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Piacenza ai tempi di Giulio Alberoni


di Massimo Solari

Giulio Alberoni (1664-1752) cosa sappiamo di lui? La maggior parte di noi (fino a poco fa anche chi scrive) conosce la via, la scuola elementare e il collegio di San Lazzaro, tutti e tre accomunati da quel nome. Qualcuno, avendone visto qualche ritratto, sa anche che era un cardinale del ‘700. Probabilmente, invece, è il più grande piacentino che sia mai vissuto, colui che, partendo dal nulla, è arrivato più lontano: un self made men di tre secoli fa. Inutile pensare di “farla lunga”; uno studioso piacentino (Padre Rossi) ha scritto quattro volumi di quasi mille pagine l’uno sull’Alberoni. Chi mai riuscirà ad eguagliarlo? Giulio Alberoni, nato nel 1664 a Piacenza, nei pressi del Cantone del Cristo, diventa sacerdote, poi inviato del duca di Parma presso il duca di Vendôme, comandante dell’esercito francese. Il Vendôme se lo porta in Francia e in Spagna, dove l’Alberoni diventa conte e ambasciatore di Parma. Riesce a far maritare il re di Spagna, Filippo V, con l’erede di Parma, Elisabetta Farnese, entrando così nelle grazie dei sovrani iberici. Diventa così loro primo ministro, vescovo di Malaga e di Siviglia e cardinale di Santa Romana Chiesa. Il suo governo durerà solo pochi anni perché Alberoni cadrà presto in disgrazia e verrà esiliato, nonostante avesse riformato interamente lo stato e l’economia.


Cardinale Giulio Alberoni - Xilografia del 1887

Tornato in Italia, subirà un processo presso la corte papale, dal quale verrà assolto. Riabilitato, i papi lo nomineranno prima legato (governatore) delle Romagne e poi di Bologna. Negli ultimi anni della sua vita, tornato a Piacenza, dedicherà tutte le sue energie alla costruzione del collegio di San Lazzaro che poi prenderà il suo nome e che gli sopravvive. Morirà sereno, a 88 anni, nel suo palazzo di fronte a San Savino. Inutile nascondere, a questo punto, che sto predisponendo una biografia alberoniana, dalla quale traggo una descrizione di Piacenza al momento della nascita di Giulio Alberoni, la seconda metà del Seicento. Prima di tutto, com’era Piacenza in quella seconda metà del Seicento? Dal 1646 al 1694 sul ducato di Parma e Piacenza regna Ranuccio II Farnese (da non confondersi col nonno, Ranuccio I, figlio di Alessandro, i due Farnese immortalati nei Cavalli della nostra Piazza).
Se per altre nazioni il Seicento sarà ricordato come il secolo d’oro, le condizioni dell’Italia erano invece misere: divisa tra Spagna (il meridione, il milanese), Stato della Chiesa (centro Italia) e vari piccoli potentati (Venezia, Mantova, Parma, Repubblica di Genova, Ducato di Savoia), la nostra penisola era uscita solo da poco (1648-pace di Westfalia) dalle devastazioni della “guerra dei trent’anni”. Il periodo è grosso modo quello descritto da Manzoni nei Promessi Sposi; le nostre contrade erano percorse da truppe straniere, soprattutto spagnole e francesi, ancora in conflitto tra loro e la nostra economia, legata alle sorti spagnole, soffriva dello stesso declino della Spagna. Il Seicento italiano fu anche il periodo del trionfo del barocco, di Galileo Galilei, di Antonio Vivaldi, di Giordano Bruno, di Tommaso Campanella, di Caravaggio, di Borromini e di Bernini. Quando nasce Alberoni, Bernini sta realizzando la spettacolare Cattedra di San Pietro in Vaticano mentre il Borromini sta ultimando la chiesa di Sant’Agnese in Piazza Navona.

