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Giustina - Piccole Storie Dimenticate

“Racconto di Piero Zucconi”

Verso il mezzogiorno di un giorno d'agosto del 1854, una vettura a cavalli imboccò la strada sterrata che portava a Campremoldo Sotto, cigolando e sollevando polvere. A bordo, vi erano le sorelle Boselli e Padre Dionigi, il preposto della chiesa di San Nicolò, un vecchietto piccolo, con i capelli lunghi, vestito con una tonaca nera ed un cappello col fiocco rosso in testa. Costui sonnecchiava dondolato dal ritmo della carrozza mentre teneva in mano un libretto con il dorso delle pagine luccicanti d'oro. Il giovane cocchiere che stava a cassetta spingeva i cavalli perché aveva fretta di togliersi dal sole e dalle mosche. Faceva caldo e la sua camicia rossa era macchiata di sudore, ma si sentiva importante perché stava trasportando due bellissime signorine, belle come non ne aveva mai viste. Le sorelle Boselli, Giustina e Caterina stavano andando a Campremoldo, per andare ad abitare presso lo zio Don Azio, parroco del paese, dopo aver lasciato il Collegio delle Suore dove erano vissute da quando erano rimaste orfane della loro madre Teresa Bonetti. Giustina aveva l'animo aperto e per lei quel viaggio costituiva un'avventura che l'avrebbe condotta verso una nuova vita. Tutto la incuriosiva perché era praticamente la prima volta che poteva vedere il mondo, mentre Caterina si trovava a disagio, aveva la faccia rossa e provava malinconia. Quando già si poteva vedere il campanile della chiesa Giustina mise fuori la testa dal finestrino incurante della polvere che le entrava in gola per guardare il paese che sarebbe stato la sua nuova residenza. “E' qui?” chiese al prete che l'accompagnava. Questi si scosse dalla sonnolenza e guardò a sua volta. “Si, disse, siamo arrivati.” Giustina notava che Caterina era triste e capiva anche il perché. Aveva sofferto nel dover uscire dal Collegio, nel dover lasciare le sue compagne e le care suore che per lei erano come tante madri benevole e restava attaccata al braccio della sorella come ad un'ancora di salvataggio. “Vedrete che vi troverete bene” disse Padre Dionigi. “Non siete contente di rivedere Don Azio, vostro zio? Non siete contente di arrivare alla vostra nuova casa ed a questo paese che vi accoglierà con tanto amore?” Ma queste parole non consolavano Caterina che si mise a singhiozzare. La vettura girò verso destra, rallentò il passo e si fermò davanti alla chiesa. Si sentirono voci di benvenuto e subito apparve Don Azio a braccia aperte e con un sorriso di felicità stampato sul volto. Si fece loro incontro, aprì la portiera e diede la mano a Giustina, aiutandola a scendere. “Care! Care le mie nipoti! Finalmente siete arrivate. Scendete, scendete!” “Ne è passato del tempo” disse, “dall'ultima volta che vi ho visto! Come state? Avete fatto buon viaggio? Siete stanche?” Scese anche Caterina. A lei Don Azio disse che si era fatta grande e le porse un fazzoletto perché si potesse asciugare la fronte, lucida per il caldo. Per ultimo scese Padre Dionigi ed i due preti si scambiarono sorridendo frasi di saluto in latino secondo l'uso canonico. Intanto Luigi, il vetturino, scese di cassetta e si mise a scaricare il bagagli che consistevano in due bauli, quattro fagotti e due borse e che contenevano quelle che venivano chiamate masserizie, ovvero il corredo personale delle collegiali. Per lui il viaggio non era finito. Avrebbe portato i cavalli a riposare e poi, verso sera, sarebbe tornato a riprendere Padre Dionigi per riportarlo a San Nicolò. Dalla porta della canonica, apparve una donna con le maniche rimboccate che venne anch'ella a salutare le due nuove ospiti. Era Domenica, la perpetua di Don Azio, una donna non più giovane, con il viso colorito che indossava un largo grembiule di color azzurro cupo. “Oh, mio Dio, mio Dio!” cominciò a dire con la sua voce fine. “Bene, bene, che belle giovinotte! Entrate, entrate.. Che giorno fortunato, oggi!” Poi rivolta a Padre Dionigi: “E che fortuna rivedere fra di noi il reverendo Padre! Che devo fare adesso?” Tutti si avviarono attraverso il cortile verso la porta della canonica, a cui si accedeva salendo tre gradini. Sullo sfondo del cortile