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il Mistero dell’Abbazia Scomparsa

“Racconto di Massimo Solari”

Siamo nell’agosto dell’877: Carlomanno passa dalle parti di Piacenza. È diretto a Roma alla testa di un imponente esercito per cingere la corona imperiale. Angilberga lo raggiunge “In Curte Sancti Ambrosii, quae vocatur Cassianum, juxta Attuam Fluvium” e cioè a Cassano d’Adda (ad est di Milano, a metà strada da Bergamo) e riesce a strappargli una ulteriore donazione per il monastero: “Cellulam quondam haud procul ad eadem Urbem Placentina sitam, loco qui Caput Trebie vocatur, in qua et Ecclesia Apostolorum Principis dicata consistit, et, ut fertur Monasticis quondam habitationibus adtributa...” (Il possedimento posto vicino a Piacenza, nel luogo chiamato Capo del Trebbia, nel quale esiste una chiesa dedicata al Principe degli Apostoli, affinché sia adibita a volte come abitazione monastica...).
In effetti si tratta di una “confermazione” in quanto il monastero o badia di San Pietro a Cotrebbia era già stata donata ad Angilberga dal marito nell’865 ma tant’è: i tempi erano burrrascosi, le alleanze facilmente reversibili e dunque avere una confermazione imperiale era segno di cautela e di lungimiranza da parte di Angilberga.
Mentre è molto difficile ritrovare tanti altri luoghi, molti dei quali dal nome fantasioso, Cotrebbia è proprio qui, dietro l'angolo. Eppure non c’è traccia su Internet della famosa abbazia benedettina che, durante la Dieta di Roncaglia, aveva ospitato un certo numero di cardinali che volevano un colloquio con l'imperatore Barbarossa.
Il sito del comune di Calendasco dice che nei pressi di Calendasco si trovava (passato) nell'alto medioevo un' importante abbazia benedettina, dove si verificarono importanti eventi storici. Dopo aver passato in rassegna i documenti ove si parla dell'abbazia (gli stessi che ho citato io) aggiunge che negli anni 1155 e 1158 Cotrebbia visse il suo momento di maggiore risalto storico. L'abbazia ospita infatti nel 1155 i cardinali della Curia Romana, giunti in qualità di emissari del Papa per interloquire col Barbarossa. Nella zona si tenne la seconda celebre “Dieta di Roncaglia” del 1158. Nessuna foto, nessun altro riferimento.
Nel sito del Touring Club si aggiunge qualche altra notizia sull'abbazia: dopo aver ricordato che le diete imperiali si svolsero nei “pratae runcaliae” che era un luogo prossimo all'abbazia di San Pietro presso “Caput Trebiae” (Cotrebbia Vecchia) il sito aggiunge che “Dopo varie inondazioni del fiume Po, venne edificata Cotrebbia Nuova, attuale frazione di Calendasco”.
Dopo aver cercato altre notizie mi sembra di aver trovato la soluzione: Anna Zaninoni scrive su “Cotrebbia da Curtis a possessione di S. Sisto (Secoli IX-XV)” sul Bollettino Storico Piacentino del 2001. Leggo il pur interessante saggio, che però parla solo, anche se diffusamente, dei contratti stipulati dal nono al quindicesimo secolo tra i monaci benedettini e i loro affittuari. Nessuna notizia sulle sorti dell'abbazia. Si dice solo che era in pessime condizioni già tra il 1261 e 1276.
Provo a vedere allora su Google Maps se ci sono dei resti visibili dal satellite (il tempo, in questi giorni, è pessimo e non ho voglia di sguazzare tra pozzanghere fangose) e Cotrebbia Vecchia (ché è quella che devo trovare) non risulta. Risulta invece Cotrebbia Nuova. Dal satellite si vede una grossa costruzione dedicata al culto ma non si riesce a capirne di più.
Possibile? Approfittando del bel tempo che nel frattempo è tornato, una mattina mi decido e parto, novello Indiana Jones, alla ricerca dell'abbazia perduta.
