penna

Vecchi e Nuovi Aspetti del Po

"La vita sul grande fiume”
Mutiamo noi o mutano le cose? Questo è il problema, direbbe Amleto. Certo, se è vero che noi , con gli anni, mutiamo viso sembiante gusti, è verissimo che tutto cambia quaggiù, tutto si trasforma. Nei beati giorni dell’infanzia e della prima giovinezza passati accanto al Po, il fiume mi pareva immutabile, e dopo le assenze brevi lo ritrovavo tale e quale: sembrava, invece, fossi cambiato io. Oggi, i colloqui col fiume sono più spaziati nel tempo: pochi e brevi. A prima vista tutto mi sembra uguale, in quella dolce e solenne terra dell’Emilia dove sono nato. Ecco il fiume, nella sua vigorosa pienezza, passare compatto, sicuro della sua forza, calmo e quasi senza voce. A monte scende da un breve spazio tra cielo e boschi, tra due punte lontane che sembrano unirsi in una linea sola: a valle, la grande sfera d’acqua si allarga per poco e si chiude ancora, limitata da esili strisce di sabbie biancastre, di barene, di pioppaie che si consumano in fondo all’orizzonte. Tutto a giravolte e a curve sinuose, il grande fiume non si offre che raramente nella sua completa maestà. Nello scarno e primitivo paesaggio, tra rive schiette di boschi, tra argini alti, appare come la stessa forza delle cose primigenie. Invece non è così.


Veduta pittoresca del Po a Piacenza

Anche l’occhio se ne avvede. Il fiume Padre, il grande fiume italico che porta i dolci flutti all’Adriatico, dopo aver percorso la grande valle frumentaria, granaio dell’Italia, non ha più l’aspetto d’una volta. Gli uomini l’hanno mutato, gli stessi uomini i quali, cresciuti sulle sue rive, ressero, nella preistoria, la furia delle fiumane devastatrici costruendo dighe, conquistando avaramente la terra; gli stessi uomini che poi lo imbrigliarono coi possenti argini alti e solitari sulla pianura, sui quali passano, con tinnir di sonagli e schioccar di fruste, carretti sonori tirati dai pigri buoi dalle lunate corna a diffondere odor di fieno appena falciato o guizzan rapide le automobili. Non vi sono più soltanto i campanili, sorgenti, sembra sopra i boschi, a rompere la linea augusta all’orizzonte, alte torri d’acciaio e traliccio, dietro le quali l’azzurro appare più azzurro, tesson reti di fili che si perdono a vista d’occhio, dopo aver cavalcato le sponde; dritti camini rossi, fumanti, che nei tramonti sembrano candelabri d’oro; chiaviche possenti dai frontoni maestosi come facciate di templi; ponti in ferro, in muratura, in chiatte, gettate, dighe, porti, raccordi ferroviari e, nei porti, vaporino dalle guance rosso dipinte come le navi dei Fenici, e barche di ferro e cassoni... Anche le sponde sembrano, e sono, meno frastagliate, più regolari. Dischi bianchi e rossi, quadrati rossi e bianchi, losanghe, segni cabalistici… e fili, fili telefonici, fili telegrafici, fili elettrici… fili, fili. Oh, non è più solo il Po, il vecchio Po regale.
