penna

come Divorziai dalla Vespa

di Giorgio Vecchi
impära dai to errur, pr’ evitä ätar dulur..

A differenza di tanti giovani non ho mai nutrito grande passione per le moto. Mi fanno una certa paura, mi sembrano arnesi del demonio pronti a seminare disgrazie per i malcapitati che scelgono di utilizzarle. Alla base di questa avversione c’è un traumatico episodio che racconterò. Da ragazzo, intorno ai quindici sedici anni, ebbi un momento di vero interesse per i motorini, in particolare per l’Aquilotto Bianchi, un ciclomotore che allora andava per la maggiore tra i miei coetanei. Non avendo ancora l’età per prendere la patente l’abbandono della bici per un mezzo dotato di motore mi pareva un salto di qualità importante. Fino ad allora infatti i miei spostamenti li facevo tutti in bicicletta. Divenuta ormai inadeguata, data la mia altezza superiore alla media, la vecchia Rondinella con cui avevo praticamente imparato a muovermi sulle due ruote, me ne misero a disposizione provvisoriamente una da donna.


Si trattava della bicicletta di zia Mariuccia che lei praticamente non usava mai. Avevo chiesto a papà di regalarmene una "da grande" e lui finì per cedermi la sua in attesa di comprarmene una di buona marca. Mia madre non obiettava a che me ne girassi per ore in cortile come testimoniano le foto che accludo ma se mi azzardavo ad uscire dal Roma mi toccava poi sopportare le sue rampogne. Lei, come ho già detto, aveva la fissa delle disgrazie e temeva sempre che all’orizzonte potesse apparirne una, tipo l’incidente stradale o la caduta rovinosa con la bici. Per questo quando volevo uscire in bicicletta ero costretto a chiamare in aiuto qualche compagno che si presentava puntualmente in albergo proponendomi un giretto in periferia. Allora mamma non poteva rifiutarsi ma mi faceva, anzi "ci" faceva un mare di raccomandazioni. Di solito uscivo con l’amico Ezio con cui facevamo lunghi giri sulle stradine prossime all’argine del Po. Ricordo che scorgevamo, dalle parti della centrale elettrica dell’Adamello, i piloni della costruenda autostrada del Sole. La bicicletta poco alla volta divenne il nostro normale mezzo di spostamento. Un giorno Ezio ed io, vinte a fatica le obiezioni materne, andammo addirittura a Montù. Fu un’epica impresa che portammo a termine agevolmente nonostante i quasi trentacinque kilometri che separano i due centri. Ci fermammo a Casa Villino da zia Gina che ci offrì un’abbondante pranzetto quasi non credendo ai suoi occhi che avessimo fatto tutta quella strada pedalando. Ma non fu quello l’unico mio exploit ciclistico. Poco dopo con l’amico Gianni andammo a Cremona. Non ricordo molto di quel viaggio, della città ricordo ancora meno anche perché avevamo uno scopo non precisamente turistico. Lo facemmo per avere notizie di un’insegnante che sapevamo sarebbe stata nostro commissario esterno agli esami di terza media. Ci recammo alla scuola di quella docente e indagammo tra gli studenti per sapere qualcosa di lei.


Bianchi - Aquilotto

La bicicletta però ormai mi andava stretta e il mio sogno era possedere un ciclomotore che anche un ragazzo come me avrebbe potuto condurre senza bisogno di patente. E l’Aquilotto pareva possedere tutti i requisiti per soddisfare i miei desideri. Inoltre lo vendeva Gino Sormani che era il rappresentante della Bianchi in città per cui mi rivolsi a lui chiedendogli che intercedesse presso i miei, essendo anche suo interesse vendercelo. Ma Gino, come ho già avuto modo di dire, era uno strano personaggio. Credo che continuasse a considerarmi un cocco di mamma viziato e petulante per cui da lui ebbi poca collaborazione. Mia madre avversò da subito il progetto, un nostro giovane parente era morto anni prima in un incidente di moto per cui fu inflessibile nonostante le mie insistenze: niente motorino non era proprio il caso di discuterne, di lì a qualche anno avrei preso la patente di guida, poi se ne sarebbe riparlato. Anche mio padre, seppur blandamente, era contrario.


Per il momento dovetti accontentarmi di farmi fotografare in sella alle potenti moto che i clienti lasciavano parcheggiate in cortile. Fu a seguito dei divieti materni che mi venne l’idea. Sapevo che mio cugino Carluccio detto Charlie possedeva una vecchia Vespa 125 che raramente usava. Un giorno andai da lui al bar Cavour e gli chiesi se mi prestava lo scooter perché, gli raccontai mentendo, volevo fare pratica visto che i miei avevano intenzione di comprarmela. Charlie, purtroppo scomparso da qualche anno, era una pasta d’uomo. Quella volta si mostrò un pò perplesso ma non si oppose alla mia richiesta. Dopo avermi ammonito di non fare incidenti mi affidò la sua Vespa non senza avermi raccomandato di metter un po’ di miscela poiché doveva essere quasi a secco.

