penna

Quella Rossa Primavera 1943-45

“di Augusto Vegezzi”

Nello scenario della guerra civile, dove tramontano la borghesia agraria e il mondo contadino ed emergono virulenti una nuova borghesia e le classi lavoratrici organizzate, diventano uomini René e Orlando, giovani di buona famiglia animati da una drastica ribellione contro la società cattolico-borghese, della quale rifiutano l'egoismo economico e l’ipocrisia morale e religiosa. In Orlando prevale un cinico impulso di auto-affermazione, che lo porta a violenze e tradimenti con i nazi-fascisti e poi con gli alleati. René, sensibile e problematico, scopre faticosamente sé e il mondo tra pulsioni, illusioni e ideali fino a un’emancipazione morale e sessuale che culmina in un contrastato amore. Egli partecipa alla Liberazione, alla Ricostruzione e al rinnovamento morale e politico del governo Parri, presto soffocato dal prevalere dei Poteri tradizionali. Di qui un disincanto politico e una scelta faustiana di un impegno da architetto per migliorare la società e il mondo e per realizzare il suo amore.


La guerra totale.
“La guerra.. è la speranza che a uno possa andar meglio, poi l'attesa che all'altro vada peggio, quindi la soddisfazione perché l'altro non sta per niente meglio e infine la sorpresa perché a tutti e due va peggio.” Karl Kraus.
Il rombo dei P47 annunciò il ritorno dei predoni. Ci precipitammo giù dalle scale e raggiungemmo un vicino rifugio. Quel giorno con brevi intermezzi si ripeterono ventotto raid aerei. Verso sera, senza cessato allarme, la gente esasperata cominciò a uscire dai rifugi nella città devastata, tra il turbinio di fiamme, polvere e fumo, lo scroscio di muri frananti e il coro di lamenti e grida umane. Anch’io e Lili ci trovavamo nella folla che si trascinava qua e là come impazzita. Uno scenario spettrale. Molte facciate si ergevano ancora, interamente svuotate dell’interno, emblemi spettrali della tragedia. Altre case invece stavano ancora ritte, ma scortecciate della facciata, mostrando ad occhi estranei i segreti celati da sempre: pareti colorate, piastrellati di bagni e cucine, rampe di scale che iniziavano e si perdevano nel nulla, alcove complici nascosti amori o delitti, magazzini di miserie occultate. Scheletri di case in deshabillé, arlecchineschi, osceni. Una farsa nella tragedia.

Sulla sagrato del duomo una bambina seminuda, in stato di shock, gli occhi sbarrati nel vuoto, caracollava e saltellava, emettendo un guaito continuo e agghiacciante, quasi l’ululato di un lupo. Cercammo di soccorrerla, mi tolsi il cappotto per coprirla ma sgusciò dalle nostre mani e corse via, sempre ululando la sua disperazione. A un tratto un gendarme tedesco, enorme, con un grugno feroce, la afferrò saldamente e la strinse tra le braccia. “Che fa quel mostro? La vuole rapire?” Corremmo per soccorrerla. Avvicinandoci sentimmo che con una voce di basso il guerriero le sussurrava Heilige nacht, stille nacht. La piccola pian piano si acquietò, forse per il calore di un essere umano, forse per il ritmo del canto. Perfino quell’assassino di mestiere aveva un cuore. Schiere di fantasmi stralunati camminavano barcollando tra le rovine. Molti morti, uomini donne e bambini, giacevano bruciacchiati o travolti dalle macerie. Molti vivi gesticolavano come marionette o si accasciavano a terra, il viso schermato tra le mani tremanti o camminavano ciondolando fuori di senno. Il cielo, oltre le colonne di fumo, indifferente si abbuiava. In breve la piazza fu brulicante di pompieri, ambulanze, medici, crocerossine, preti, becchini, autorità in un caos di ordini, contrordini, sfuriate, scontri verbali, impotenza, disperazione. Poi lentamente cominciarono a funzionare i soccorsi. Arrivarono altri cittadini per aiutare e confortare i superstiti, fornire le prime cure, ricuperare feriti o sepolti. Ai margini pattuglie tedesche e fasciste in armi sorvegliavano, spettrali e indifferenti. Ci unimmo a un gruppo di pompieri, trasportammo tubi e scale, spostammo con le mani macerie, confortammo feriti. Nel fervore dei soccorsi non trovammo il tempo per lasciarci travolgere da compassione e orrore. Bisognava fare, aiutare, lenire. Nell’urgenza dei soccorsi ci perdemmo di vista. A metà pomeriggio per pochi minuti c’incontrammo presso un grande secchio d’acqua e bevemmo dallo stesso mestolo. Stravolti, disfatti, i vestiti chiazzati di sudiciume, di sangue, ci abbracciammo. Dissi, disperato: E noi siamo ancora vivi. Già. Verrebbe voglia di non esserci più. Troppi feriti e morti. Troppo dolore. E’ la guerra totale, l’orrore che distrugge tutto e tutti, senza senso. E’ vero. Nessuna giustificazione, nessun senso. Così la tragedia della guerra marchiò per sempre il nostro animo, un incancellabile incubo. Per chi suona la campana? Anche per te.




