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i Duchi Napoleonici di Parma e Piacenza

Basterebbe ricordare che Gian Giacomo Cambacérès e Carlo Francesco Lebrun, valentissimi, uno nella scienza del diritto, l’altro nell’economia, furono colleghi di Bonaparte nel governo succeduto al colpo di stato del 18 Brumajo, per riconoscere ai due personaggi la maggiore importanza storica. Due uomini diversissimi uno dall’altro: il Cambacérès siffattamente curante della esteriorità, da compromettere il suo pur grande valore intellettuale, il Lebrun, sicuro della sua nobile intelligenza, dispregiatore delle vane forme esteriori, freddo, prudente, e per contrario coraggioso, rigoroso prima con sé, che con il prossimo.


Console di Piacenza, Carlo Francesco Lebrun

Carlo Francesco Lebrun mai non conobbe né fatuo orgoglio, né intrigo. Nato a San Sauveur nel 1739 da famiglia agiata, per quanto insistessero, i suoi, nella determinazione di farne un bravo prete, non volle saperne. Né accedette alle esortazioni di darsi all’insegnamento, forse perché nonostante una attitudine naturale all’ordine, era uno spirito insofferente della fredda disciplina burocratica. Dopo magnifiche prove al Collegio di Francia, si recò a Londra a studiarvi le leggi e la lingia inglese, e ritornato in patria venne segnalato come un luminare della giurisprudenza. Nel 1768 occupava il posto di segretario del ministro Maupan, e si mostrò subito così prezioso collaboratore dell’infaticabile ministro, che lo stesso Luigi XV disse a’ suoi: che farebbe Maupan senza Lebrun? Però nel 1773 il ministro veniva cortesemente licenziato, e il Lebrun si trovò , di schianto, senza impiego. Si ritirò quindi nella quiete della campagna, in una sua piccola proprietà, trascorse quindici anni, anche per la fedeltà al suo ministro, fra studi e traduzioni Omeriche, e Tassiane perché anche sicuro interprete della lingua italiana, e pubblicò l’Elogio dell’Abate Terray. La grande rivoluzione lo trovò preparato poiché già aveva additata l’urgenza di riforma della costituzione a favore del Terzo Stato. E nello stesso 1789 il Lebrun pubblicava un opuscolo La Voix du Citoney, in cui era precisata questa strana profezia: “Tosto si leverà un uomo audace, un livellatore, che sulle rovine del passato costruirà un’era nuova. Egli farà l’apologia del dispotismo illuminato e legale, e la vita del mondo verrà assorbita da lui”. Inviato rappresentante del Dourdan agli Stati generali, parlò sempre su materie finanziarie, e con tanta competenza, che lo si volle nella commissione presso Neker. Contrario all’emissione degli assegnati, diceva: “Che volete? che quella carta diventi pane e denaro? Andando per questo via, tutto, nel governo, diventerà carta monetata”. Uomo di fede e di coraggio, nominato amministratore della provincia di Siene et Oise, moderato protesse i moderati, e nel ’92 non esitò a presentarsi alla sbarra a denunciare gli eccessi anarchici di qualche sindaco, e potè avere a sua disposizione truppe per ricondurre l’ordine. Tornò ancora nelle sue terre di Grittou dopo il 10 agosto 1792; ma presto fu tratto dalla sua quieteper per essere mandato alla Convenzione. Il 10 settembre del ’93 venne arrestato e imprigionato a Versailles; ma poscia gli fu permesso di ritornarsene nella sua Grittou, però vigilato. Arrestato nuovamente e trattenuto anche dopo il 9 Termidoro, fu liberato tre mesi di poi, e restituito al suo posto di presidente del direttorio di Seine et Oise, Per la sua profonda dottrina in materia finanziaria, fu degli “Anziani”, e con l’usata franchezza rivide le bucce al direttorio supremo, che lo aveva in uggia. Dei