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Storia della Chiesa-Teatro San Matteo


L'origine della chiesa di San Matteo risale all'inizio del XII secolo. L'edificio è un valido esempio di “chiesa minore” posta in Vicolo San Matteo 8, che è un collegamento tra le vie Taverna e Castello. Il toponimo è tra i più antichi della città: deriva dalla chiesa di San Matteo (o, come usavasi dire in passato, San Maffeo, costruita sui resti di un tempietto proto romanico) che prospetta sul vicolo e che affonda le proprie radici storiche nei secoli seguenti il Mille. Siamo all'inizio del Duecento. La chiesa di San Matteo costruita come chiesa ospedaliera sul percorso della Via Francigena ed aggregata in seguito al monastero di San Bernardo, ha una data di fondazione ben determinata da due epigrafi, riferite dal Campi, e forse ancora esistenti in essa chiesa, e risale appunto all'anno 1106. Presso le chiese non mancavano mai gli ospedali; ed uno non ne mancava presso San Matteo, esso era situato di fronte all'ingresso principale, posto sul vicolo San Matteo. Questo ospedale, successivamente incorporato nel monastero di San Bernardo, occupava tutta l'area attualmente utilizzata dalla caserma della polizia stradale, ed era strutturato su un grande chiostro porticato rimaneggiato nel 1700; comprendeva un passaggio coperto e diverse aggregazioni di servizio, ancora sostanzialmente riconoscibili nel contesto dei fabbricati esistenti. L'atto di fondazione, o di una larga donazione, ricopiato dal Campi (I.526) è documento notevolissimo sotto molteplici rispetti.


veduta della sala

Essendo stato di quei dì scoperto il corpo dell'evangelista Matteo e trasferito con solenne onoranze in Salerno ad opera di Roberto Guiscardo, erasi dapertutto avvivato il culto del medesimo; e in Piacenza, del 1106, ricorda lo storico ecclesiastico P. M. Campi, è la donazione di un certo Paganum Muglanum figliuolo di Madalelmo (lo stesso di cui male fu ripetuto il nome dal restauratore Locatelli) che, con la moglie Imelda (quondam Amazonis), diè opera nell'indicato anno ad erigere un tempio al Santo.

Questi dichiarano; professi sumus ex natione nostra lege longobarda vivere. Ipso namque iugali meo -soggiunge la donna- et mundoaldo mihi consentiente, et subter confirmante et iuxta legem eiusdem viri mei.. E poi; certam facio professionem nullam me pati violentiam a quopiam homine, nec ab ipso jugali et mundoaldo meo.

Si chiamò pel rogito un Bonvicino notaro in Burgo Civitatis Placentia ed era il giorno primo di agosto mille cento sei. All'atto si vollero presenti (e questo è osservabilissimo per le deduzioni che se ne traggono) i più prossimi parenti; hij sunt Gezo (Gezone) Columbus, et Borningus-nepotes mei (dice Imelda probabilmente anch'essa una Colombo) e ciò ha fatto pensare a Giuseppe Nasalli che probabilmente anche la moglie del Muglano fosse una Colombo. Di tale famiglia, tanto benemerita, dell'ospedale annesso a San Matteo, era patronale, gentilizia, la prima cappella a destra di chi entra dalla porta maggiore. Ciò dà origine ad una ardita congettura! Fernando, figlio dello scopritore dell'America lasciò scritto che dopo la morte del padre proponevasi di visitare l'Italia alla ricerca dei luoghi dove esistevano stemmi di famiglia (in Genova, in Cogoleto e nel piacentino) i luoghi ricordevoli dei propri antenati; asseriva che in Piacenza esistevano stemmi di sua famiglia (Fernandus Col: Historia Indiarum 1). E' facile comprendere come alcuni abbiano pensato a San Matteo, dove esisteva una cappella gentilizia riservata agli antichi benefattori, uniti da vincoli di parentela col grande navigatore. A questo proposito non va dimenticato che i reali di Spagna nel concedere a Colombo la facoltà di fregiarsi di uno stemma nobiliare, lo avevano autorizzato ad inserirvi l'arma della famiglia Colombo di Piacenza; fascia azzurra in campo d'oro col capo cucito di rosso.