Fluviarum Rex Eridanus!
Il fiume non è più solo, i boschi non sono più selvaggi come vergini foreste, i silenzi estatici d’un tempo non imperano più, fugati dalla civiltà e dalle irrompenti necessità della vita. Il fiume non è più solo, i boschi non sono più selvaggi come vergini foreste, i silenzi estatici d’un tempo non imperano più, fugati dalla civiltà e dalle irrompenti necessità della vita. Il paesaggio d’una volta aveva una suggestione primitiva, quasi sacra. Sono scomparse da anni , e restano nel ricordo della nostra giovinezza, “le mulinasse”, natanti che macinavano grano notte e dì. Due chiatte scure, tra le quali girava l’enorme ruota nera dalle pale grondanti liquidi covoni di argento; sulle chiatte i casotti di legno, neri anch’essi, dal tetto coperto di canne, sembravano capanne preistoriche di palafitticoli. Sotto la luna, il paesaggio padano vicino ad una molinassa acquistava un aspetto tragico. L’enorme massa nera si profilava funerea, quasi, sul cielo, mentre sotto le pali cigolanti la luna traeva barbagli e scintillii. E nella notte, sul rumore isocrono lamentevole delle ruote s’udiva, a intervalli, il batter festoso del ferro sulla mola, segno al mugnaio che la tramoggia era vuota. Tutto sembrava incanto, favola, nel silenzio incombente. Dove sono le romantiche mulinasse della nostra infanzia? (Di giorno romantiche lo erano meno: vi si celebrava talvolta la gnoccata, che i mugnai erano famosi per impastare gli gnocchi, offerti, nuotanti nel burro e odorosi di parmigiano, in terrine fumanti). Scomparse perché, ancorate lungo il filo della corrente, intralciavano la navigazione dei battelli a vapore, forieri di altra epoca. Della folla di macchiette , di gente che viveva sul Po e del Po, sono rimasti i pescatori, i ranèr, i boscaioli, i guardiacaccia, i cacciatori, gente lesta di gambe,, indurata alle intemperie, cotta dal sole; sono rimasti i cavatori di sabbia, gli scaricatori di ghiaia. Ma per qualche personaggio nuovo, gli impagliatori di buzzoni, gli sterratori che fabbricano i pennelli, i pontieri, quanti ne sono scomparsi? Oltre al mugnaio infarinato come un pesce in padella, oltre ai paroni che portavano sulla testa, la rachia , vecchio berretto di feltro a punta, arieggiante l’antico petaso dei marinai, sono scomparse altre figure caratteristiche del fiume, lasciando un nostalgico ricordo in chi le conobbe.



