena la neve si scioglierà riprenderai la strada». «Ti ringrazio di cuore Maria, so che sei tanto cara, ma se accetto di rimanere qui devo trovare un modo per sdebitarmi!» fu la risposta della giovane. Così Lina, che era una brava sarta, comprò uno scampolo di stoffa di velluto blu al negozio vicino e cucì un abito nuovo per Maria e una camicetta e una gonna per Angela. «Ma sei bravissima! Sono due abiti bellissimi, li indosseremo il giorno di Natale! Grazie, ci hai fatto davvero un grande regalo». Maria era commossa. «È il minimo che potevo fare per ringraziarvi della vostra ospitalità». Finalmente dopo quasi sette giorni la neve si sciolse un po’ e Lina, zoppicando in mezzo a quei cumuli bianchi, riprese il cammino verso casa. Arrivò giusto in tempo per festeggiare la vigilia di Natale con la sua famiglia. La vecchia e pesante porta di legno cigolò e si aprì portandosi dietro un alito di freddo pungente, mentre l’ombra gigantesca di una figura famigliare apparve proiettata sul vecchio muro di pietre, tremolando al crepitio del fuoco e si presentò di fronte ai due anziani, che stavano seduti davanti al focolare a pelare le caldarroste. «Mamma, papà sono tornata!». I due coniugi si alzarono di scatto, lasciando cadere sul pavimento di cotto rossiccio le bucce abbrustolite delle castagne. «Lina! Lina sei tornata figlia mia! Che bella sorpresa ci hai fatto! Vieni! Vieni qui a scaldarti vicino al focolare e mangia due castagne insieme a noi» le dissero i genitori così felici per la bella sorpresa. Li abbracciò forte, erano mesi che non si vedevano. «Tua madre è tutto il giorno che lavora in cucina e ha preparato qualcosa di buono da mangiare. Sarai stanca e avrai fame! Siediti che tra poco si mangia! Festeggiamo il tuo ritorno a casa» mormorò il vecchio padre, fiero di averla di nuovo con loro. I suoi pazienti occhi azzurri contornati da profonde rughe brillavano di gioia e risaltavano tra i suoi capelli incanutiti e le folte sopracciglia bianche come la neve. «Ma Nando dov’è?» domandò la ragazza notando l’assenza del fratello. «Ormai dovrebbe arrivare» rispose suo padre. «Cerca di racimolare qualche soldino facendo il garzone alla bottega, in questi giorni lavorano più del solito». Di li a poco la porta di assi inchiodate l’una sull’altra si spalancò di nuovo portandosi dietro una folata di vento gelido. Nando entrò entusiasta. «Mamma! Papà! Guardate! Il padrone mi ha dato la paga!». Mostrò con orgoglio a tutti la sua prima paga: una bottiglia piena di olio di oliva e due saracche. Era così contento che non si accorse nemmeno della presenza della sorella. «Una bottiglia d’olio! Questo sì che è un lusso» fu la risposta di gratitudine della madre Anna, che durante i mesi invernali per friggere doveva utilizzare il grasso del maiale, o burro semiliquido chiamato “al buter getà” (burro che veniva fatto fondere insieme ad aromi, in modo che si conservasse allo stato semi liquido per diversi mesi). «E bravo il mio fratellino! Ha portato a casa la sua prima paga» affermò una voce conosciuta che gli giunse da dietro. Nando si voltò di scatto e quando realizzò che era tornata la sorella le saltò con le braccia al collo. «Lina! Finalmente sei tornata!» esultò il ragazzo, fiero di sé. «Ora possiamo festeggiare la mia paga tutti insieme». Anna era riuscita a preparare qualcosa di speciale per la vigilia di Natale: tortelli di zucca, pane con uvetta secca e i Turtlitt , tipici dolcetti natalizi ripieni di mostarda e castagne secche. Durante il mese di agosto, quando si “fa la luna buona”, aveva messo da parte due dozzine di uova, conservandole al sicuro in mezzo al frumento. Con alcune di quelle uova aveva così preparato la sfoglia per i tortelli, tirata abilmente a mano col matterello, poi con “la coltella” aveva tagliato tanti rombi e col ripieno, ottenuto amalgamando la polpa di una zucca buona con un po’ di ricotta e formaggio, aveva sapientemente preparato i Turteil cun la Cuà uno a uno, lavorando la pasta tra pollice e indice fino a ottenere una treccia al centro e due code alle estremità. Al tempo della vendemmia aveva messo a essiccare nel forno, dopo aver cotto il pane, i grappoli migliori di uva faranesa: si sarebbe conservata per diversi mesi anche fino a Natale. Inoltre c’era la tradizione di mettere da parte un pane preparato per la vigilia di Natale: sarebbe rimasto morbido fino all’anno successivo.


bastimenti nel porto di genova

Quello fu l’ultimo Natale che trascorse in famiglia e in Italia, poco tempo dopo sarebbe partita per l’America. Grazie al denaro inviato a casa mensilmente da Emilia, i genitori, che approvavano la sua intenzione di raggiungere la sorella oltre oceano, erano riusciti a metterle da parte circa cento lire, che sommate alle cento lire guadagnate alla filanda, ammontavano a duecento lire. Lina ora disponeva di denaro sufficiente per acquistare un biglietto di sola andata in terza classe. Le mancava solo il passaporto. Per ottenerne il rilascio occorreva farne esplicita richiesta, a voce o per iscritto, al sindaco del comune di residenza, il quale dopo aver rilasciato il nulla osta provvedeva, nel minor tempo possibile, a farne richiesta alle autorità competenti. Dal 1901 il passaporto e il nulla osta erano rilasciati in forma assolutamente gratuita, esenti da tasse e marche da bollo, per tutti coloro che dichiaravano di recarsi all’estero per motivi di lavoro, compresi eventuali componenti del nucleo famigliare. (0111 edizioni-zerounoundici edizioni). facebook.com/bigliettoditerzaclasse .