stemma arma della famiglia colombo di piacenza

Perchè mai, in un'epoca in cui alle indicazioni araldiche si attribuiva grande importanza, sarebbe stato concesso ad un individuo di utilizzare l’arma di una famiglia che gli era estranea? L'indicata cappella è dedicata al Crocifisso e pure al Crocifisso -osserva il commendatore Agnelli- è dedicata una cappella dei Colombo in San Bernardino di Bettola. Dalle domestiche tradizioni non sarebbe derivato nel grande Cristoforo il culto speciale verso la Croce di Cristo dal quale prendeva il nome? La Croce non inalberava egli in ogni approdo nelle terre da lui scoperte? Nella indicata cappella vedesi -dice l'Agnelli (op.cit.p.51) “una sepoltura chiusa da rozza ed antica pietra sulla quale si distinguono le tracce di uno scudo con stemma che vi era scolpito, e ai quattro lati diverse parole che io non ho saputo leggere”. La chiesa è infatti al centro di una lunga controversia relativa alle supposte origini piacentine dello scopritore del Nuovo Continente.

Nel 1170 la chiesa era governata da un priore e da due o tre frati agostiniani. Ritornando alla storia: nel 1145 presso San Matteo, erasi istituito un priorato dipendente da Santa Croce di Mortara tenuto da Canonici Regolari Lateranensi (Camp, I, 376). Nel 1185 nella detta chiesa parrocchiale aveva portato in dono preziose reliquie un divoto, un fra Bonifacio da Piacenza dell'ordine degli agostiniani (Campi, II, 64) il quale gelosamente le nascose, intorno alle quali è da leggere una curiosa discussione del Campi, (Hist. III, 64). Nel 1208 il priorato dell'ospedale venne assoggettato a Leonardo Rozzo o Rozzi, che ne era il padrone, il quale nominò il ministro, cioè l'amministratore, per un più efficace controllo sui beni dell'ospedale che si assottigliavano in modo non sempre convincente. Nel 1302 l'annesso ospedale si avvalse dell'aiuto di una comunità di religiose. Nel 1325 scopertosi il segreto ripostiglio, le reliquie furono di nuovo nascoste. Al lato destro di chi entra dalla porta maggiore della chiesa si trova infissa una lapide a bei caratteri del secolo XVI. Vi si legge;

D.O.M. Philippo Jacomino Tebalduccio
Malespinio Patricio Florentin
Qui Obiit Anno MDLXXX
VI Non Martii
Antonius Filius P.C.
Anno MVXCVI.

Sarebbe costui il Tebalducci che Pier Luigi condusse seco nel nuovo ducato con Annibal Caro, col Pico, col Filareto, facendosi corona di uomini egregi? Nella parete sinistra, dice la Guida Novissima di G. Buttafuoco, “è una tavola antica sopra un confessionale, dipinta da mano ignota e rappresenta la SS. Trinità che incorona Maria Vergine. Lo stemma, che vi è dipinto sopra dell'antica famiglia Cornazzano, induce a credere, o che la tavola appartenesse a questa famiglia, o che alcuno di essa l'avesse fatta pitturare a sue spese”. Chi scrive udì pure lodare una scultura in legno di qualche pregio. La chiesa era in origine a tre navate, probabilmente, coperte da capriate in vista. Nell'ottobre del 1471, Papa Sisto IV, con la bolla “Ad ea ex apostolicae servitutis officio” confermava la soppressione di tutti gli ospedali di Piacenza, già attuata dal vescovo Giovanni Campesio nell'aprile precedente. Scomparivano i numerosi ospedaletti e al loro posto sorgeva un unico complesso destinato, pur con varie modifiche, a giungere fino ai nostri giorni. Tra le “vittime”, l'ospizio di San Matteo di cui resta la chiesa, nella via omonima, confinante col complesso monastico-ospedaliero di San Bernardo.


veduta facciata del teatro

E' la zona inclusa tra via Taverna e via del Castello, una zona che giustifica ampiamente la definizione di Piacenza come città di conventi, di chiese e di caserme. San Matteo, ora teatro, ha alle sue spalle un passato illustre, per quanto ovviamente lo può permettere una chiesa minore. Parte del merito va anche all'ubicazione: Strà Levata-via Taverna, era uno degli accessi principali alla città. G. Nasalli, ad esempio, così ricorda il passaggio di Pio VII: “Giunse alle due e tre quarti dopo la mezzanotte. Pioveva, ma Strà levata luccicava di fuochi. Una ventina di carrozze e gente con torce fin dalla Trebbia seguitava il Santo Padre, a cui i parroci di San Nazaro e di San Matteo, dinanzi alle porte delle loro chiese, offrorono l'incenso". (Per le vie di Piacenza, p. 253). Ai tempi di Campi (Hist. Eccles. I, 3) sovra il quart'arco della volta leggevansi (leggonsi tuttora ?) le seguenti parole; Hoc templum aedificatum fuit per Paganum Muglanum (erroneamente vi fu scritto Mulganum) 1106, deinde restauratum et voltatum fuit per D. Petrum Locatellum 1510. La chiesa fu restaurata nel 1510 a spese del Priore Pietro Locatelli, rifacendo alcune parti cadenti per vetustà e sostituendo le originarie capriate di legno in vista con volte in muratura. Anzi si può dire che a questo puramente si riducono i restauri o rifacimenti del secolo XV alle chiese vicine al mille. Dal Campi sono pure ricopiati i seguenti distici che vedevansi (vedonsi?) al lato destro del finestrone.