Partono le barche dei cavatori di sabbia e di ghiaia

I commissionari, che andavano nelle cittadine dell’oltre Po a far spesa per conto di terzi: conosciuti sui mercati come gente di casa, tornavano la sera nei paeselli, con la carriola carica di “commissioni” e gettando un grido caratteristico facevano apparire sulle porte di casa le donne; i raccoglitori di marsòn, relitto di legna marcita che scendeva alla deriva sul fiume; i raccoglitori di giunco, di vimini pei canestrai, i fabbricanti di anatre da giuoco,(ora le vendono più belle in città); i raccoglitori d’erbe, di semplici, di legna, di rogne o patate dolci. Vecchie figure che si collegano ai tempi lontani e hanno forse come antenati i contrabbandieri di sale sotto i cessati governi, quando il Po era confine tra stati diversi e talora nemici. Pescatori. Figure pittoresche dell’infanzia lontana, macchiette indimenticabili e facete, che rispondono a soprannomi curiosi; Rana, Tenclèn (piccola tinca), Uslina, Motta; dalle storie quasi leggendarie, dalle imprese memorabili. Che vita! Da ragazzo non avrei mai sospettato che la pesca fosse anche un diporto, un modo per passare il tempo: mentre mi pareva aureolata, se non di eroismo, certo di fatica e, talora, di rischio. Oggi, la pesca è , giustamente, regolata da leggi precise, da divieti. Non so se allora vi fossero costrizioni o regolamenti, ma i pescatori mi parevano esseri, quasi sovrumani, fuori legge, dalla vita eroica degna di tutte le avventure, parenti strettissimi, se non erano essi stessi,dei cacciatori di frodo. Di questa gente ho ricordi precisi, perché si può dire che la mia infanzia sia trascorsa in quel loro modo. Bisogna sapere che io abitavo nella parte vecchia del paese, dove, a due passi dall’argine, stanno le casette dei pescatori, dei cacciatori, dei boscaioli e dei barcaioli, i mestieri sono diversi, le persone sempre quelle, tutta gente che vive direttamente o indirettamente del fiume. I tuguri stretti e disuguali s’affacciano col pian terreno ai pendio della strada e pare lo salgano faticosamente: dietro hanno tutti un basso cortiletto fangoso, che sa di pesce, di vimini impregnati di umidità, sul quale sboccano irte scalette consunte dagli anni e dai passi, che sembrano fatte per rompersi il collo. I muri sono tappezzati di reti, di tramagli, di bilancini, di bertovelli, Negli stretti anditi oscuri, zucche piene di polvere, fucili, spingarde per la caccia alle anatre e, alla rinfusa, cumuli di nasse, fasci di fiocine e di raffi, forcole per barbotte. Quella era la base di operazione, dalla quale partivano, tutte le mattine che Dio mandava in terra, piovesse o no, i pescatori per le loro imprese. Stando a letto, poiché avevo il sonno leggero, io li seguivo con la fantasia, mentre, tra il lusco e il brusco cominciavano la faticosa giornata. Benché il paese fosse sulla riva del Po, a un trar di sasso dall’acqua , i pescatori, e non sapevo immaginare il perché, non pescavano li vicino. Mi sembrava invece dovesse essere un mestiere comodo quello: il fiume a due passi, pronto; non c’era, io pensavo, che da tirar le reti, ed esse sarebbero emerse dalle acque piene di guizzanti pesciolini d’argento. Ben diversa la realtà. Facevano chilometri e chilometri di remate, si tuffavano nelle lanche o acque morte, vicino al fiume, in certi canali; attraversavano sabbie, boschi e tornavano a casa affamati, stanchi, impillaccherati, spedati, coi calzoni rimboccati oltre il ginocchio, ma con lo sbragagn (una custodia pel pesce fatta di vimini contesti a forma di mezzaluna) pieno di bottino. Se andava bene erano felici…, se andava male non se la prendevano molto, tutt’al più qualche pittoresco moccolo, ma solo per abitudine, che, in sostanza, erano sereni. Essi subivano, senza saperlo, la bellezza di quella vita vissuta all’aria aperta, sul grande fiume amato fin dai loro primi anni.