vi era un piccolo orto ed un recinto per le galline, sulla destra un forno di mattoni ed al centro una vasca di liquame da cui alcuni gatti si tenevano alla larga. Poco dopo, i due preti e le due ragazze entrarono in una grande stanza dove c'era una tavola apparecchiata su di una tovaglia ricamata. I bagagli furono portati dentro e Don Azio disse alla perpetua di accompagnare le due sorelle nella loro stanza al piano superiore, dove avrebbero potuto risciacquarsi il viso. Sempre agitata e felice, Domenica le fece entrare in una camera luminosa che era stata preparata per il loro soggiorno. Aveva le pareti imbiancate a calce ed era arredata, oltre che da due letti alti con la testata di legno, da un armadio e da un cassettone. In un angolo vi era un porta catino con il bacile pieno d'acqua ed un asciugamani; sotto il letto due vasi smaltati per la notte. Sul comodino, vi era una lampada ad olio ed al centro della parete, in una cornice sagomata, c'era una riproduzione della Sacra Famiglia. Caterina si guardava attorno, sentendosi a disagio e quando la porta si chiuse alle loro spalle, abbracciò la sorella come se non si fossero più viste da tempo. Dopo una mezz'ora, le due sorelle scesero nella sala da pranzo dove già si trovavano i due preti che conversavano amabilmente tra di loro. Si erano cambiate e parevano riposate. Come ad un segnale, Domenica si mise a servire il pranzo che consisteva in deliziosi tagliolini in brodo, una gallina lessata con contorno di una salsa di verdure ed un bel boccellano. Don Azio tempestava di domande le nipoti sulla loro sistemazione, sul viaggio e sul loro soggiorno in collegio. Voleva sapere se erano contente di venire a vivere a Campremoldo, esternando la gioia che provava ad averle nella sua casa. Padre Dionigi pareva particolarmente soddisfatto del pranzo e faceva i complimenti a Domenica che, contenta delle lodi ricevute, lo invitava a riempire di nuovo il bicchiere del vino. Verso la fine del pranzo, il discorso volse sul concreto e Don Azio chiese a Giustina ed a Caterina se avessero delle particolari intenzioni a riguardo del loro futuro. Loro erano delle belle ragazze, ben istruite e di nobile origine e lasciò intendere che, nel caso intendessero formarsi una famiglia, ci sarebbero stati tanti buoni partiti per loro. Non avrebbero sempre vissuto nella canonica di una chiesa di paese e potevano ambire ad un buon matrimonio ed ad una buonissima sistemazione. Naturalmente, c'era tempo per pensarci. Loro erano molto giovani: Giustina non aveva nemmeno vent'anni e Caterina uno di meno. Le due ragazze nel sentire quelle parole si guardarono in faccia stupite, come se una simile idea non fosse loro mai passata per la testa e per un momento sembrò che Caterina stesse per mettersi di nuovo a piangere. A meno che, soggiunse Padre Dionigi in un momento di lucidità, avessero la vocazione per la vita monacale. Il collegio che le aveva ospitate sarebbe stato ben lieto di averle ancora come suore. Giustina non sapeva cosa dire. In cuor suo aspirava ad una vita serena, ma di una cosa era sicura: che non sarebbe tornata in collegio. Avrebbe voluto studiare musica e poter suonare il pianoforte in un teatro affollato oppure diventare una pittrice perché aveva predisposizione per il disegno. Al matrimonio aveva pensato soltanto come ad una lontana eventualità e certamente questo non era un argomento che in collegio venisse trattato spesso, ma come tutte le ragazze, il pensiero dell'amore la aveva più volte accarezzata. Non aveva potuto conoscere uomini che potessero suscitare il suo interesse, ma durante le funzioni religiose che si svolgevano nella chiesa del collegio a cui partecipavano anche gli abitanti del luogo, aveva notato le occhiate che certi giovanotti le lanciavano da lontano e quegli sguardi stimolavano la sua fantasia. Una volta, poteva avere 15 anni, aveva trovato nel suo messale un biglietto messo di nascosto sul quale erano scritti i versi di una poesia: Più volte il rumore di neve ho sentito sul cuore poi tu...una brezza satura di bianchi profumi m'hai posto candida la luna tra le mani. Aveva pianto nel leggerli. In essi aveva trovato una sensazione che non aveva mai provato. Erano parole che