Improvvisamente le bordate della Flack tambureggiarono scomposte, mentre il crescente rombo di motori annunciava il ritorno dei predatori. Fu un fuggi fuggi frenetico e disperato. Grappoli di boati non lontani annunciarono che il bombardamento era ripreso. Durò pochi minuti. Una squadriglia in ritardo, dispersa, pigra? Forse. Ma non mancò di infierire ancora sulla città martirizzata. Dopo una decina di minuti, un cupo silenzio segnalò la fine del pericolo. Pian piano ripresero febbrili i soccorsi. Al crepuscolo, stralunato e a pezzi, cercai invano Lili, poi ripresi la bicicletta e mi avviai verso casa. Mentre arrancavo sulla lieve salita, mi resi conto di quanto mi era capitato e di quanto ero cambiato, quasi un quadruplo salto mortale in un giorno lungo come anni. E spontaneamente canticchiai i versi di Nello, il poeta dionisiaco: Tam tam la vita/ tam tam la morte/ tam tam l’amore. “Forse è così che nel 1945 si diventa uomo a diciassette anni.” pensai con angoscia e fierezza. In un giorno era successo l’inconcepibile. Ero lucido, avevo visto, vissuto e capito tutto; ricordavo tutto. Mi sentivo uomo e umano. Soprattutto nel profondo del mio corpo e animo rimanevano incandescenti l’incanto e la beatitudine con Lili. Di più, l’abbraccio, la fusione, l’amore.. ReLili.. Sì. L’Amore. Giunto stremato alla villa, trovai Lea e Max in disperata attesa. Di colpo esultanti, non finivano di abbracciarmi e baciarmi. Poi raccontai loro quello che era avvenuto in città, tralasciando Lili. Lea commentò, la voce rotta nel pianto: Non è possibile. Centinaia di morti. Anche i bambini. Che angoscia. Poverino. Il mio René. Il mio bambino. Mio padre, che appariva sconvolto, aggiunse: Molti palazzi del centro distrutti! E tanti altri lesionati. E le vittime! Ma è una catastrofe. La nostra bella città devastata come mai. La notte trascorse in un sonno turbato da sogni e incubi All’alba, sorridendo, ritrovai l’incanto e la beatitudine del mio amore e lo strazio per la sua assenza. Eros e Thanatos!

la Buona Società.
Uno dei nostri divertimenti, ora che Orlando era tornato e che ci incontravamo sempre più spesso, consisteva nello scoprire e nel raccontarci difetti, ipocrisie e infamie dei grandi. Le critiche dissacranti della buona società, esaltata da coloro che vi appartenevano, e ammirata, invidiata o esecrata da quanti ne erano esclusi, e quelle della religione cattolica erano le preferite. Quando ne parlavamo, di solito nelle nostre lunghe passeggiate, dovevamo fermarci spesso in preda a incontenibili risate. Di solito era Orlando a lanciare uno spunto, forse perché si arrovellava in un esasperato conflitto con la sua famiglia. Io pure ero critico verso i miei genitori e la borghesia ma conservavo un certo distacco e le mie divagazioni comiche, e ironiche mai sconfinavano nel sarcasmo o nello scherno. Le nostre analisi beffarde si appuntavano sulla definizione stessa di buona società: Che bizzarra espressione. Assolutamente impropria. iniziava Orlando. Come buona? Come la panna montata? O come la buona novella di Gesù? Chissà. Non vedo niente di buono nella società dei grandi. Macché grandi! Arduo scoprire qualcosa di grande in quei microcefali. E’ un ossimoro, come dire una buona merda. Sei sempre ridondante, Orlando. Condivido il giudizio negativo ma distinguiamo: loro almeno non puzzano oppure mascherano i loro lezzi con nuvole di acqua di colonia. E via a ridere a crepapelle, felici di dirle sempre più grosse. Benissimo, diciamo allora una buona merda che non puzza, anzi aromatizzata nelle varianti Coty, Koeln, Chalimar.