Tutti aspettano l’arrivo dei vaporini a Piacenza

Infatti, per questa gente, il Po è tutto. Ragazzi, vi si tuffano spensierati,
guardano estatici i barbotèn da caccia coperti di cespugli, dai quali spunta la lunga canna della spingarda; giovinetti, indurano i muscoli ai remi, acuiscono l’orecchio e l’occhio alle distanze nei boschi o sul fiume, imparano dagli anziani a scrutare il cielo, il vento e l’acqua, quando e dove è più pescosa; si abituano alla lunga pazienza delle “poste”, alla fame, al freddo al sole e alla pioggia. Sono lati e bronzei, sobri e miti. Cosi campeggiano nei miei ricordi e cosi li rivedo, anche oggi, quando torno laggiù. Qualcuno dei miei grandi amici d’allora è vecchio e, da filosofo, pesca alla canna seduto sulla riva, tirando delle lunghe buffate dalla sua pipa annerita. Dice che il pesce sembra più scaltro e più avveduto. Diamine, ha imparato anche lui…a stare al mondo! Più nota fra tutte era la figura del “portìner” o traghettatore. Allora i ponti erano assai scarsi e si attraversava il fiume in barca. Il “porto” dalla sede leggermente vagante, era il luogo di convegno per l’imbarco e l’approdo. Per le passate non c’era orario e chi arrivava non aveva che a sedersi sulla riva e facendo imbuto con le mani attorno alla bocca chiamare il “portiner”. Se il traghettatore era di là, bisognava aspettare che ripassasse; se non si trovava ancora del tutto in mezzo al fiume, poteva darsi che tornasse indietro per voi, ma la traversata era una spedizione che aveva di certo quasi sempre l’arrivo, e d’incertissimo l’ora e il tempo. Se poi cadevano i nebbioni, spessi come cortine, densi, che annullavano tutto, sponde, paesi, barche, chi mai s’arrischiava in quell’infinito? Ora i ponti tagliano, con la loro linea biancastra, le acque e uniscono le rive che il fiume divide. Quelli in chiatte sono dolci archi, con la corda a valle e la curva a monte: sonori, elastici, leggeri, consentono anche essi alla linea del paesaggio, col quale si confondono. Sono d’ingombro alla navigazione indubbiamente, ma quando arriva un vapore o una draga e un rauco fischio chiede il passaggio, essi s’aprono facilmente, e una campata mobile, con breve manovra di cavi metallici, gira come su una cerniera. Qualche minuto, e poi il ponte si richiude, tra l’impazienza di coloro che attendono, sull’orlo del taglio, di passare all’altra sponda. I silenzi del Po. Chi non li ha assaporati nelle ore assolate del mezzodì, quando il sole strapiomba e il bosco sembra un immenso organo liturgico: chi non sene è commosso nelle albe serene e fresche e pure, come nel tempo dei tempi, nelle notti placide e fonde , non sa che cosa sia il silenzio, pervaso d’una grandezza estatica oltre umana. Allora, qualche rara fucilata interrompeva il silenzio, o l’eco d’una frana lontana, una “Rùnada”, dove l’acqua del Po, corrodendo la sponda, ingoiava la terra; o lo laceravano grida d’uccelli, richiami di barcaioli. Chi avrebbe detto che un giorno sarebbero venuti a violarlo i fischi acuti e lamentosi delle sirene dei battelli a vapore, e poi le draghe strepitose, e i motoscafi scoppiettanti, e il rombo dei motori degli aeroplani? L’azzurro calmo e nitido del cielo padano ora è turbato dai pennacchi di fumo dei bianchi vaporetti, che si sfioccano poi lenti tra le due rive e poi rimangono a lungo nell’aria, se non c’è vento. Le draghe fumanti infaticabili dragano la sabbia nel letto del fiume e sono anch’esse bianche o rosse come i vapori, ecco un tono di colore aggressivo che i nostri vecchi non avrebbero certo immaginato, ma non camminano. Restano ferme e scavano, scavano con un rumore di carrucole, e la sabbia, attraverso lunghi condotti, viene portata a riva: sembrano mostri antidiluviani. I motoscafi, che punteggiano a intervalli il silenzio con le loro fucilate, sono ormai sempre più frequenti nel paesaggio padano: ne costituiscono quai il necessario completamento. Né basta. C’è una guerra, a base di draghe e di fatiche d’uomini, tra il Po e i suoi dominatori. A tratti, lungo le “curve” , nei “cantieri”, sorgono baracchette di legno, coperte di cartone incatramato, le quali fanno pensare alle baracchette di un’altra guerra. E vi sono anche lì “scartoffie” e apparecchi telefonici da campo; ma, invece di ufficiali e di soldati, ingegneri, sterratori, carriolanti, i quali, attuando una delle più potenti opere del Regime, imbrigliano le acque, difendono le rive, costruiscono chiaviche, tagliandole negli argini, lanciano “pennelli” contro la voracità della corrente, e a poco a poco le nuove sponde, fatte di ciottoli e di buzzoni, valida difesa delle terre di golena, regolatrici della navigazione, si ricoprono d’uno strato di erba verde, si che all’aspetto rassomigliano alle vecchie piarde; ma il Po non si lascia ingannare, e sa che sotto quella zolla verde v’è la saldezza del riparo, come sotto la polpa tenera della pèsca v’è la durezza del nòcciolo. Pane, del resto, per i suoi denti.