sentiva provenire da lontano e che riempivano un vuoto del suo cuore. Non sapeva chi potesse essere stato a scrivere quel biglietto, né lo seppe mai, ma per tutta la vita non avrebbe dimenticato quelle parole. Il trasferimento a Campremoldo aveva radicalmente cambiato il modo di vivere delle sorelle Boselli. Giustina non aveva rimpianti e trovava piacevole la sua nuova vita sentendosi libera di condurre a suo piacimento le giornate. Faceva piccoli lavori di cucito, aiutava Domenica nelle faccende di casa, curava gli animali del cortile e andava a raccogliere i frutti dell'orto. Aveva preso l'abitudine di andare, verso il tramonto, a fare delle passeggiate assieme a Caterina che, anche se non era gran ché entusiasta, accettava di buon grado di mseguirla. Così le due sorelle avevano incominciato a fare conoscenza con gli abitanti del paese o delle cascine circostanti e dovunque erano accolte con curiosità e simpatia, anche se non mancavano le persone che storcevano il naso quando si parlava di loro, considerando il loro riserbo e la loro naturale eleganza come un segno di distacco. Fu così dato loro un soprannome ironico che le definiva 'signorine dai bei papé'. In seguito, Caterina, sotto la guida dello zio, aveva iniziato ad insegnare il catechismo ai bambini del paese. Era molto impegnata allo svolgimento di quel compito che suscitava più di ogni altro il suo interesse. Aveva una particolare attitudine all'insegnamento e le piaceva molto avere a che fare con i bambini a cui si affezionava sempre di più. I suoi prediletti erano i più piccoli che prendeva in braccio e baciava con affetto. Così incominciò a sognare di poter un giorno fondare una piccola scuola dove avrebbe potuto insegnare non solo il catechismo, ma tutto quanto aveva appreso negli anni di collegio. Aveva portato con sé alcuni libri che potevano servirle nel suo insegnamento; altri se li sarebbe fatti inviare da suo padre il signor Angelo, fratello di Don Azio, a cui inviava lunghe lettere piene d'affetto. Il padre di Giustina e di Caterina era Giudice di Tribunale e svolgeva questa importante carica a Milano. L'ultima volta che le due ragazze l'avevano visto era stata in occasione della chiusura dell'anno scolastico al collegio, quando si era tenuta la festa d'addio prima della loro partenza per Campremoldo. Giustina conobbe Giulio Pecorini il 10 luglio dell'anno 1855 in occasione della festa di San Lorenzo, che era il patrono di Campremoldo. Quel giorno in paese, nella piazzetta davanti alla chiesa, erano allestiti banchi di vendita di ogni genere: prodotti locali, vasi e pentole, granaglie, maglieria e capi d'abbigliamento, cappelli, dolciumi e giocattoli. Era venuta gente anche dai paesi vicini, attratta dal clima di festa e dalla speranza di poter concludere affari, di fare buoni incontri e di salire sulla balera. In mattinata si era svolta la Messa solenne, celebrata da Don Azio e dal parroco di Campremoldo Sopra. Nel pomeriggio, alle quattro, si era tenuta la funzione e la statua del santo era stata portata in processione dalla chiesa ad una cappella che si trovava vicino al cimitero nuovo, dove era stata impartita la benedizione solenne. Ma le brigate dei giovani non riuscivano a frenare la loro impazienza di poter raggiungere lo spiazzo selciato dove era stata allestita la balera e dove già si rincorrevano dei bambini scapestrati che gridavano eccitati. I suonatori erano arrivati da Gragnano. I loro strumenti erano una chitarra, un violino ed un mandolino e tenevano sulla loro pedana due pinte di vino che costituivano il loro compenso professionale. Quando venne il momento, iniziarono la loro esibizione tra l'esultanza della folla che subito si mise a battere le mani ed a fare passi di danza seguendo il ritmo della musica. Le suonate erano vivaci, allegre e riuscivano a creare un gioioso clima di festa come non si sarebbe riusciti altrimenti. Le danze erano improvvisate sul ritmo della Quadriglia o della Monferrina, ma il ballo preferito era quello che si faceva tenendosi le mani e si girava in tondo al suono di una mazurka. Giustina non aveva mai assistito ad un ballo ed era curiosa di vedere cosa stava accadendo, ma quando le prime note degli strumenti riempirono