Per tornare a noi, la città di Piacenza era limitata al centro storico, che non era molto dissimile dall’attuale; in Piazza Cavalli si ergevano già il Gotico, San Francesco e i Cavalli del Mochi. Mancava solo il Palazzo del Governatore (Lotario Tomba) che sarebbe arrivato ai primi dell’Ottocento. Palazzo Farnese era quasi finito: si stavano giusto rifinendo gli stucchi dei saloni, come erano completi lo Stradone Farnese e la maggior parte dei palazzi nobiliari che ammiriamo ancora oggi. In quegli anni si stavano ultimando il palazzo dei Mercanti (1697), oggi sede del Comune, palazzo Costa in via Roma, palazzo Ferrari (via Carducci, oggi sede della Commissione Tributaria), palazzo Malvicini Fontana di Nibbiano, la nota Cà Nibbiana di via Verdi e il sontuoso e scenografico palazzo Scotti da Sarmato (via S. Siro, di fronte a Sant’Agostino). Era in fase avanzata anche il rifacimento di palazzo Scotti-Marazzani, in via Taverna, che sorge a pochi passi dall’abituro dove nacque Giulio Alberoni. Guardate le coincidenze; ai primi del Settecento il proprietario, Annibale Deodato Scotti, era ambasciatore dei Farnese a Madrid, carica che, di lì a qualche anno, ricoprirà lo stesso Alberoni. È dello stesso periodo palazzo Somaglia, sempre in via Taverna, quasi di fronte all’ospedale, dove più tardi nascerà il cardinale Giulio della Somaglia, che sarà Segretario di Stato di vari pontefici.

Ancora in via Taverna sorgeva Palazzo Barattieri, di origini quattrocentesche ma ampiamente rimaneggiato tra il 1600 e il 1700; insomma, attorno alla modestissima casa dell’Alberoni stavano sorgendo palazzi splendidi, che riflettevano il potere e il denaro dei suoi proprietari. Ma allora, era tutto come oggi? Non proprio; a fianco di quei sontuosi palazzi sorgevano tante casette di mattoni, spesso fatiscenti, attorniate da larghi spazi coltivati ad orti (in uno dei quali esercitava il suo mestiere il padre dell’Alberoni). Anche se in alcuni punti correvano i trottatoi per le ruote delle carrozze, le strade cittadine erano per la maggior parte pantani d’inverno e carraie polverose d’estate. Scarse le fognature, nessuna illuminazione pubblica, che arriverà solo con Napoleone. I mercati settimanali erano simili agli attuali, anche se si svolgevano in Piazza Borgo. Le fiere annuali si svolgevano invece dove oggi sorge il Liceo Classico, in viale Risorgimento. La fiera di Sant’Antonino, attestata dal Medioevo, si teneva già attorno alla basilica del Patrono. Le chiese erano molto più numerose. Oggi, girando per una strada del centro storico, difficilmente riusciamo a non vedere il profilo di una chiesa, eppure abbiamo perso la memoria di San Gaetano, di Sant’Alessandro sul Corso, di Sant’Ulderico e Sant’Ilario in via Garibaldi, di San Martino in borgo in via Sant’Antonino, di San Michele in via Felice Frasi, di Sant’Apollonia, di San Bartolomeo, di San Giuliano e di San Siro nelle vie che ancora portano il loro nome; c’erano anche Sant’Eustachio e San Lorenzo vicino al Tribunale, San Salvatore alla Lupa, San Marco, Santa Maria in Suffredo, Santa Trinità, San Silvestro, San Cristoforo, San Gregorio Magno e San Nicolò dei Cattanei.

Tra il 1667 e il 1681 Domenico Valmagini edificava la chiesa e il convento delle Benedettine, per volere di Ranuccio II che intendeva così celebrare la guarigione della moglie Margherita d’Este. A partire dal 1658 veniva costruito Palazzo Madama (oggi Procura della Repubblica), voluto da Maria dè Medici, moglie di Odoardo I Farnese, per ospitare le duchesse vedove di casa Farnese. Piazza Duomo, compreso il vescovado, era come oggi circondata dai portici, però mancava la colonna della Madonna, che arriverà solo nell’800. L’economia della città era agricola e artigianale, con differenze sociali che si perpetuavano da secoli; i poveri erano sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi, ma non solo: ricchezza faceva rima con nobiltà, perché chi si arricchiva riusciva spesso ad ottenere il titolo nobiliare (è in quel periodo che i Morando, famiglia di mercanti di origine genovese, acquistano il titolo nobiliare e assieme il palazzo di via Romagnosi, oggi sede del Presidio Militare). I puristi la chiamano “nobiltà di censo".