Arrivo velocemente a Cotrebbia nuova, ma mi rendo conto che la chiesa è, appunto, nuova (scoprirò che è dei primi del novecento). Decido di perlustrare il territorio convinto che se esiste una specie di San Galgano piacentina non mi sfuggirà.
Nulla. Arrivo allora fino al capoluogo, Calendasco, dove decido di chiedere informazioni. Una gentile signora trovata nella canonica mi guida: “giunto al bar sulla curva devo girare e troverò un grosso fondo con dei ruderi”.
La parola “grosso fondo” mi solletica, pensando alla Curtis alto medioevale e parto. Non nascondo di aver fatto fatica a trovare il fondo, girando spesso a vuoto, soprattutto sull'argine di Po, ma il sole, l'aria nitida, il panorama delle Alpi innevate, gli Appennini così vicini che sembrava di poterli toccare mi impedivano di preoccuparmi.
Finalmente trovo il maledetto bar sulla curva e giro. Avanti, verso l'argine del Po, vedo in lontananza un sito che sembra quello giusto. Confesso che a Indiana Jones batte il cuore. Sì, il luogo è proprio quello che immaginavo: un grande fondo in rovina, circondato da un muro in laterizio. Mi fermo. Appena scendo dall'auto, abbaiare di cani. Una signora esce dalla porta di una casetta vicina. Chiedo se posso dare un'occhiata in giro. La signora assente e richiude la porta. Forza, Indiana, l'Arca è tua. Il fondo è molto vasto, sembra effettivamente abbandonato e ridotto a ricovero di macchinari agricoli. Due corti, diversi fabbricati. Quello centrale è grande. Certamente non è alto medioevale, da una prima occhiata sembra sei-settecentesco. La prima cosa che noto è l'ingresso di una cappella. Sopra il portone ci sono tracce di stucchi settecenteschi. Giro sul retro per trovare tracce del presbiterio. Nulla. Solo, incastonata sotto un portico, c'è un'acquasantiera di pietra fatta a semisfera. Sul lato anteriore porta una croce scolpita. Quando mi avvicino, noto che il sotterraneo della chiesa o cappella è voltato, con volte a botte. Dopo aver visto tutto quanto c'era da vedere torno dalla signora e chiedo come si chiama quel posto. Il cuore mi batte ancora nel petto quando risponde: “Cotrebbia Vecchia”.
Tornato a casa cerco su Internet l'immagine aerea per vedere se, dall'alto, si notino tracce di edifici precedenti, ma, almeno al mio occhio non esercitato, non rinvengo proprio un bel nulla. Nell'immagine, ho indicato con 1 il vicino argine del Po e con 2 l'edificio principale, che comprende la cappella.
Ormai sono lanciato nella mia ricerca. Ancora su Internet trovo lo strano sito di un non meglio precisato Gianni (che compare effigiato con un inquietante mantello bianco con croce rossa e armato di una grande spada a due mani) il quale, dopo aver in pratica ripetuto quanto già detto nel sito del comune di Calendasco, aggiunge abbondante bibliografia tra cui noto “Cotrebbia. Origini e storia di una comunità, Fabio Bianchi, Ed. Parrocchia di Cotrebbia (PC), 1998”.
Volo in biblioteca dove trovo immediatamente l'agile volume. L'ansia della ricerca si placa: l'arch. Fabio Bianchi mi dà infatti tutte le notizie che cercavo. Riassumere in poche righe quanto contenuto in centoquaranta pagine non è semplice, ma se concentriamo la ricerca solo sull'esistenza o meno dell'abbazia scopriamo che:
1) il posto che ho trovato è quello giusto. Questo fondo abbandonato e quasi in rovina annegato nella campagna, sotto l'argine del Po, è proprio quella “Cella quae vocatur Monasteriolo” che cercavo.