Paganus sacram Mulganus (!) condidit aedem
Hanc, fore Matthei maluit et titulum.
Milleque centenis et sex currentibus annis
Hoc fuit: hoc tempus ordine, lector habes.
Petrus deinde prior Locatellus pondere fixit
Falcata, ut cernis, nunc opus egregium

L'altra è sopra il quarto arco verso settentrione: Hoc templum aedificatum fuit per Paganum Mulganum 1106, deinde restauratum et voltatum fuit per Ven. D. Petrum Locatellum Priorem 1510. Per verità, l'ammirazione dei posteri per l'opera egregia del Locatelli deve restringersi all'avere egli tenuto in piedi l'edifizio affinchè non cascasse addosso ai frequentatori. La posterità, di adesso, non può ringraziarlo di averne mutata la forma. Ah, se i Locatelli di tutte le età si fossero appagati soltanto di conservare ciò che pretendevano invece di abbellire, quanta copia maggiore di monumenti preziosi per l'arte e per la storia ora si ammirerebbe! Stante la scialbatura applicata all'interno dell'edificio e a parte dell'esterno, non appare a prima vista l'epoca antichissima della sua fondazione.

Della chiesa, antichissima, (chi sa quante altre trasformazioni avrà subito) pare che rimangano alcune vestigie. Sulla porta laterale nell'angiporto verso la via sant'Antonio scorgesi una arcaica scoltura raffigurante un soggetto mistico di tradizione paleocristiana in pietra arenaria m. 0,34 x 2,04) rappresentante un agnello, simbolo del Redentore, con una croce sul dorso. e così l'architrave della porta laterale nell'angiporto verso strada sant'Antonio, (Via Taverna, 32) che porta scolpito a rilievo un agnello (simbolo del Redentore) che tiene colla zampa destra una croce appoggiandola al dorso, e sta entro un'arcata sostenuta da due colonnette, avendo ai lati sei figure inginocchiate in atto di adorazione. In essa leggevansi i seguenti versi, ora consunti, conservatici dal Campi. Nella parte superiore: Quam draco fraude dedit, mortem pius agnus ademit. E sotto: Unde propago fuit prior, Agnus ad astra duxit. Letta poi (1810) dall'Anguissola (che legge Atria invece di Astra), quindi G. Nasalli Rocca (1896).


questa scoltura è degna d'osservazione come la più antica
che si abbia nella città, essendo essa precedente di parecchi
lustri a quelle di Sant'Ilario e del Duomo

Vi si riscontra nel disegno quel fare rozzo e trascurato, e nell'atteggiamento delle figure quella goffaggine e sproporzione che caratterizzano l'arte di quei dì; ma pur anche qualche accenno ad un graduale miglioramento. Non fosse che per questa scultura la chiesa di San Matteo merita di occupare un posto distinto nelle memorie artistiche locali. Nella cornice poi della porta principale stà incastrata un'antica pietra in forma di un disco che reca scolpita una mano con due dita tese in atto di benedire ed intorno il seguente verso: Dextra Dei coelum, totum benedicat et evum. Al di sopra sono questi due altri: Sit pax intranti, sit gratia digna precanti. Janua sum vite benedicti quique venite.