L’arguzia di Orlando mi fece esplodere in una risata: Ricordi le grottesche parate verso le chiese della buona società in ghingheri che si svolgevano tutte le domeniche mattina nelle vie del centro, prima che tutti noi sfollassimo, abbandonando la città e la cattiva società al castigo dei bombardamenti? Prima delle dieci il centro formicolava di signori e signore che marciavano impettiti verso i riti festivi, con noi, i figli, dietro di loro, trattati come valigie al seguito. Uno scenario elegante e ordinato, in cui i borghesi, a gruppi famigliari recitavano i loro ruoli pubblici nelle strade silenziose, tra le quinte dei palazzi storici. Perfetto scenario architettonico e incubo sociale. Piccoli e grandi, antichi e no, i palazzi in città hanno il cognome, della famiglia che li costruì o della famiglia che li possiede. Non esiste anonimato in una città di provincia, né per gli abitanti né per le case nelle strade. Un individuo cammina per i fatti suoi ma è circondato da facciate con cognomi che rimandano a facce, storie, nascite, vite e morti private di cui tutti sanno tutto e parlano e pettegolano senza fine. Ti puoi concentrare sui tuoi pensieri o sui tuoi sogni, ma non sei mai solo e isolato, bensì procedi avvolto dalle reti della famiglia e delle sue relazioni, che portano ad altre famiglie e relazioni in una matassa aggrovigliata, stringente e soffocante. Io non sono “io e basta” ma il figlio di.. e di.. i quali sono.. e imparentati a.. e non sono.. e soprattutto possiedono.. In questa ottica la città diventa una schedatura architettonica, un labirinto materiale e mentale, un archivio-prigione, un incubo che la domenica mattina si materializza in una commedia collettiva e corale. Gli abitanti dei palazzi escono, s’incrociano, animano le strade, diretti verso le chiese, verso le messe dei ricchi nella tarda mattinata e, dopo, verso la rivalsa pagana nelle pasticcerie. Io, per esempio, alle 9.40 esatte, marciavo con i miei alti e eterei genitori, anzi in mezzo a loro, come un brigante tra due carabinieri in alta uniforme, le mie mani serrate nelle loro, quasi volessi fuggire (infatti, avrei voluto). Dopo sei minuti, registrati al solito angolo da Max, incontravamo puntuali i Duomini, con i due genitori in marziale avanguardia, e dietro in ordine di altezza gli otto figli, vestiti alla marinara, quelli lì che al massimo nuotavano nel Trebbia.

Alle 9,45 interloquì Orlando, noi uscivamo dal palazzo di famiglia dietro ai genitori, insolitamente a braccetto, scambiandoci gomitate e insulti con Rolando e le due sorelle, vestite da suorine. Incrociando altre famiglie, i signori si scappellavano e a voce alta si scambiavano saluti, mentre le signore attendevano di essere vicine per abbracciarsi e baciarsi, tra squittii, complimenti e rapide rassegne dei rispettivi figli e figlie: “Ma come sono belli, tutti vestiti uguali.” “Anche i suoi sono meravigliosi. Come sono cresciuti! E le bimbe, delle principesse.” E noi, figli e figlie, a far coro muto, con sguardi famelici verso le ragazze più attraenti e feroci tra maschi, contrapposti da rivalità ormonali. Infine lo scambio di saluti, concluso inevitabilmente dai signori con una formula tutta da ridere:Tante cose. E noi insieme ghignavamo, mimando in vari toni, dal grazioso al lezioso, al severo, all’interrogativo, al sarcastico: Tante cose. Taante coose. Che mai significava quella espressione generica e assurda? Mi frullava il dubbio che fosse una confessione di complicità tra avari e taccagni. Cose per roba, grano, gioielli, monete, soldi. L’accento cade sul plurale: tante, tantissime cose. Un indice di quantità, abbondanza, dovizia. Tante, tante, ancora, ancora. All'insegna dell'ingordigia, di un’inesauribile insaziabile bramosia. Io non userei mai quell’espressione, oppure, se ne fossi costretto, l’aggettiverei, calibrandola sulla persona o sull’occasione. Potrei dire: “Tante belle cose al mio sogno d’amore, tante cose puzzolenti a quel cafone di Gian Paolo, tante cose marce all’ipocrita notaio fascista, tante cose meravigliose alla zia Telma. Si trattava di uno spettacolo mondano in tre atti: l’antefatto nelle strade e nella piazza, la messa con la dovuta comunione nel tempio e la conclusione famelica, l’acme peccaminosa e pagana nelle pasticcerie, dove tutti, grandi e piccoli, ciascuno concentrato sulla propria ingordigia, si affollavano alla ricerca di voluttuosi bignè, cannoli, meringhe, marzapane, cioccolati, panne montate. Alla faccia delle proibizioni fasciste. Il paese di Cuccagna. Finalmente liberi, finalmente sinceri, finalmente soddisfatti, qui ogni nucleo familiare si scioglieva e ognuno era solo con il suo oggetto del desiderio da scegliere e godere morso dopo morso, senza ritegno, tra mugolii di piacere, incurante di schizzi di creme o zabaglioni, briciole e spolveri di zucchero. (sito raccomandato: nellovegezzi.net).