l'aria, sentì il cuore volarle via. Quella musica vivace e limpida era ben diversa da quella che un organo poteva suonare in chiesa e lei si sentì trascinata da una sensazione nuova e mai provata. Si guardava continuamente in giro per vedere dove si trovasse sua sorella Caterina perché avrebbe voluto vivere quel momento assieme a lei. Non si era accorta che Giulio la stava guardando trasognato. Era arrivato in calesse da Castel San Giovanni assieme ad alcuni amici, curiosi di poter vedere le belle ragazze del paese. Le voci correvano e la fama delle sorelle Boselli era arrivata fin là, ma ora, mentre stava ammirando Giustina, capiva che non era una fama immeritata. Lei era seduta su di una seggiola sul sagrato della chiesa, all'ombra di un ombrellone di paglia. Portava una camicetta bianca ricamata ed una lunga gonna azzurra che la facevano sembrare un angelo. Il suo viso assorto ed il capo eretto le davano un'aria signorile e nobile. Giulio non aveva mai visto una ragazza più bella e non faceva caso alle gomitate ed alle risate che gli indirizzavano gli amici. Senza pensarci due volte, le si avvicinò e le disse: “ Mam'selle, è questa una dolce giornata?” Giustina nel vedersi davanti quel giovanotto vestito di tutto punto che, dopo un leggero inchino, le stava rivolgendo la parola in quel modo così rispettoso, restò stupita, ma lui le aveva fatto una domanda e le parve giusto rispondere. “Oh, si. Molto bella.” “Vi piace il suono della musica?” “Si, signore, mi piace.” Giulio si consolò di quelle risposte e l'ansia che lo aveva preso prima di avvicinarsi a lei lo abbandonò, nonostante sentisse su di sé certi sguardi indispettiti per essersi preso quella libertà. “Io sono il signor Pecorini Giulio, figlio di Pecorini Camillo, proprietario della tenuta di Malaspina di Castel San Giovanni. Vi chiedo il permesso di poter venire domenica a farvi visita.” “Per quale motivo?” “Essendo voi la nipote di don Azio.” “Come lo sapete?” “Non vi chiamate Giustina?” “Si. Chi vi ha detto il mio nome?” “Nessuno. Ma ho saputo che qui a Campremoldo Sotto la più bella del paese era una mam'selle che si chiamava Giustina ed ho pensato che foste voi, perché da che vivo non ho mai visto una bellezza al vostro pari.” A Giustina venne da ridere. Non era abituata a parlare con i giovanotti e le avevano detto che era una cosa da evitare, ma trovandosene davanti uno che le stava dicendo simili cose, non vedeva perché non potesse farlo. “Non vi sembra di esagerare?” chiese. “Nondimeno. Posso dunque venire domenica a farvi visita per chiedervi di concedermi la vostra amicizia?” Giulio non era un gran parlatore, ma probabilmente in quel momento era ispirato dal cielo. “Perché?” Perché quell'uomo voleva diventare suo amico? Non capiva lo scopo. Ma lui insistette. “Perché vorrei esprimervi i miei sentimenti.” Ah, ecco! Era per quello! Lui provava un sentimento per lei! Giustina si sentì di colpo trasportata in una situazione di cui aveva sentito parlare, ma che non aveva mai provato di persona. Quel tipo di situazione che porta all'unione di due anime! In collegio l'argomento era stato affrontato con discrezione e comunque le era stato insegnato che questa unione poteva avvenire solo con la benedizione di Dio. Ma lei ora aveva davanti a sé un giovanotto in carne ed ossa che, capiva bene, chiedeva il suo amore e quella non era una cosa che si poteva decidere su due piedi. Da come le si era presentato, le pareva simpatico, ma era la prima volta che lo vedeva ed il suo intuito femminile le consigliava di non accettare proposte. “No, signore” rispose. “Non potete venirmi a trovare senza che io vi conosca.” Girò il capo facendo intendere che il loro colloquio era finito. Giulio tornò dai suoi amici amareggiato. Tutti volevano sapere cosa gli aveva detto la nipote del prete, ma lui era diventato scontroso e non rispose a nessuno. Caterina che aveva visto, dalla porta della chiesa dove stava appoggiata, la sorella parlare con un signore che era stato bruscamente da lei allontanato, era curiosa di sentire dalle parole di Giustina cos'era accaduto. “Quello?” rispose Giustina. “Voleva venire a farmi visita domenica prossima.” “Per quale questione?” “Per dimostrarmi la sua