clamori di gloria che arrivavano in Francia sulle gesta di Bonaparte in Italia, egli scrive: “Più che guerriero sarà la meraviglia della storia come politico e amministratore”. Della preparazione del 18 Brumaio nulla sapeva; ma tosto si fece a calmare gli Anziani. Egli avrebbe voluto vincere con la improvvisazione di nuove leggi, ma Bonaparte vinse coi granatieri di Murat. Lebrun si dispose a collaborare al nuovo stato di cose, e Bonaparte gli mostrò deferenza. Per la sua competenza finanziaria il Bonaparte lo scelse a collega nel suo Governo consolare, e Lebrun fu terzo console. Cosi il Bonaparte col secondo console , il Cambacérès, tendeva a dissimulare, agli occhi indiscreti, i suoi piani di dispotismo. Lebrun andò ad abitare, col Bonaparte, alle Tuileries, occupando il padiglione di Flora, pur contenendosi in forma modesta di vita, mentre il Primo Console andava rapidamente modellandosi una corte. Sempre rigido e sempre moderato nella scelta dei mezzi, come consigliò Bonaparte a liberare il suo entourage dagli affaristi, così disapprovò la condanna dei giacobini sospetti di partecipazione all’attentato della macchina infernale. E tale era la sua istintiva moderazione, e così nitida la sua visione di giustizia, che Bonaparte finì per esserne contrariato. Mentre il suo collega Cambacérès andava in fregola per gli onori al suo grado, egli rifiutava perfino la scorta di granatieri, fissatagli dalla Costituzione. Questa bella modestia egli conservò con la sua meravigliosa attività, allorquando all’avvento di Napoleone alla corona, questi lo nominò principe e arcitesoriere dell’ Impero. Era in fama di avaro. Nel 1808 Napoleone commise in feudo il ducato di Parma e Piacenza, dividendo la rendita, fissata in 300 mila lire, in parti uguali fra Cambacérès , a cui accordò il titolo di duca di Parma, e Lubrun , fatto duca di Piacenza. Il Lebrun era scaduto un poco nella stima dell’Imperatore, allorquando nel 1805 lo aveva mandato governatore a Genova; ufficio in cui il dotto finanziere aveva trovato difficoltà quasi insuperabili. Conclusa non brillantemente la sua missione se ne ritornò a Parigi, nel giugno 1806, e riprese il suo posto di arcitesoriere. Napoleone lo trattava con molta freddezza, nonostante degli onori e dei doni che gli accordava, eppure con decreto 8 luglio del 1810 lo nominava suo luogotenente in Olanda, alla abdicazione del Re Luigi, e, poi, amministratore generale. Invocò la grave età per esimersene, ma Napoleone gli disse. “Voi siete l’uomo di cui ho bisogno per l’Olanda. La sera stessa Lebrun si metteva in viaggio e il 14 faceva il suo ingresso nel palazzo di Amsterdam. Non è qui luogo per dire come svolse il suo mandato; ma egli subito entrò nelle simpatie, nell’anima di quel popolo, così che quando a cagione degli avvenimenti, dovette abbandonare, alla fine del ’13, l’Olanda, ormai in fremiti di indipendenza dal despota, rientrò in Francia lasciando così buon ricordo di sé che fu chiamato il “ buon Statholder”. Fedele a Napoleone fino alla abdicazione di Fontainebleau, accettò, poi dai Borboni lo stallo di Pari di Francia. Al ritorno dell’imperatore dall’isola d’Elba, non apparve, la sera del 20 marzo 1815, alle Tuileries, ma riprese le sue cariche, naturalmente con scarsa fede nell’impero ricostituito. Alla seconda restaurazione venne escluso dalla Camera dei Pari dagli esaltati “emigrés”, e non vi rientrò che nel 1819, con vivo compiacimento di Luigi XVIII . Carlo Francesco Lebrun , carico d’anni, moriva il 14 giugno 1824. Di lui fu scritto: “Lebrun attraversò, puro, tutta la rivoluzione. Nessuna accusa può turbare la pace della sua tomba”.