antica cartolina del collegio alberoni

Una volta costruito il Collegio di San Lazzaro, affidato l’insegnamento ai padri della missione, dotato il Collegio medesimo di un immenso patrimonio immobiliare, soprattutto fondiario, Giulio Alberoni, giunto quasi alla fine della sua lunghissima vita (morirà a Piacenza nel 1752 a 88 anni, nel suo palazzo di fronte a San Savino, nella via che oggi ha preso il suo nome) indica con puntiglio tutti i dettagli ai quali dovranno attenersi gli amministratori del suo Collegio: disciplina, orari e programmi delle lezioni, divise da adottare, sanzioni da impartire ai riottosi.. fino al vitto degli allievi: E il vitto? “si darà ogni giorno minestra, antipasto, pietanza, frutti e formaggio. Nei giorni di grasso, a pranzo si darà la minestra, un antipasto, la pietanza di 9 once di carne (due etti e mezzo, quasi una fiorentina!), frutti e formaggio”. La sera si darà la minestra, sei once di carne (170 grammi, non male, quasi mezzo chilo di carne al giorno, se fosse stata tutta carne rossa, i collegiali sarebbero stati tutti candidati a morire di gotta), o arrosto o stufato o in polpette o in altro modo. “La carne sarà di manzo, di vitello, di castrato, di porco fresco a suo tempo, d’agnello o capretto..” E se la carne fosse pollame? “Se saranno capponi, un quarto a testa, se pollastri, mezzo, oppure un piccione torreggiano intero”. Alberoni non demorde, forse nel ricordo dei manicaretti ammanniti al Vendôme, che gli aprirono la carriera, precisa col puntiglio di un gourmet: “le minestre saranno alternativamente: pasta, riso, farro, pane cotto o grattugiato, oppure di cavoli, rape, gambusi, zucche, zucchini, cipolle o altra verdura secondo le stagioni”.

Le minestre di verdura dovevano essere un must del Collegio, perché chi visita il refettorio a distanza di secoli ne sente ancora aleggiare il profumo. Una bella sorpresa? “La minestra d’anolini si darà il giorno di Natale!” e a chi dovesse chiedere se il Cardinale ha precisato il ripieno, di carne brasata, alla piacentina o di formaggio, alla parmigiana, in ricordo dei duchi Farnese, mi sentirei di tutto cuore di rispondere: non scherziamo neppure! Ma facendo passare i menu, si resta sorpresi dalla varietà e dalle quantità (“vino in misura limitata, pane a discrezione” - qui, secondo me, Alberoni ricordava la sete insaziabile della sua regina parmigiana, Elisabetta, alla quale doveva annacquare il vino) e dalla raffinatezza dei piatti: si va dalle torte salate (“torta d’erbe”) ai tortelli conditi con butirro e formaggio (“una buona lombarda impastata di butirro e di formaggio” era la sua definizione sempre di Elisabetta Farnese), ai malfatti, ai ravioli, alle braciole di porco, frittelle, salame cotto, salsiccia, lombo, zucchini ripieni, coradella fritta, testa di vitello fritta. Nelle feste comandate il pasto finiva con la ciambella; per concludere, Giulio Alberoni stabiliva che i pesci che si potevano mangiare in Quaresima erano “merluzzo, aringhe, salmone, pesce marinato di Comacchio (anguilla, un piatto da Re) e caviale”. Più che “Auxilium a Domino” (aiuto dal Signore) il motto del Collegio avrebbe dovuto essere Domine, adjuva! “Signore, aiuto!” oppure “Pancia mia, fatti capanna”! (Testo dalla rivista l'Urtiga per gentile concessione di LIR edizioni).


ecce homo 1473-76 di antonello da messina

Ecce Homo. Vera perla della collezione artistica del Cardinale Alberoni è l’Ecce Homo di Antonello da Messina, preziosissimo capolavoro tra i più intensi e drammatici di uno dei maggiori artisti della pittura occidentale. A questo gioiello artistico è dedicata la terza sala dell’appartamento del cardinale. La preziosissima tavola fa parte del lascito del cardinale Giulio Alberoni (1664-1752) al Collegio da lui fondato a Piacenza nel 1752.
Fu quasi sicuramente acquisito dal cardinale a Roma intorno al 1725, insieme agli arredi di Palazzo Lana Buratti, situato nel Rione Trevi, presso la chiesa degli Angeli Custodi. Una volta entrato in possesso dell’Alberoni, si possono seguire con precisione le vicende del dipinto che è registrato in un inventario del palazzo risalente al 1735 come "opera dell’antico Antonelli", e poi ancora in quello del 1753, steso un anno dopo la morte del cardinale. Nel 1761, l’opera venne trasferita a Piacenza dove, da allora, è sempre stata conservata. Il quadro fu riscoperto all’inizio del Novecento e sottoposto all’attenzione degli studiosi; da allora è sempre stato giustamente considerato come uno dei più alti capolavori del grande pittore messinese.