amicizia.” “E' una cosa buona?” “Oh!” rispose con sufficienza la sorella. “Non so. Forse vorrebbe sposarmi.” “Cosa? Dovrai dirlo allo zio.” “Gli ho già risposto. Ho detto che non ne avevo la minima intenzione.” “Perché vorrebbe sposarti?” Giustina, nel sentire questa domanda fu presa da un moto di tenerezza. “Forse perché se io accettassi, si sentirebbe felice. Forse mi ama.” Ma se ti sposassi, dovresti andare a vivere lontano da qui!” Quella notte si misero assieme alla finestra della loro camera a guardare le stelle cadenti... Dopo quel giorno, di quell'episodio, le sorelle Boselli non parlarono più, ma il suo ricordo aleggiava, con intenti diversi, nelle loro menti. Caterina si era resa conto di una eventualità sinora ignorata e annaspava in riflessioni che cercavano di scongiurare un eventuale distacco dalla sorella. Non avrebbe sopportato di staccarsi da lei senza che avvenisse qualcosa che compensasse la perdita di un equilibrio consolidato, anche se non avrebbe saputo indicare quale avvenimento avrebbe potuto fungere per lei da compensazione. Viveva emotivamente il momento come se da un giorno all'altro Giustina potesse abbandonarla per sempre per andare a vivere con uno sconosciuto. Ed anche la tranquilla serenità che Giustina ostentava le pareva una posa per meglio confonderla. Infatti, le cose andarono avanti e Giulio non si diede per vinto. Continuò a presentarsi alla casa di Giustina per tutta l'estate e nel successivo inverno facendo proposte di nozze e portando regali., Giustina non era per niente condiscendente, ma il suo atteggiamento col tempo diventava sempre più tollerante e quando si videro arrivare a Campremoldo i sensali, si capì che presto ci sarebbero state le nozze. Giustina si avviò così verso il matrimonio con passo sicuro e con l'animo quieto che possiede chi sa di fare la cosa giusta. Il suo futuro sposo, Giulio Pecorini, era un giovanotto semplice, ma affezionato e lei lo trovava di buon carattere e di umore allegro. E non era nemmeno brutto: aveva occhi chiari e capelli castano-rossicci, era abbastanza alto, largo di spalle, col viso tondo ed il naso sottile. La sua famiglia era benestante. Suo padre possedeva una azienda agricola, che era una delle maggiori della zona, a Malaspina di Castel San Giovanni e che aveva alle dipendenze quattro famiglie di contadini. Giulio era di buona disposizione: non disdegnava di scendere nei campi e di provvedere ai lavori della campagna. Giustina sarebbe andata a vivere là, dove tutti l'aspettavano come se in quell'ambiente dovesse entrare un raggio di sole. Tutti pensavano che quello sarebbe stato un buon matrimonio perché nasceva sotto buoni auspici anche da un punto di vista sociale. La famiglia dello sposo era benestante, ma quella di provenienza di Giustina era di ceto più altolocato, stante il fatto che il nome dei Boselli era legato ad un'aura nobiliare esistente fin dal tempo dei Farnese. Il padre di Giustina e di Caterina, Angelo Boselli non erano nobile titolato, ma nobile nominato, e faceva parte del Consiglio Superiore Ambrosiano che era formato da 144 membri. Giustina avrebbe portato in dote, oltre al corredo, alla biancheria e l’insieme degli oggetti o delle “cose minute” che la donna, andando in sposa, portava in casa del marito, tutta la considerazione che il beneficio ecclesiastico poteva vantare a quei tempi. Un mese prima della data del matrimonio, che era fissata per il 12 di maggio (del 1856), Don Azio Boselli ed i genitori dello sposo si trovarono per perfezionare il programma della cerimonia e per compilare la lista degli invitati alle nozze. Naturalmente il rito nuziale si sarebbe tenuto nella chiesa di Campremoldo e sarebbe stato celebrato dallo stesso Don Azio, zio della sposa. Poi nello spiazzo selciato adiacente all'osteria, sotto il pergolato di glicini, si sarebbe svolto il pranzo di nozze con invitati che sarebbero stati accuratamente scelti. Particolarmente eccitata da questo impegno era la signora Rosa, madre dello sposo e futura suocera di Giustina. Innanzitutto diede la disposizione per l'abito che doveva essere rosa, come il suo nome. Si sentiva responsabile dell'acconciatura di Giustina in quanto la ragazza era orfana e Rosa, che di