Il duro lavoro dei pescatori a Monticelli d’ongina nel 1930

Con queste opere di regolamentazione, ogni pericolo grave scompare e per l’avvenire neanche i territori in golena subiranno il furore delle acque devastatrici. La “piena” oggi non fa molta impressione, ma una volta, che angoscia! La paura del Po , la guardia al Po… Quando, in novembre, o a primavera, crescevano le acque, il fiume torbido giallo convogliava isolotti di spuma giallastra, la corrente diventava più rapida e rumorosa, l’acqua saliva a vista d’occhio e, ora per ora, l’idrometro segnava l’indeprecabile ascesa, Cresceva il croscio del fiume e la corrente sempre più rapida trascinava rami, piante divelte, legni fracidi, foglie, carogne. Come il livello era giunto al limite della “guardia”, cioè al segno di pericolo, la lotta cominciava e i due avversari di fronte, il fiume e l’uomo, s’impegnavano a fondo. Dalle parte dei campi, sui terrapieni equidistanti, in fianco all’argine, segnati con numeri progressivi, s’innalzavano i “casotti” per le guardie; si preparavano i drappelli, gli uffici telegrafici dei paeselli disseminati lungo le rive facevano orario continuo, e dalla becca s’attendevano notizie. Badile ad armacollo, lanterne in mano la notte, le guardie si suddividevano l’argine in zone e lo sorvegliavano attentamente, Bastava, chissà? La galleria di una talpa, un po’ di terra smossa, un sifone, per produrre una catastrofe. Intanto nei magazzini idraulici si preparavano febbrilmente sacchi e gabbionate e si prendevano disposizioni per la difesa degli argini comprensori. Dalla becca arrivavano i bollettini .Cresce tanto all’ora, cresce di più. C’è molta acqua che deve arrivare: e i cuori si stringevano in un’angoscia inesprimibile. Di notte, lo spettacolo era pauroso. Noi ragazzi, allegri per la novità, si andava sull’argine, ai “casotti” segnate dalle torce a vento, dove gli uomini si scaldavano ai fuochi, fumando nelle corte pipe e commentando gli avvenimenti che erano nel cuore di tutti. Altri fuochi lucevano lontano, disseminati in lunghe file sull’argine maestro, e parevano profondare nelle tenebre. Dall’atra parte, quasi al pelo del ciglio, il fiume gonfio, minaccioso, rapido di spume, terribile. Mite, vegliava qualche stella che si rispecchiava nelle acque fosforescenti pel riverbero dei segnali luminosi. La gran voce del bosco passava come una turbine sugli uomini senza sonno: crosciava l’acqua nell’ombra contro i tronchi degli alberi con un cupo fragore, e di tratto in tratto, al soverchiar di qualche arginello o di qualche chiusa improvvisata, s’indugiava, quasi, in uno sciacquìo blando, per poi riprendere il barbaro canto della sua fuga. Il richiamo delle guardie per l’appello del turno era lamentevole e impressionante. Si vedevano lanterne vagare nel buio, sventagliando fasci di luce sulle acque nere, la finestra dell’ufficio postale illuminata, occhio senza sonno, e, dentro il ticchettio esile del tasto sembrava la voce angosciosa del paese pericolante. La popolazione rimaneva qualche ora sull’argine ad aspettar notizie, a guardare il bosco sommerso; sul tardi, tutti rincasavano, preoccupati, e non restavano che i crocchi degli uomini intorno ai fuochi, pei turni di guardia. A notte alta, quando il paese era immerso nel suo sonno inquieto, vegliava solamente l’ufficio telegrafico, si alternavano pattuglie, e nel silenzio, grave di minaccia, passava sul borgo prostrato la grande voce del bosco e quella più grande delle acque turbinose. L’alba livida e tragica s’alzava sul fiume. I guardiani, tornati dal turno, si buttavano sotto il casotto a dormire, o parlottavano stanchi e pieni di freddo. Qualcuno diceva: se venisse la “rotta”! Ed ecco storie di rotte famose, che hanno lasciato traccia nei nomi rimasti in Padania: Le rotte,
Il bugno, Villarotta, La tagliata; testimonianze di sconvolgimenti e di tragedie. E chi ha udito la voce del Po irato, certo non la dimentica più. E chi ha visto, di giorno, il fiume trattenuto dai due argini, gonfio, mugghiante, minaccioso, non lo dimentica più. Oggi il pericolo è scomparso. Il Po è non solo domato, ma regolato e sfruttato: le chiaviche, le centrali, le prese d’acqua create dalle bonifiche servono per immette la linfa vitale del fiume ad irrigar coltivi, a difenderli contro la siccità: così l’acqua che una volta impauriva l’uomo e lo danneggiava, ora lo serve. Mutata la vita, mutata l’atmosfera. Agli idillìì torpidi dei pigri mulini è succeduto il rombo dei motori, alla esasperante lentezza dei traghetti con le nere e tozze barbette incatramate, la sicurezza dei ponti sui quali passa vorticosa la sua vita coi suoi traffici; le tardi possenti magane, tirate dai cavalli all’alzaia, vennero sostituite dai battelli onerari e dai barconi trascinati dai rimorchi a scoppio. Tutto è più vivo, più energetico, più rapido; è l’oggi dinamico, in confronto dell’ieri, passato remoto… Ma il Po ha oggi mutato il suo aspetto anche in altro modo. E’ diventato il mare di chi non ha il mare, ed i nostri vecchi guarderebbero stupiti, fors’anche scandalizzati, l’umanità, che d’estate, in costume da bagno, si immerge nell’acqua. Riabilitata dopo tanti pregiudizi, l’acqua del Po dona ai rivieraschi le linfe salutari, i boschi offrono le ombre amiche, le limpide sabbie il candido calore.



