penna

l'0ccupazione del Terzo Piano

di giorgio vecchi

Incö me seint quälcosa ca svanissa, ca ceda, c’as divida,
ca pianza deintr ad me, seinza baccan.. (E. Carella)

Nella primavera del 1955 tutti gli inquilini ospitati al terzo piano dell’edificio di via Cittadella furono sfrattati dalla Cementirossi, proprietaria dell’immobile, con liquidazioni generose, e ciò in vista della costruzione del futuro Grande Albergo. Il vecchio hotel Roma continuò ancora per qualche tempo a funzionare poi, nel penultimo mese dell’anno, anch’esso chiuse i battenti.

Quella fu l’estate in cui presi solenne seppur precario possesso del terzo piano abbandonato dagli inquilini. Quella parte del palazzo l’avevo quasi sempre evitata, vi si accedeva da un breve scaletta situata sulla destra del pianerottolo posto al secondo piano dell’hotel. Da lì si percorreva un breve corridoio su cui s’aprivano alcuni usci corrispondenti alle abitazioni delle famiglie, non più di tre o quattro, che da anni vi vivevano. Un albergo con al suo interno alcune abitazioni private oggi sarebbe impensabile ma così andavano le cose in quegli anni e sarebbe oggi difficile per non dire impossibile rintracciarne origini e cause. I rapporti tra mio padre e i coinquilini erano sempre stati ottimi. Loro costituivano una presenza discreta e per nulla appariscente nella vita dell’hotel. D’altro canto vivevano in una zona separata dal resto dell’albergo e i loro unici incontri con la clientela avvenivano sulle scale comuni.


Quando quell’ala dell’edificio rimase totalmente deserta, decisi di procedere a una meticolosa esplorazione dei locali. Mi pareva di essere un novello esploratore che si addentra in territori pericolosi ma pieni di fascino. Di pericoli in realtà non ce n’erano semmai c’era molto sudiciume e ciarpame lasciato dai partenti, del resto giustificabile in quanto si sapeva dell’imminente demolizione dello stabile. Una visita alle abitazioni ormai vuote non rivelò nulla di notevole per cui decisi di salire sui solai a cui si accedeva da una porta seminascosta sulla destra all’inizio del corridoio salendo poi un’ulteriore scaletta. La visita ai grandi solai si rivelò molto più interessante di quanto avessi immaginato per la presenza di molti vecchi mobili e resti ottocenteschi del mobilio dell’albergo. Ricordo in particolare in un angolo una vera e propria catasta di poltrone in stile Luigi Filippo, tutte con i sedili sfondati e le molle allo scoperto, che oggi farebbero la gioia dei rigattieri e dei restauratori. A quell’epoca si dava poca importanza ai mobili in stile sistematicamente sostituiti da asettici elementi in formica o da scheletrici esempi di quello stile svedese che per qualche tempo rappresentò la moda dominante in fatto di arredamento chic.

Mi aggiravo incuriosito tra quel ciarpame e quei mobili che avevano conosciuto tempi migliori alla ricerca di oggetti interessanti che potessero servirmi per i miei scopi. Avevo infatti in animo di crearmi lassù uno spazio tutto mio e frugavo ogni angolo alla ricerca di libri, giornali, sedie e tavolini. Volevo mettere insieme uno studiolo con tanto di scrivania e scaffali decisamente più luminoso e attraente di quello che avevo a pianterreno ma non furono molti i reperti utili al mio scopo che ritrovai tra quelle mura decrepite. Stavo quasi per abbandonare deluso il solaio quando affacciatomi a uno degli ampi abbaini che davano sulla parte interna del fabbricato mi accorsi dell’esistenza, meno di due metri più sotto, di un cortiletto incassato tra le pareti dei solai. Era un angolino delizioso con molta luce ma era difficile accedervi. Sarebbe stata utile per raggiungerlo una scaletta di legno con cui scendere nel piccolo cortile ma non riuscii a trovarne una adatta allo scopo. Ad un tratto scorsi una finestrella che doveva aprirsi in uno dei locali posti nel corridoio sottostante. Lo raggiunsi scendendo dal solaio e mi accorsi che quella finestrella dava luce ad un gabinetto comune situato a metà del corridoio. Tutto mi riuscii facile poiché salendo sull’antiquato lavabo in pietra del locale si raggiungeva facilmente la finestrella. Mi arrampicai in un baleno, aprii senza troppe difficoltà il telaio di ferro che la incorniciava, l’attraversai agevolmente e mi ritrovai con mia grande soddisfazione nel cortiletto. Misurava all’incirca tre metri per quattro ma era veramente piacevole poiché essendo quasi alla sommità dell’edificio era per gran parte del giorno inondato di sole. Alcune finestre del solaio davano su di esso, ma mi accorsi che a sinistra, nel muro di lato, c’era una finestra che non mi pareva facesse parte del solaio. Era più in basso delle altre e dunque raggiungibile senza troppi sforzi . Scovai in solaio un paio di casse che gettai nel cavedio e poco dopo, usandole come pedane, potei entrare nel nuovo locale. Era un ampio stanzone che riceveva luce solo da quella finestra e per di più senza altri accessi. Era piuttosto ingombro di carte, libri e altri oggetti polverosi che subito mi misi febbrilmente a esaminare. Ben presto mi resi conto che alcune di quelle vecchie carte si riferivano a Luigi Tinelli, il mio sfortunato zio che trascorse vari anni in Africa prigioniero degli inglesi durante la guerra. C’erano alcune lettere inviategli dalla madre e dalle sorelle, alcuni oggetti personali che aveva portato dall’Africa, un vecchio rasoio, una grammatica italo-inglese, un bocchino smangiato, il programma di un concerto per i prigionieri italiani tenutosi a Nairobi che ancora posseggo, alcuni pacchetti intonsi delle Player’s Virginia Navy Cut, le sigarette con il volto del marinaio.