Console di Parma, Gian Giacomo de Cambacérès

Gian Giacomo Règis de Cambacérès nasceva a Montpellier nel 1753 dal ramo cadetto di famiglia nobile di quella regione. Debole di fisico, serio, riflessivo, la sua giovinezza fu turbata del tumultuoso temperamento di suo padre, magistrato alla corte dei conti. Applicatosi con vera passione agli studi giuridici e letterari, a diciannove anni era avvocato, e si stabiliva appunto a Montpellier. Intelligente, colto, bene educato, causeur interessante, ebbe subito buona accoglienza fra i notabili della città. Chiamato a sostituire suo padre, mostrò acume e laboriosità nella pratica delle nuove funzioni; così che presto ebbe altri uffici nella regione. Incorruttibile in tempi in cui la venalità più sfacciata era sistema corrente, egli mostrò di amare veramente la sua professione . Ma poiché la travagliata vita della sua famiglia metteva a dure prove le sue condizioni economiche , dal Re Luigi XVI si ebbe non infrequenti aiuti. Gesto che il Cambacérès parve dimenticare all’orquando si trattò della testa del povero Re. Poiché presto il Cambacérès intravide la necessità delle riforme alle ormai rancide leggi di governo, e si trovò in buona compagnia fra i liberali di Linguadoca. Fu inviato secondo rappresentante degli stati di Montpellier agli Stati Generali della nazione, ma il Re gli negò l’ammissione all’assemblea di Versailles. Il Cambacérès venne quindi eletto a consigliere municipale di Montpellier; e dopo la tragedia della Pastiglia vi fu eletto presidente. Rinnovata nel ’90, coi nuovi criteri di Municipalità della sua città, tolse dal suo nome la particella “de”. Nominato procuratore sindaco, si rivelò fautore audace delle nuove idee. Eletto nel Novembre membro dell’Assemblea elettorale dell’Herault, da questo venne inviato, rappresentante della regione, alla Convenzione. Sedette a sinistra quasi obbedendo alla Montagna, sotto una tal quale austera compostezza, che bene si addiceva alla sua fama, rispettata, di rigido magistrato. Apprezzato elemento nel comitato di legislazione, si oppone alla costituzione della Convenzione in tribunale speciale, per giudicare l’infelice Capeto. Un suo grande discorso fu ascoltato con deferente attenzione, ma poi la Convenzione votò la continuazione delle pratiche, e lo nominò membro della Commissione per la ricerca dei documenti a conforto dell’accusa. Al processo di Re Luigi il Cambacérès votò e, quindi, confermò l’accusa all’infelice prigioniero della Convenzione, di avere attentato alla sicurezza dello stato, ma insistette nel parere che l’accusato venisse giudicato dai giudici ordinari. Aggiunse che la sua morte non sarebbe stata di vantaggio a nessuno, mentre vivo e prigioniero sarebbe stato un prezioso pegno; e solo nel caso di invasione nemica della patria avrebbe dovuto essere eseguita la sentenza. Cosi egli si schermì da votare la morte del Re; ma non appena la Convenzione la ebbe votata, si fece alla tribuna proclamando il gesto degno della Storia e che l’esecuzione avvenisse entro le ventiquattr’ore, con un apparato da intimorire chi avesse le velleità do opporvisi. Egli, con siffatta doppiezza credette di sgravarsi della responsabilità che recava seco un voto deciso, ma i Borboni non la intessero così, e segnarono il suo nome fra i regicidi; non mancarono episodi in cui gli venne rinfacciata la grave accusa. Forse venne convenientemente interpretata, alla Convenzione, la sua doppiezza, poiché fu nominato segretario dell’Assemblea. Come in tempo opportuno si era tenuto a Mirabeau, ora si accostava con altrettanto opportunismo, al Robespierre; così che fu scelto a membro del Comitato di salute pubblica e segretario, e infine presidente. Lavoratore indefesso redasse leggi su leggi, e a lui la repubblica dovette, poi , la riunione delle leggi in un perfetto codice. Grande oratore, di apparente lealismo, trascinava l’Assemblea agli applausi se non sempre alla persuasione. Conobbe il Bonaparte all’orquando l’Aubry propose la di lui destituzione, e gli fu tosto benevolo. Sospettato di tiepido repubblicanesimo, all’avvento del Direttorio, per quanto proposto da molti, non vi fu incluso. Egli allora entrava fra i Cinquecento; ma per un voto negativo al suo progetto di codice civile, dovette rassegnare le dimissioni. Restò a Parigi, ove tenne studio di avvocato, e non la ruppe coi