penna

..via Roma

di Giovanni Pacella

Ho camminato per via Roma e, di colpo, mi è piombato addosso tutto il mio passato di venditore in giro per il mondo. Ho frequentato i mercatini all’aperto di Bogotà dove le donne andine con le loro bombette nere, surreali, mettevano in mostra le poche mercanzie ed ho visto le stesse cose qui, in un piccolo negozio equadoregno. Ho volato su traballanti Fokker assieme ad indie venezuelane; tenevano in braccio polli starnazzanti che mi ricordavano i manzoniani capponi di Renzo e, chissà come, dai “ranchitos” di Caracas sono piombati qui a Piacenza, nella polleria a metà strada. Mi sono fatto tutti i “suk” di Algeri, Tripoli, Tunisi ed ho ritrovato in via Roma gli stessi profumi di erbe aromatiche misti a pipì di capra. Ho capito di colpo perché in Germania fiorivano negozietti e pizzerie italiane nelle zone più degradate o comunque più fortemente proletarie: i nostri migranti agivano esattamente come gli immigrati, provenienti da tutto il mondo, fanno da noi, ricreando usi e costumi e folklore delle loro variopinte patrie.


veduta con tram della via Roma anni '40

Certo, via Roma non è un ghetto come quello turco che visitavo a Berlino dove un cliente mi acquistava camionate di candeggina (i turchi non la bevevano, è chiaro, ma probabilmente non erano grandi consumatori di altri moderni detersivi). In compenso il Kebab composto da tre tipi di carne diversa era insuperabile; tuttavia non credo che il distributore della nostra strada lo possa fare altrettanto saporito. Non ho mai avuto contatti di lavoro con i Paesi dell’Est ai tempi del “Muro”, (il loro regime non permetteva certo di importare le nostre specialità alimentari), ma, in via Roma mi ha dato un piccolo brivido leggere l’insegna “Sapori della Transilvania” più per quel richiamo ai misteri di Dracula che ai tempi di Ceausescu.

In via Roma non ho trovato i “topless bar” di Amsterdam ma, fermatomi in un bar per un caffè, ho rivissuto l’atmosfera di un locale annesso al Grand Hotel di Abidjan (sì, ho venduto formaggi piacentini anche agli ivoriani); anche qui infatti c’era una bellissima ragazza di colore, i lunghi, ricci capelli scarmigliati, occhi di bistro e labbra di fuoco, la mano con la sigaretta all’altezza del viso, lo sguardo negligentemente indifferente (ma sapevo che era invece ben attenta in attesa di un mio eventuale cenno). Né manca il laboratorio di tatoo, senz’altro più accogliente di quello stambugio di Hong Kong dove, per un improvviso ghiribizzo provocato dall’esotismo del posto, avevo pensato di farmi tatuare un’ancora sul polso, decisione per fortuna prontamente rientrata visto il lerciume della stanza. Ho visto in un negozio di alimentari la pubblicità e mezza forma di Castelmagno. Che c’è di strano? È un ottimo formaggio piemontese ma la sua collocazione in un negozio indiano mi ha dato strane sensazioni.


un variegato mercatino in via Roma

Beh, ormai Piacenza è così: multietnica, internazionale, un po’ misteriosa, un pò pericolosa, ma non possiamo fermare il trascorrere del tempo con gli inevitabili cambiamenti che porta con sé. A vent’anni, illuso ed aspirante scrittore, sedevo al Caffè de la Paix, a Parigi ed osservavo i vari tipi di persone, i neri, le signore con lunghissime baguettes sotto braccio, gli “algeriani” come chiamavano tutti i magrebini e gli orientali perché a Parigi incontravi tutto il mondo e prendevo appunti e mi chiedevo se un giorno anche in Italia la terra sarebbe diventata più piccola. Avevo molti dubbi ma ora, andando in via Roma.. (testo dalla rivista l'Urtiga per gentile concessione di LIR edizioni).