cognome faceva Zanlunghi, pensava che d'ora in poi avrebbe dovuto essere lei a farle da madre. Poi puntò le proprie ambizioni sulla presenza alle nozze dei personaggi più altolocati della zona, nominando come possibili invitati tutti i nobiluomini che le venivano in mente, incitando don Azio ad invocare la presenza anche delle più alte cariche ecclesiastiche compreso Sua Eccellenza il Vescovo di Piacenza ed il Prefetto di Castel San Giovanni. Suo marito, Camillo Pecorini, la lasciò sfogare a piacimento e poi, seminando nella moglie il sospetto che un eventuale rifiuto di qualcuno di questi personaggi, causato dal tutto sommato modesto contesto paesano, avrebbe potuto portare discredito al loro buon nome e magari gettarli nel ridicolo, incominciò più realisticamente a compilare una lista che potesse soddisfare le esigenze di tutti. “Con tutto il rispetto” obiettò la signora Rosa, “spero che ad un matrimonio elegante come questo, non partecipi gente vestita in un modo qualsiasi. Ed intendo riferirmi alla gente di questo paese, ai contadini ed ai braccianti al servizio di Don Azio e della chiesa!” Don Azio rispose tranquillamente che l'abito non poteva condizionare la partecipazione di brave persone che ritenevano quello un giorno di festa, ma era sicuro che tutti avrebbero portato il loro vestito migliore, magari levandolo da poveri armadi che puzzavano di naftalina. Il matrimonio tra Giulio e Giustina si svolse in un clima gioioso e sereno come era quel giorno di Maggio, già caldo e assolato. La sposa fu accompagnata all'altare dal padre, il signor Angelo Boselli che era arrivato appositamente da Milano per la cerimonia. Lui aveva la carica di Presidente della Circoscrizione Giudiziaria della Ghisolfa e non vedeva le figlie da quasi due anni, quando avevano lasciato il Collegio. Con loro però si teneva in corrispondenza scrivendo lettere in francese per stimolare la loro conoscenza di quella lingua che veniva usata dalla parte alta della società. Dopo la perdita della moglie Teresa, che era morta nel 1842, si era risposato con la contessina Balducci che non aveva accompagnato il marito al matrimonio per convenienza e per rispetto alla sposa che avrebbe potuto turbarsi al ricordo della propria madre, vedendo un'altra donna al fianco di suo padre. Lo aveva accompagnato il fratello Osvaldo, altro zio di Giustina che era commerciante di seterie e possedeva un allevamento di bachi in Lomellina. Quello per Campremoldo fu un giorno di festa. La partecipazione fu ampia, ma la maggior parte degli invitati apparteneva alla famiglia dello sposo che poteva contare molte conoscenze fra i notabili e i proprietari terrieri del luogo. La bellezza della sposa suscitò grande ammirazione. Giustina indossava un abito color rosa pastello ed in testa portava una coroncina di fiori bianchi che la facevano apparire radiosa. Testimoni del matrimonio furono lo zio Osvaldo ed il signor Romersi Ferdinando della Parrocchia di Castel San Giovanni. La signora Rosa, madre dello sposo, sfoggiava un abito a dir poco strepitoso, dotato di un'ampia scollatura e di gale dorate applicate su un tessuto di raso verde e blu. La futura suocera di Giustina pareva al settimo cielo ed in quel giorno tanto atteso viveva il suo trionfo dispensando gesti di sublime amabilità verso le altre signore presenti. Il momento del “si” era stato accompagnato da spontanei battimani e quando, finita le cerimonia, i due sposi apparvero fuori dalla chiesa furono fatti oggetto di lanci di fiori. Don Azio, dopo aver benedetto la coppia, sorrideva beato e si concedeva ai complimenti dei presenti con rassegnata modestia. Tutto andò per il meglio. La campana della chiesa suonò a distesa quando la compagnia si diresse verso il pergolato sotto il quale si sarebbe tenuto il pranzo di nozze. Il padre dello sposo, il signor Camillo che amava farsi chiamare “di Villa Malaspina”, durante il pranzo, tra un piatto di anolini in brodo e una fetta di maiale al forno, si era messo a discorrere con il padre di Giustina sulla situazione politico - amministrativa della regione. I due erano di fede opposta: Pecorini aveva nostalgie filo austriache, mentre il Boselli era un acceso sostenitore dell'annessione allo Stato