Piacenza, la spiaggia sul Po

Una volta i paesetti spersi sulle sponde e che parevano mandare i campanili curiosi a spiare, sopra l’argine, il crescer delle acque, erano rappresentati a riva da una freccia indicante il porto: oggi frecce enormi indicano le spiagge fluviali, i bagni. Quasi tutti i paesi Padani hanno il loro lido, la spiaggia, il chiosco. E veramente il Po ora è per migliaia e migliaia di bimbi, e anche di adulti, il mare. Le colonie fluviali ed elioterapiche si sono moltiplicate. Accanto a quelle pei piccoli, ecco le spiagge pei grandi, ecco le file di cabine vivaci e di policromi ombrelloni, ecco rotonde e terrazze dove pazze e chiassose orchestrine invitano al ballo. “Où sont les neiges d’antan?”
Nelle giornate estive schiere di bimbi corrono lungo le sponde benedette, si stendono al sole sulle sponde nitide e scintillanti sabbie e al mattino e alla sera cantano in coro, mentre il tricolore sale sul pennone. Ecco un’altra benemerenza, insospettabile un tempo, del vecchio Po, il quale sembra ringiovanirsi al contatto dell’infanzia che s’apre alla vita. Cambiato dunque l’aspetto esteriore, anche se è rimasta la dolcezza dell’orizzonte. Ma se sono scomparsi i vapori con le vele rance; se le immense pioppaie, decimate durante la guerra e nel dopo guerra, hanno perduto la vergine maestà primitiva; se i ponti di ferro sembrano tagliare crudamente il paesaggio e i tralicci delle aeree torri, pei fili di alta tensione, ingabbiare il cielo; se la quiete delle mormoranti solitudini è rotta dagli ùluli rauchi delle sirene e dagli scoppi dei fuoribordo; se le placide e silenti notti di luna sono contaminate dalle luminarie dei padiglioni per ballo, non importa. Scomparsi i boschi antichi, rimangono le pioppaie snelle, le boschine di trèmule sottile, dal fusto argenteo come quello delle betulle, sinfonia di bianco e di verde, che sembrano pettinare le soffici nuvole del cielo; è rimasta la purità delle chiare albe, la dolcezza infinita dei rossi tramonti, in nessun luogo così dolci come nell’atmosfera un poco umida dei boschi.



Piacenza, scene di vita fluviale

Ma soprattutto, in cambio della vecchia poesia romantica, abbiamo una poesia più viva, più dinamica e ugualmente suggestiva: la sicurezza che il fiume non devasterà più i coltivi, rapinando e distruggendo la sudata fatica dell’uomo e la bionda gloria delle messi; la certezza che tutti gli anni l’acqua del fiume, la sabbia splendente, l’aria profumata dei boschi doneranno ai figli, con la bronzea patina del sole, la ricchezza della gioia e della salute. Nuova poesia, nuova dolcezza. Così tra le memorie romantiche d’un tempo, i cari ricordi un poco sbiaditi, le figure scomparse, che sono come il patrimonio soave della nostra infanzia, è entrata trionfante una nuova vita, una schiera di cose nuove, di personaggi nuovi; mentre il vecchio fiume continua, benefico infaticabile sereno, il suo corso sino alla foce, a compiere il suo destino e a confondersi nel mare.
“da le vie d’Italia del 1937, Giannetto Bongiovanni”