Evidentemente mio padre aveva deciso di nascondere o almeno allontanare dalla vista di mia madre quelle poche cose che ricordavano zio Gigi e la sua drammatica morte per infarto nell'aprile del 1946 quasi in vista del Golfo di Napoli.

La ricerca diede altri copiosi frutti: in un angolo c’era un vecchio tavolo che sembrava adatto a divenire una capace scrivania, dato che era pure dotato di un ampio cassetto. Scovai anche due vecchie mappe geografiche del Touring, incorniciate, che provvidi ad appendere sopra la novella scrivania. una rappresentava l’Italia, l’altra l’Africa orientale italiana, ovvero gli ex possessi africani del dissolto impero coloniale. Poco dopo riuscii a disseppellire sotto una pila di vecchi giornali un piccolo mobile classificatore in cattivo stato ma per fortuna ancora utilizzabile. Il mio ufficio, grazie a questi preziosi ritrovamenti, era ormai una realtà. Riuscii infine a restaurare anche un rozzo scaffale che forse aveva ospitato un tempo argenteria e posaterie dell’albergo e sul quale misi alcuni dei vecchi volumi scovati in loco ed altri che portai dalla mia camera. Tra essi misi i volumi regalatimi da Giuseppe Torelli, l’anziano cameriere che veniva di tanto in tanto dall’ospizio a trovarci. Terminate le esplorazioni dei locali e ormai ben sistemato il mio studiolo mi sentivo felice come un re. Si era in piena estate, le scuole erano terminate, ed io potevo finalmente godermi quell’angolino tutto per me. C’era in più una piccola terrazza, costituita dal tetto del gabinetto che non era a spiovente bensì piatto e ben pavimentato. Si allungava per oltre due metri a penisola e, sporgendosi uno poteva vedere il sottostante cortile del Roma. Era un po’ pericoloso non avendo ringhiere e faceva una certa impressione a me che ho sempre sofferto di vertigini ma si dimostrò un ottimo luogo per prendere il sole distesi sopra un asciugamano. Volli condividere le gioie di quel luogo con gli amici e poco dopo ci ritrovammo Pablo, Antonello, Ezio ed io a guerreggiare con i nostri fucili ad aria compressa rincorrendoci per i tetti e i solai del fabbricato.


Fu una splendida stagione che finì troppo presto; in autunno dovetti a malincuore lasciare quel mio regno d’una sola estate poiché gli imminenti lavori di demolizione del fabbricato ci obbligarono ad andarcene. Ho amato quei luoghi d’un amore profondo ed esclusivo e lasciarli per sempre, come ho già raccontato, mi costò non poco. Ancora oggi a distanza di tanti anni cerco di ripercorrerli col pensiero, di ricostruirne l’esatta topografia, quasi a voler recuperare per un attimo un brandello di quei beati anni che sono ormai divenuti soltanto la materia impalpabile dei miei ricordi. (Al solit profesur).