Piemontese. Il territorio piacentino in quegli anni aveva spesso cambiato padrone a seconda degli avvenimenti storici dell'epoca. Nel 1814 era avvenuta la restaurazione al dominio Francese e si era formato il Ducato di Parma e Piacenza, retto da Maria Luigia d'Austria fino alla sua morte avvenuta nel 1849. Ma nel 1848 a seguito della insurrezione di Parma, gli austriaci si erano ritirati da Piacenza ed un plebiscito aveva stabilito l'annessione di Piacenza al Piemonte. Gli però Austriaci nell'Agosto dello stesso anno rientrarono in città e l'Amministrazione Piemontese dovette ritirarsi a Castel San Giovanni. Maria Luigia morì nel 1847 ed a lei succedette Carlo II di Borbone che nel 1849 abdicò a favore del figlio Carlo III. Quando questi venne ucciso in un attentato, assunse la reggenza Luisa Maria di Borbone che la tenne fino al 1859 quando lasciò Parma a seguito delle guerre di indipendenza italiana che si conclusero con l'annessione del Ducato al Piemonte e la proclamazione del Regno d'Italia del 1860. Tutte queste vicende però non avevano influito gran ché sulla vita quotidiana degli abitanti della regione che avevano continuato a svolgere le loro attività cercando di cavarsela al meglio. Caterina era seduta a tavola accanto allo zio Osvaldo che le prospettò l'idea di trasferirsi da lui a Milano, dato che ora non avrebbe più avuto la compagnia della sorella. Lui non aveva figli e l'avrebbe allevata come se fosse stata figlia sua. Quella proposta confuse Caterina che già si sentiva triste e malinconica per l'inevitabile distacco da Giustina che il matrimonio avrebbe causato e non immaginava come avrebbe potuto affrontare anche il distacco dallo zio Don Azio e da Campremoldo. In quel momento proprio non poteva pensare all'eventualità della proposta fattale dallo zio Osvaldo e si sentiva confusa per cui cercò di sottrarsi all'argomento con la scusa che quella era una giornata di festa ed ogni altro discorso poteva apparire fuori luogo. Giustina volle che il suo matrimonio venisse rallegrato dalla musica. Venne chiamato il Gino della Risiera, il violinista che aveva suonato l'anno precedente in occasione della festa di San Lorenzo e la sposa pretese di ballare con suo marito al suono della musica. Né l'uno né l'altro sapevano ballare in termini di passi, ma si misero a fare una specie di girotondo tenendosi per mano. Giulio, felice e inebetito, sorrideva impacciatissimo mentre si esibiva a quel modo, subendo i fischi degli amici invitati. Il gruppo di quei giovani era stato il più rumoroso durante il pranzo e pareva particolarmente interessato a Caterina alla quale gettavano spesso occhiate di apprezzamento. Lei, seria nel comportamento, immersa in cento pensieri, appariva compassata e quasi estranea all'avvenimento. Aveva i capelli raccolti con un ciuffo di trecce sulla nuca e teneva le braccia conserte mentre guardava la sorella ballare a quel modo col suo sposo. La sua somiglianza con Giustina era evidente e molti la consideravano non meno bella di lei. Ad un certo punto, un giovanotto più audace degli altri, tale Giacinto Scotti di Ganaghello, ebbe la bella idea di invitarla a ballare, ma lei, dopo essere rimasta imbarazzata da quella richiesta che trovava assurda, rifiutò pensando che quel giovanotto o era pazzo o aveva bevuto troppo. Il violinista suonò a lungo i pezzi più belli del suo repertorio e quando la musica tacque per esaurimento, venne il momento della partenza. Gli sposi con il loro seguito dovevano trasferirsi nella loro casa a Villa Malaspina. Una fila di due carrozze e di tre calessi si apprestò a raccogliere coloro che avrebbero fatto parte della comitiva, mentre la compagnia si scioglieva e ciascuno prendeva la propria strada. Un gruppo di donne e di ragazze, che non avrebbero seguito il corteo, attorniò Giustina per gli ultimi saluti e per farle le raccomandazioni del caso. Il momento era toccante ed i toni accorati e sinceri evocavano un addio. Don Azio indirizzò un breve discorso augurale agli sposi che concluse con la sua benedizione. Domenica, la perpetua, che tanto si era prodigata nella preparazione del pranzo e del corredo, consegnò a Giustina una cesta di uova quasi temesse che lasciando Campremoldo non