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Cantarana e Tigrai, la Mano del Ventennio

di Cesare Zilocchi


L’etimologia di Cantarana sembra non lasciare adito a dubbi. Porta subito al gracidare dei batraci nel Fodesta e nei pigri canaletti derivati, durante le umide calure delle notti estive. Eppure uno spazio all’approfondimento di altre ipotesi andrebbe lasciato. Questo insediamento era nato come ritrovo invernale di alcuni montanari, probabilmente provenienti da Cattaragna, dove, per attestazione del capitano Antonio Boccia, geografo napoleonico: tutte le case sono abbandonate nell’autunno e le famiglie trasferite a Piacenza si guadagnano il vitto con le loro fatiche (1805). Cantarana non ebbe mai (e non ha) una sua chiesa. Non si affacciava (e non si affaccia) su nessuna strada principale. Ancora a metà ‘800, la contrada si protendeva (con andamento parallelo a via Campagna) fra orti e ragguardevoli campi nella porzione di città, vagamente triangolare, estesa dagli edifici retrostanti le strade di Campagna e di San Bartolomeo, fino alle mura.

Ai lati della strada, le povere case si stringevano, si costipavano, attente a non sottrarre un metro più del necessario alla terra. Nei campi si coltivava la melica, il frumento e l’erba da foraggio per i cavalli da lavoro, ma anche per le bovine da latte che trovavano posto nelle tre stalle della borgata. Dagli orti si ricavava il necessario per la zuppa quotidiana: cipolle, cardi, cicorie, sedani, carote, fagioli, fave, rape, zucche, pomidoro e “pomi da terra”, rafani, romolacci e petronciane (melanzane). Il Po integrava la dieta col pesce fresco, che nelle non rare esondazioni il fiume portava persino a domicilio. Pochi soldi servivano per il vino e il pesce salato (saracche). Dopo l’unità d’Italia crebbero i mestieri urbani e anche Cantarana si popolò di carrettieri, fornaciai, conciatori, lattonieri, ciabattini, bottonai, operai cotonieri. A differenza che nel Borghetto, qui fu minore la vocazione commerciale, probabilmente per la mancanza di un importante asse viario di attraversamento.


cantarana oggi con i palazzi del “Ciano” realizzati negli anni 30

Scrivono Pantaleoni e Romagnoli nel loro “Piacenza popolaresca delle vecchie borgate” che Cantarana non aveva botteghe né negozi d’alcun genere. Era tutta case, orti, cortili, muriccioli di vicoli. la sua economia era prevalentemente ortofrutticola, l’artigianato essendo un’attività di vaga trasparenza. Famosa la cosiddetta “compagnia dei mamma non piangere”, ovvero poveri giovanotti disposti a lavori tanto umili quanto saltuari. Da ricordare una attività di nessuna trasparenza, all’epoca rigorosamente notturna: lo spurgo dei pozzi neri. Non per caso una notissima impresa di autospurghi ebbe i suoi primordi in Cantarana. Altro impiego dei “mamma non piangere” fu lo scavo del rivo urbano detto -non a caso- “canale della fame”.

Nel recente dopoguerra la contrada attestava ancora il suo punto di frontiera nella famosa osteria della Graziosa, all’angolo con via San Bartolomeo (una seconda osteria, di minor fama, stava nel cantone San Sepolcro). L’Ort dal Müt, ultimo cuore verde della borgata, aveva invece già lasciato il posto al complesso edilizio “Costanzo Ciano”, inaugurato con pompa di regime il 28 ottobre 1939. Quel giorno fu indubbiamente inferto un duro colpo alla Piacenza romantica delle vecchie borgate ma al tempo stesso i quattordici nuovi edifici, capaci di ospitare ben trecento famiglie, apparvero a tutti come un passo importante nel risanamento urbano e nella lotta alla tubercolosi. Del resto un “Progetto d’atterramento del quartiere di Cantarana” era stato proposto all’amministrazione comunale dalla Società dei Negozianti e Industriali nell’anno 1880.


disegno dell’epoca del palazzo per 52 alloggi che divenne il “Tigrai”

Le quarantuno fatiscenti casupole a due piani, nella descrizione dell’ing. Manfredi, presentavano identiche, squallide caratteristiche: a pian terreno le stanze sono vere ghiacciaie, la marcia umidità dei muri misurasi attualmente da larghe lastre di ghiaccio d’inverno e nell’estate da abbondanti efflorescenze saline del nitro. In una scafa del muro il camino funziona da affumicatore perenne quando il fuoco vi è acceso, e da gelido ventilatore oggi che la legna costa e il fuoco tace. Sulle nere pareti piove dalle malchiuse finestre una luce scialba e triste.. Pressoché coevo del quartiere Costanzo Ciano è il cosiddetto “Tigrai”, grande edificio capace di 52 alloggi destinati ad altrettante famiglie indigenti, incapaci di pagare una pur modesta pigione. Come gli venne il nome non sappiamo. Forse si alludeva a una sorta di terra di nessuno, come il Tigré o Tigrai, né Etiopia né Eritrea. L’impero coloniale negli anni ‘30 faceva tendenza nel sarcasmo del parlar quotidiano. Ad ogni buon conto la denominazione restò in vigore nel linguaggio popolare, ma anche nei documenti ufficiali dell’Istituto Autonomo Case Popolari, fino ai recenti anni ‘80 (oggi l’Istituto proprietario ha cambiato nome). Durante la presidenza del geom. Cristalli l’istituto decise una ristrutturazione del fatiscente edificio, in regime di edilizia convenzionata. Con quattro miliardi (lire) di spesa il vecchio Tigrai -civico 64 di via XXI Aprile- divenne un edificio decoroso (a equo canone), persino bello, arricchito di pertinenze verdi acquistate dal demanio statale. (testo dalla rivista l'Urtiga per gentile concessione di LIR edizioni).