E inferiormente questo: Eia vos ite set per me queso redite. Questa parte e tutta la facciata furono deformate verso la fine del secolo XVII con aggiunte e deturpazioni sì che nulla più serbano del loro originario aspetto. La foggia della facciata era probabilmente monocuspidale spezzata, cioè colla parte centrale più elevata delle laterali, divisa dalle lesene in tre campi, e aveva nel mezzo la finestra a ruota di cui scorgesi ancora l'impronta; ad altra particolarità non è dato accennare. Deve notarsi la piccola torre per essere originale nella parte inferiore. L'interno della chiesa è pure di stile basilicale; i piloni sono al solito deformati, e qui pure dovevano essere di sezione circolare. La nave maggiore termina in una grande abside, mentre quelle laterali sono limitate da una semplice parete rettilinea normale al muro d'ambito. Una lapide marmorea posta, il 31 ottobre 1954, sulla facciata dell'edificio adiacente la chiesa, narra che “In questa casa nel 1810 visse prigioniero per non asservire il proprio spirito a giuramento iniquo San Gaspare Del Bufalo fulgido esempio e monito ai posteri che nessuna pur dispotica potenza può rapire la libertà ai veri figli di Dio che nel sacrificio sanno temprare la loro virtù". La chiesa fu destinata al culto fino al 1895 data in cui venne soppressa la parrocchia.


gaspare melchiorre baldassarre del bufalo

Nel Novecento, in particolare tra le due guerre, l'edificio muta radicalmente la propria vocazione e conosce un momento di splendore quando venne trasformato, da Oreste Leonardi in data 15 gennaio 1929, in salone cinematografico (Cinema Verdi). Il “ Verdi “, questo era il nome del nuovo cinema cittadino (appartenente alla preistoria degli schermi nostrani del film muto, ai tempi delle comiche di Charlot, di Ridolini, dei polpettoni epico-storici e melodrammatici venuti dopo il famosissimo “Cabiria” siglato da D'Annunzio, le imprese titaniche di Maciste, il ciclo pionieristico della filmografia western, impersonato da Tom Mix) aveva la sua entrata principale in vicolo San Matteo 8, (ha annotato, in una sua documentata rievocazione della storia degli spettacoli a Piacenza dagli anni '20 ai '40 Giulio Cattivelli). Quel palcoscenico ebbe il suo momento di celebrità ospitando, a poche lire per serata, emuli di Gabrè, lontani precursori di Delia Scala, Rascel e Walter Chiari. Erano personaggi che si producevano sempre in coppia, lui in sparato candido e coda di rondine, solino a punte divaricate, gardenia all'occhiello; lei con la chioma disciplinata da un nastro di velluto, scarpe di vernice nera sopra calze bianche da educanda e indescrivibili abiti a mezz'asta rigidi e luccicanti come i paramenti delle chiese.

Le pudiche soubrettes d'allora danzavano inguainate dal busto alla punta dei piedi in costumi di maglia rosa simulanti il tenero color carnicino. Fra i nomi di gran cartello figuravano, in chiave di moda floreale, quelli di Alberto del Cigno, Olga Celeste, Les Sesi-Poupées, Stella Bonaria e via dicendo. Il duo Oddo-Ferretti lanciò il “koclo”, nuovo tango argentino e i Giglio Fleurs, “duettisti eccentrici” mandavano in sollucchero le platee grigioverdi reclamanti la “mossa”.


ingresso teatro s. matteo ex cinema verdi

Il Verdi ospitava non solo avanspettacolo, ma anche un più impegnativo repertorio di prosa, poi il locale subì una radicale metamorfosi. Non più spettacoli d'arte varia, non più proiezioni di pellicole filmiche, ma languide e voluttuose danze ai ritmi di orchestrine vernacole. Il cinema Verdi mutò, come il serpente, la sua pelle di rustiche iridescenze, diventò l'intimistico Salon Rosa che è un altro capitolo popolaresco legato allo scenario borghigiano di Taverna, ed in data 1 febbraio 1942 esso cessò l'attività. Alla fine degli anni settanta l'immobile pervenne alla mia famiglia che, negli anni 80, fece eseguire un totale restauro, terminato il quale venne inaugurato come “Teatro San Matteo“ il 17 dicembre 1987, con l'Odissea (spettacolo d'ombre diretto da Tonino Conte, con le splendide sagome disegnate da Lele Luzzati e la musica di Franco Persanti). L'attività del Teatro San Matteo si articolò, da allora in poi, intorno a due filoni fondamentali: una programmazione serale di teatro d'autore, comico e di ricerca ed una programmazione diurna per i ragazzi, con spettacoli pomeridiani per le famiglie e la mattina per le scuole.

Il teatro che offre un piccolo spazio, centoquarantadue posti a sedere, ha comunque permesso un contatto sempre più stretto con gli spettatori, contribuendo al rinnovamento del pubblico teatrale nella città e nel territorio. Nel 2012 un completo restyling degli arredi ha ridonato al Teatro San Matteo il primitivo fascino. (si ringrazia il signor egidio codeghini marulli).