2) l'edificio grande con a lato la cappella, secondo l'autore, ha probabili fondazioni alto medioevali;
3) Neppure il Bianchi ha trovato tracce della primitiva chiesa abbaziale che, secondo lui, doveva sorgere discosta dalla costruzione. Secondo lui è scomparsa a causa di alluvioni, incendi o crolli. La cappella attuale è stata creata dai monaci benedettini successivamente, forse intorno al 1300.
4) L'intera struttura ha funzionato per circa un millennio, prima come cappella privata dei monaci e poi come parrocchia di Cotrebbia ed è solo intorno al 1810 che termina la sua parabola, con la soppressione del monastero di San Sisto da parte di Napoleone I. Cotrebbia proseguirà la sua funzione di parrocchia fino ai primi del novecento quando le continue piene del Po indurranno la costruzione della attuale chiesa di Cotrebbia Nuova. Ma il ben documentato lavoro del Bianchi non finisce qui, anzi, provocandomi una nuova emozione, mi comunica che a Cotrebbia si stanziarono per diversi anni i Templari. Ok, mi sono detto, Indiana Jones, questa volta hai fatto bingo!
Non nascondo qualche perplessità: i Templari sono così di moda, oggi, che ficcarli addirittura a Cotrebbia mi sembrava effettivamente eccessivo. Come corrobora il Bianchi tale (sorprendente) affermazione? Citando i lavori del Tononi (“I templari nel piacentino” su Strenna Piacentina del 1855) e del Nasalli Rocca (“Dell'introduzione dei Templari a Piacenza”, 1941) che, a prescindere dal loro rigore storico, sono scritti in anni non sospettabili di voler seguire le mode.
Dunque i Templari erano attestati a Piacenza. Non solo, il Bianchi afferma “il preconcetto della piacentinità del loro fondatore Ugo de Payens (nome mitizzato da Dan Brown e da altri romanzieri di successo), non [è] ancora storicamente accertata” e aggiunge che lo stesso Ugo de Payens era molto attivo a Piacenza tra il 1120 e il 1150. Possibile? Non possiamo escluderlo, visto che era presente a Piacenza, in quegli anni, (segnatamente nel 1136) una vera rock star dell'epoca: Bernardo di Chiaravalle, che sovrintendeva alla costruzione del monastero appunto di Chiaravalle della Colomba, vicino a Fiorenzuola.
Di San Bernardo di Chiaravalle si potrebbe scrivere un libro a sé (e chissà quanti ne avranno scritti) ma ricordiamo solo che fondò l'ordine dei cistercensi, ordine che ebbe un successo strepitoso nel medioevo, e che, dopo aver fondato la prima certosa di Clairvaux (da cui Chiaravalle) in Francia, effettivamente fondò una serie di abbazie sorelle in varie parti d'Europa e così anche nel piacentino, che scrisse la regola dei Templari, che ebbe sempre molto vicini (Ugo di Payens era anche suo parente).
L'ordine templare, così chiamato perché sorto nel sito dell'antico tempio di Salomone a Gerusalemme, aveva come compito quello di rendere sicure le strade per i pellegrini che si recavano in Terra Santa. Cotrebbia, posta a cavaliere di un importante snodo di strade (le direttrici Pavia – via Postumia, Milano – via Emilia o Romea – Roma – Terra Santa) oggi tutte scomparse, era dunque perfetta per un loro insediamento.
A conferma della loro presenza il Bianchi, oltre ad una cospicua messe di testimonianze storiche, nota la stessa acquasantiera che avevo notato anch'io (“c'è un'acquasantiera di pietra fatta a semisfera. Sul lato anteriore porta una croce scolpita”) ma rileva che la croce scolpita è, in effetti, una Tau. Anzi, ne vede due, una nella cappella (che io non ho visto, dato che non sono entrato) e una nella veranda. La tau (lettera dell'alfabeto greco corrispondente alla nostra T) è sicuramente un simbolo templare. Si chiede allora il Bianchi: come hanno fatto le due croci tau a sfuggire allo scalpello dell'Inquisizione? (ricordiamo che l'ordine templare fu sciolto da papa Clemente V su sollecitazione del re di Francia e i suoi adepti furono sterminati, arsi sui roghi o costretti alla fuga, i loro documenti bruciati e le loro immense proprietà apprese dallo stesso re Filippo il Bello - 1307: arresto dei cavalieri, 1312: concilio di Vienne che stabilisce lo scioglimento dell’ordine, 1314: supplizio dei suoi principali rappresentanti, tra cui l’ultimo gran maestro, Giacomo di Molay).