pentarchi del Direttorio; è poiché il suo talento era universalmente apprezzato, alla vigilia della spedizione d’Egitto fu nominato ministro della Giustizia. Bonaparte, che non dimenticava, al suo ritorno dall’Egitto, andò a trovare il Cambacérès. Il generale aveva capito l’uomo, così che il 17 brumajo quegli pranzava conl Bonaparte e coi pochissimi ch’erano a parte del progetto colpo di stato. Il 18 questo ministro della giustizia favoriva siffattamente il colpo contro l’inetto Direttorio, che dal nuovo governo provvisorio veniva confermato nel suo ufficio. E non era che un anticipo di gratitudine; che alla formazione del regolare Consolato, il Bonaparte scelse con fine acume, il Cambacérès a secondo console, e il vecchio, austero Lebrun a terzo. Date le condizioni di questi, accollò al secondo console la presidenza del Consiglio di Stato. Ma tanta mole di lavoro non bastava al Cambacérès, poiché teneva anche un po’ le redini dalla politica e si mostrò un convinto difensore del Concordato. Sarà detto tutto quanto si ricorderà che presiedette cinquanta sedute del Consiglio di Stato, , per discutere e difendere quello che fu il suo capolavoro: il codice civile. Non volle risiedere alla Tuileries e si fece accordare il palazzo Elboeuf, riccamente ammobiliato, a spese della Repubblica, poiché il Cambacérès era un formidabile tirchio. Amante del lusso clamoroso, si costituì una vera e propria Corte, con segretari, maggiordomo, ciambellano, ecc. Prodigo egli non era che per la tavola; e i pranzi intimi e ufficiali del secondo console furono argomento facile alla satira. Mostrandosi contrario alla’arresto di Moreau, protestò ancor più vivacemente per quello del duca di Engien; tanto protestò che il Bonaparte, con sarcasmo tagliente, gli rispose: Siete voi diventato avaro del sangue dei Borboni, voi ! Fu Cambacérès a rimettere al Bonaparte il voto del Senato perché assumesse il titolo di Imperatore: e volle fosse proclamato l’impero a suon di trombe e con un corteo di funzionari e di militari. Naturalmente pensava che immediatamente accanto all’Imperatore dovessero trovarsi, secondo il nuovo protocollo, i due ex consoli; ma si vide preceduto dalla famiglia dell’Imperatore, e ne fu assai seccato. Napoleone lo creò subito Arcicancelliere e principe dell’Impero, e con l’usata larghezza gli fece dono della proprietà Monceau, con giardini, terre, cascine,ecc.; proprietà che il nuovo principe rese al donatore, non volendo addossarsi il carico della manutenzione di tanta grazia di Dio ! Finalmente con imperiale decreto del marzo 1808 Napoleone creava l’arcicancelliere duca di Parma. Già dissi come la rendita del ducato di Parma e Piacenza, sommante a 300 mila lire, venisse divisa in parte eguali, fra Cambacérès e l’Arcitesoriere Lebrun. A questa rendita di 150 mila lire, a quei tempi già straordinaria, Napoleone ne aggiungeva un’altra di 75 mila lire sul Monte Napoleone di Milano, ed altre ancora gli assegnava, a raggiungere, in tondo, le 400 mila lire. Il Cambacérès fu un vero amico di Napoleone, e lo serviva con sincera devozione, cosi ch’egli era consultato anche negli affari privati dell’Imperatore. Fu lui che ottenne, da un concilio di prelati, l’annullamento del matrimonio di Giuseppina, senza ricorrere al Papa, allora prigioniero in Savona, e non certo disposto a favorire il divorzio. Finalmente nel 1813 egli presiedette, durante la reggenza di Maria Luisa, il consiglio dei ministri. Uomo di gran talento, di attività prodigiosa, non era però un saldo carattere; e alla prima abdicazione si fece intorno ai Borboni. Ritornato Napoleone alla Tuileries, il Cambacérès non si fece vivo; la l’Imperatore lo chiamò a corte; e dopo un bonario rabbuffo gli affidò il ministero della Giustizia e gli rinnovò la dignità di Arcicancelliere e Perti Imperiale; ma il Cambacérès visse di paura i Cento giorni. Alla seconda restaurazione la sua parte era finita. Per un attacco di apoplessia il 1° marzo del 1824 si pose a letto, ove languì una settimana, e spirò l’otto successivo. I due duchi di Parma e Piacenza, si spegnevano entrambi, per strano destino, nello stesso anno. Essi restarono nella storia del loro paese, e degnamente, poiché la vissero, non già in quella gloriosa del ducato italiano, se non nei riguardi, ahimè, delle sue stremate finanze.
“Antonio Curti da la Lettura num. 5 del 1924”