Devo confessare che non avevo mai guidato fino ad allora una Vespa, tuttavia in teoria sapevo come si portava poiché un compagno di scuola la possedeva e spesso vi ero salito come passeggero. Inoltre negli ultimi tempi, prima di mettere in pratica il mio progetto, avevo ben osservato le operazioni che l’amico faceva per avviare l’accensione. Spinsi dunque il pedale di messa in moto come un provetto conduttore e dopo qualche laborioso tentativo il motore della Vespa prese a scoppiettare. Sfoggiando una sicurezza che ero ben lungi dal provare balzai in sella e partii sotto gli occhi di Carluccio che mi esaminava critico. Attraversai via Cavour con bella disinvoltura e svoltai in Largo Matteotti dirigendomi a velocità moderata verso il Grande Albergo Roma che era stato da poco inaugurato e dove allora abitavamo. Sistemai il mezzo nel sottostante garage e diedi sfogo alla mia contentezza. Ora avevo un mezzo tutto per me che avrei potuto guidare seppur clandestinamente. L’importante era non farsi sorprendere da mia madre.

Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, eludendo la sorveglianza dei miei, inforcai lo scooter e partii per la nuova avventura. Il mezzo procedeva un po’ a singhiozzo poiché, non avendone pratica, acceleravo un po’ a caso. Mi diressi verso Barriera Genova dove sapevo che avrei trovato una pompa per far rifornimento. Feci riempire oltre metà del serbatoio poiché avevo voglia di fare un lungo giro presso le mura della città, dalle parti di via XXI Aprile, sicuro che lì avrei incontrato poco traffico. Così feci e per quel giorno tutto procedette senza grandi intoppi. Tuttavia non mi sentivo a mio agio, le ruote della Vespa erano piccole e non sempre il fondo era asfaltato. Laddove c’era ancora la strada "bianca" i piccoli sassi erano assai pericolosi per la stabilità ed io, inesperto com’ero, rischiai di far slittare la Vespa più di una volta. Finì che ritornai prima del previsto passando per via Mandelli e rientrando da via San Marco per evitare brutti incontri. Devo confessare che ero un po’ deluso e intimorito. Andare in moto non era poi così entusiasmante come mi ero immaginato, bisognava fare molta attenzione per evitare cadute rovinose.


Il giorno seguente partii presto, adducendo come scusa con i miei che avevo appuntamento con gli amici. Si era a metà giugno, le scuole erano chiuse e il caldo non era poi così insopportabile. La mattinata era ideale ed io mi sentivo molto più rinfrancato e sicuro. La moto però stentò non poco a partire, forse ero andato troppo piano il giorno prima e il carburatore si era un po’ ingolfato. Decisi di dare una bella accelerata per ripulirlo e partii di volata per via Mandelli. Svoltai avventurosamente in via Mazzini dove per fortuna il traffico era minimo, poi arrivato all’altezza di via Poggiali girai a sinistra sbucando in Piazza Borgo. Mentre passavo a lato della libreria Stucchi, il motore della Vespa prese a tossicchiare, segno che le mie accelerate non avevano sortito l’effetto sperato. Quasi al centro della piccola piazza, improvvisamente il motore si spense. C’era in quel momento un certo traffico per cui spinsi la Vespa verso la chiesa di Santa Brigida sistemandomi presso l’edicola per rimetterla in moto con tutta comodità. Purtroppo non sembrava intenzionata a ripartire nonostante i miei sforzi. Provai e riprovai ma niente, non ripartiva. Qualche curioso dall’altro lato della piazza mi osservava ed io cominciai ad innervosirmi.

Salii a cavalcioni della Vespa e iniziai dar grandi colpi al pedale dell’accensione, ruotando nel contempo la manopola dell’acceleratore per favorire la messa in moto. Non so come accadde: d’improvviso udii il rombo del motore e senza quasi rendermene conto accelerai bruscamente. La Vespa schizzò via come un razzo con me, paralizzato dalla sorpresa, che seguitavo a dare gas. Vidi il marciapiede destro di via Castello che mi veniva addosso inesorabilmente, stavo per sfracellarmici contro quando per mia buona sorte sterzai guidato dall’istinto di sopravvivenza e la Vespa si fece una diecina di metri di marciapiede a velocità folle con la parte destra del manubrio che quasi sfiorava il muro delle case. Ci fosse stato qualche malcapitato sulla mia strada lo avrei falciato di netto, invece la fortuna mi assistette poiché era deserto. Recuperai a stento il controllo del mezzo e mi spostai verso il centro della carreggiata filandomela prima che qualcuno mi fermasse o prendesse il numero di targa. Fu in quell’istante, dopo lo scampato pericolo, che ebbi la rivelazione: le moto non erano pane per i miei denti. Quella stessa mattina riportai la Vespa a mio cugino prima che i miei scoprissero la faccenda o che combinassi qualche altro guaio e da allora le moto ed io abbiamo divorziato consensualmente con reciproca soddisfazione. (Al solit profesur).