penna

il lèingav cattiv a l'òsteria


A la fèsta dop disnà
quand a ghè un po' 'd libertà,
l'è un bel pezz ag'gho l'usanza
d'andà teu la pardonanza,
pr'arpòssam dill tant fadigh
ad dla stmana con j'amigh.
Quand ad catt òn nostranèin
bell ciàreutt,ca vaga bein,
propi 'd quell ca fa pissà
av digh subit l'avrità,
agh dòm dèintar darasòn
tracannum òn qualche litròn.
Gh'è Tognass, Carlon, Pillègar
quì enn tri omm allègar !
Gh'è Giovann, a gh'è Tanòn
con Luig e Pasqualon,
quattar fazi d'antiquàri
'd quì ch'ass veudda pr'i lunàri.
Gh'è Felis òn gesuitta
ch'guarda seimpr'a mezza vitta,
ag sum me, pò gh'è Salmèin
e Viseins con Lisandrèin.
A formòm csè la douzèina
tutt amant ad la cantèina
as cicciarra un po' dal tutt,
as dascòrra 'd bell e 'd brutt
quarca vota 's tàia i pagn
anch'addoss i noss còmpagn.
Cma dsòm noi bon piasintèin:
gh'è dill leingav tant ladèin
ch'tajan peu che sizòr fein.

le lingue cattive all'osteria

Nelle giornate di festa dopo pranzo
quando c'è un po' di libertà
e da un bel pò di tempo che ho l'usanza
di andare a prendere la perdonanza (il perdono)
per riposarmi dalle fatiche
della settimana con gli amici.
Quando trovo un nostranello (vino bianco poco alcolico)
bello chiaro che vada bene,
proprio di quello che fà fare pipì
vi dico subito la verità
ci diamo dentro parecchio
ne tracanniamo (beviamo) un qualche litro.
Ci sono Antonio, Carlone, Pellegri,
che sono tre uomini allegri !
C'è Giovanni, c'è Gaetano
con Luigi e Pasqualone
quattro facce da antiquariato
di quelle che si vedono sui calendari.
C'è Felice un frate gesuita
che guarda sempre a mezza vita (in basso)
ci sono io, poi c'è Anselmino
e Vincenzo con Alessandro.
Formiamo così la dozzina
tutti amanti della cantina
si chiacchiera un po' di tutto
si discorre delle cose belle e delle brutte
qualche volta si fanno i vestiti (si pettegola)
anche addosso ai nostri amici.
Come diciamo noi da buoni piacentini
ci sono delle lingue talmente affilate
che tagliano di più che buone forbici.


Occorre dire che molte delle vecchie poesie dialettali hanno come sfondo l'osteria. Questo era forse l'unico posto, dove la gente del popolo, poteva riunirsi allegramente o discutere dei problemi quotidiani. Ma era anche il luogo ideale per fare pettegolezzi, come si dice in dialetto "fà la giacca o al vistì addos ajàtar" (fare la giacca o il vestito addosso agli altri) a secondo della durata del discorso. All'osteria ci si recava dopo la dura giornata di lavoro, prima di cena oppure nelle giornate festive, ed era usanza dire che si andava in questi locali a ricevere "la pardònansa" ovvero il perdono. L’oste infatti, secondo il rito bacchico, assolveva i peccatori e dispensava loro l'elemento per la redenzione cioè il vino. Questo poteva essere rosso, bevuto rigorosamente nello scodellino di ceramica per constatarne la bontà (infatti a seconda della macchie che il vino lasciava sulle sue pareti, si capiva se questo era di ottima qualità, oppure come spesso accadeva, il succo d'uva veniva tagliato con della volgare acqua dal padrone della taverna). Il bianco invece veniva degustato nel classico bicchiere di vetro per poterne ammirare la trasparenza. A seconda del numero dei compagni bevitori o della disponibilità economica, il vino veniva ordinato all'oste in queste quantità: un bùcal (circa un litro e mezzo) era un recipiente di terracotta con il manico e il beccuccio, un litar, nel classico contenitore di vetro con il collo stretto e la bocca svasata, la peinta (corrispndeva come capacità ad una bottiglia da 3/4 di litro), al mez (0,50 cl) ed infine al quartei (0,25 cl). Per i grandi bevitori c'èra anche la possibilità di comandare: un piston, un buccion (Bottiglione) oppure un fiaschòtt (fiaschetto). (brano di un racconto poetico di Agostino Marchesotti 1888).