Escludendo una dimenticanza, la mancata distruzione dei simboli templari si deve far risalire secondo il Bianchi al fatto che la croce tau non aveva un significato univoco ed era stata assunta a simbolo anche da altri ordini monastici.
Dopo Dan Brown dobbiamo chiamare in aiuto anche Umberto Eco e il suo “Nome della Rosa”: il 24 agosto 1308 arriva a Cotrebbia l'Inquisizione, rappresentata dal frate domenicano Guglielmo Cigala da Genova (ricorderete Guglielmo da Baskerville, egregiamente interpretato da Sean Connery), coadiuvato da due confratelli, tre notai e due testimoni che prende possesso della casa templare di Cotrebbia e di tutti i suoi beni. Riassumendo, l'abbazia era effettivamente scomparsa? Non si trattava, da quanto posso capire, di una San Galgano in terra emiliana (San Galgano è un'abbazia nei pressi di Siena con la peculiarità di mancare del tetto: l'erba cresce all'interno dell'importante monumento che ha per tetto solo il cielo), ma di una costruzione non notevole e soggetta, sopratutto da quando era stata abbandonata dai monaci, alle frequenti piene del Po che non aveva gli argini di oggi. La ricchezza dell'abbazia era dovuta soprattutto al lavoro intensivo della terra che la circondava e dai traffici che correvano lungo il fiume. Dopo un lungo excursus storico il Bianchi conclude che la Roncaglia delle diete imperiali non era sicuramente l'attuale frazione ad est di Piacenza (poteva essere o Cotrebbia, come sostengono gli abitanti di Calendasco o una Roncaglia attestata nel basso lodigiano) ma che certamente il Barbarossa passò per Cotrebbia in occasione di ognuna delle due diete che da Roncaglia presero il nome, quella del 1154 e quella del 1158.
Dopo aver immaginato la Piacenza passata, proviamo ad immaginare com'era Cotrebbia in quelle occasioni con le parole dell'illustre medioevalista Franco Cardini (“Il Barbarossa”) “L'aspetto offerto dalla piana di Roncaglia in quel giorno di San Martino doveva essere straordinario: un convergere di feudatari ecclesiastici e laici ciascuno col proprio seguito, una varietà di genti e di costumi, un incrociarsi di lingue e di dialetti, un colorito accorrere di mercanti e di giocolieri e di avventurieri. Un po' festa un po' mercato. Roncaglia doveva essere diventata una specie di grande città mobile al centro della quale si ergeva il grande padiglione d'onore che il re d'Inghilterra aveva donato all'imperatore l'anno prima”.
L'imperatore tedesco ha fatto arrivare dall'Università di Bologna, l'Alma Mater, divenuta la culla del diritto con la scuola dei glossatori, i quattro allievi e successori del grande giurista Irnerio. Essi sono Martino Gosia, detto Copia Legum (larghezza di leggi), Bulgaro detto Os Aureum (bocca d'oro), Ugo di Porta Ravegnana detto Mens Legum (mente delle leggi) e Jacopo che si dice Irnerio avesse definito Id Quod Ego (un altro me stesso).
“Nella piana di Roncaglia – aggiunge Cardini – alla pari che nella Parigi di Abelardo nasce il fenomeno che sarà fedele compagno dell'Europa moderna, il divismo dell' intellettuale, la sua illusione di sentirsi compartecipe del potere politico nella misura in cui questo lo manovra e lo corteggia; forse addirittura l'illusione di essere in qualche modo lui a manovrarlo”.
“Tratto da le Regine di Piacenza di Massimo Solari – edizioni Lir 2010”