penna

le Baracche di Don Aberto

di giorgio vecchi
ghé in campagna un bräv cüratt..


Tra i frequentatori del vecchio Roma c’era un sacerdote assai popolare presso gli habitué. Si chiamava Alberto ed era parroco di un paesino sperduto tra le montagne dell’appennino piacentino. Era il classico prete di campagna leggermente corpulento, dal viso sanguigno, con i grigi capelli perennemente arruffati, il cui aspetto generale non era dissimile da quello dei rozzi contadini suoi parrocchiani. Insomma un tipo alla don Camillo. Talvolta appariva burbero e un pò scostante con gli estranei ma mi risulta che fosse un uomo buono e di gran cuore che viveva poveramente in quella sua parrocchia di vecchi montanari e anziane donne timorate. La sua tonaca era perennemente unta e sdrucita, segno che o non aveva perpetua che lo accudisse o che costei, se esisteva, non fosse molto scrupolosa nel tenerlo in ordine.

Si diceva anche che lo avessero assegnato a quel luogo abbandonato da Dio per punirlo di non so quale peccato commesso. Oggi posso immaginare fosse qualcosa che aveva a che vedere con le due grandi passioni o debolezze di quel singolare sacerdote: il vino e la buona tavola. So che quando calava dai suoi monti in città veniva immancabilmente al Roma ove il gruppo dei pëssgatt gli tributava onori degni di un prelato. Veniva approntata una tavolata nella sala B e gli amici si trasformavano lestamente in commensali devoti ed entusiasti. Si trattava per lo più di spuntini a base di salumi e formaggi nostrani sempre annaffiati da robusti vinelli. Durante i saporiti desinari don Alberto soleva intrattenere i commensali per ore raccontando aneddoti e storielle relative al suo gregge, era un narratore formidabile che teneva desta l’attenzione dei presenti con l’arguzia delle sue dotte citazioni e un’abilità descrittiva certo frutto della lunga pratica pastorale. Ad ogni pausa era sua abitudine attingere al bicchiere per rinfrancarsi la voce, così almeno si giustificava Alberto e subito l’allegra combriccola tornava a colmarglielo senza che lui se ne lamentasse. Amava i vini piacentini ma non rifiutava nemmeno quelli d’altre zone.

Aveva una speciale predilezione per quelli piemontesi forti e corposi. Quando mio padre gli offriva i mosti dell’Oltrepò li apprezzava dicendo che erano appunto prodotti dell’Antico Piemonte, come un tempo si definiva la terra a sud di Pavia. Man mano che procedeva nei suoi racconti e, a compendio, nelle corrispondenti bevutine la voce di Alberto perdeva il suo timbro squillante e assumeva tonalità più profonde, il ritmo si allentava e il brav’uomo cominciava ad accusare i primi sintomi della crisi etilica. Gli amici che se ne avvedevano invece di togliergli il bicchiere seguitavano a riempirglielo in attesa di verificarne gli immancabili effetti. Alberto inciampava su certe parole, perdeva il filo della narrazione, la voce gli si faceva sempre più impastata ed era allora che qualcuno dei presenti gli ricordava le sue doti canore e lo pregava di darne un breve saggio. Anche lui come il conte di Corano era convinto di possedere una bella voce di tenore e amava darne prova quando era alticcio. Sicché con il supporto corale dei pëssgatt che mimavano l’orchestra, (l'episodio mi è tornato in mente una sera di molti anni dopo vedendo la celebre sequenza canora del film "Amici miei") iniziava le sue esibizioni, accolte immancabilmente dagli applausi entusiastici del pubblico presente. Cominciava con brani o filastrocche innocenti e scherzose come quella che fa :”E’ nassito lo Bambinello, cullalo, cullalo, caro fratello”, per poi passare a romanze del repertorio operistico.

Ricordo che don Alberto amava in particolare il Rigoletto verdiano laddove il Duca di Mantova intona la romanza "Ella mi fu rapita", (e spesso Gion gli faceva eco sottovoce esclamando “l’era la fiôla dal gôbb”) che lui si piccava di saper rendere al meglio. Ma poi con il progredire dell’ubriacatura il repertorio di don Alberto si faceva più leggero e scurrile ed era quello il momento che tutti i pëssgatt attendevano per intonare unanimemente come fossero degli studentelli scapestrati un canto di sapore goliardico che era divenuto ormai la sigla di quel gruppo di bei soggetti. Ricordo soltanto che s’intitolava “Sül paiòn” e doveva essere di contenuto erotico condito da alcune allusioni blasfeme perché ad un certo punto così concludeva “requiem aeternam, cosi sia”. Era uno spettacolo grottesco e insieme irresistibilmente comico vedere don Alberto scatenato nel canto con gli amici che ripetevano in unanime coro “Sul paiòn, sul paiòn”. A quel punto di solito interveniva mio padre che non amava quelle esibizioni e temeva che gli amici si spingessero troppo oltre nella rappresentazione come successe una volta che quasi riuscirono a far spogliare nudo il poveretto. Il quale a quel punto non essendo più presentabile né in grado di prendere la corriera che lo avrebbe riportato ai suoi monti venne sistemato da papà in una delle camere disponibili dell’hotel finché la crisi non gli fosse passata. (al solit profesur).