potesse trovarne altrove. Infine venne il momento del saluto a Giustina da parte di suo padre che le diede in dono una scatola di velluto rosso contenente i gioielli che erano appartenuti a sua madre e che lui aveva conservato dopo la sua morte. Ora li donava a sua figlia in quel momento tanto importante per lei. Questi consistevano in una spilla in oro giallo con incastonato un rubino, un'altra con la testa di un sebilinio a quattro zampe, un cammeo raffigurante un volto di donna, due anelli d'oro, uno con smeraldi a punzoni e l'altro con una pietra d'ametista, un bracciale “da balia” decorato e una catenina d'oro di maglia marinara. Nel momento dell'addio, Caterina, che non poteva trattenere le lacrime, abbracciò la sorella e le consegnò una lettera da lei stessa scritta dicendole che quando avrebbe avuto occasione di leggerla vi avrebbe trovato i suoi più fervidi auguri di ogni bene. La giornata era stata calda e ventilata ed ora il cielo era pieno di nuvole bianche. Dopo la consuetudine di tutti quegli anni passati accanto alla sorella, Caterina si trovò per la prima volta ad andare a dormire senza la sua compagnia. Il sole di quel giorno era tramontato ed il buio stava per avvolgere la terra. Il giorno seguente, Giustina si svegliò con l'impressione di aver fatto un sogno, ma non ricordava quale poteva essere stato. Anche se il sole si era già alzato, la stanza era in penombra, le imposte erano chiuse e la luce era attutita La casa era silenziosa e dall'esterno arrivava il rumore di un carro trainato da un cavallo e l'assordante voce degli uccelli che riempivano gli alberi che circondavano la villa. Restò a guardare le mosche sul soffitto della stanza ed a pensare. Quasi si stupì che nel letto in cui aveva dormito ci fosse posto per un'altra persona perché ora stentava a ricordare chi fosse. Questa considerazione che le era apparsa alla mente le mosse la bocca ad un sorriso che richiamava un mistero tanto semplice da non potersi definire tale. Si alzò dal letto e andò alla finestra. Anche il paesaggio era diverso da quello del giorno precedente. C'era un vasto cortile nel quale si aggiravano persone a lei sconosciute e più oltre alcune basse colline, costellate da case fra le quali biancheggiava un campanile. Un senso di disagio la colse. Era qualcosa di indefinibile che riguardava il profondo del suo animo, ma c'era una parola che spiegava questo suo disagio e quella parola era solitudine. Cercò di capirne le ragioni e mentre faceva questo subito il suo pensiero corse a sua sorella Caterina. Non poteva essere altro. Avevano vissuto insieme per troppo tempo per potersi staccare da un giorno all'altro e dimenticare tanti anni di vita comune. Pensò che il giorno precedente, quello del suo matrimonio, l'aveva vista solo di sfuggita, sommersa com'era stata dalla eccezionalità dell'evento. C'erano stati i preparativi, la funzione, il pranzo, il viaggio verso la sua nuova abitazione e tante, tante persone che l'avevano distolta da lei, che si era quasi appartata per un motivo di discrezione o da timidezza. Caterina aveva lasciato alla sorella il posto di preminenza che le competeva per non disturbare la sua felicità o comunque per non invadere un giardino non suo. Solo al momento dei saluti e del distacco, quando la carrozza degli sposi stava per prendere la direzione della loro nuova casa, le si era avvicinata e, dopo averla baciata con tutto l'affetto che sentiva, le aveva consegnato una lettera con l'intenzione di poterle dire finalmente le parole che non era riuscita a dirle a voce. Il ricordo di quel momento scosse Giustina come se si fosse sentita colpevole di non aver subito letto quella lettera. La trovò ancora nella tasca della sua borsa da viaggio e con un senso di frenesia l'aprì e la lesse. “Carissima sorella, alla vigilia del tuo matrimonio mi affretto a scriverti per augurarti tanta felicità, quanta la si può augurare sulla terra a persone a noi care. Le mie preghiere accompagneranno con tanto affetto gli auguri. Mia cara sorella, noi abbiamo vissuto insieme per tanti anni al Collegio dopo la morte della nostra cara mamma e questa vicinanza tra di noi ha mitigato il nostro dolore. Anzi, tu sai che io ero felice di quella vita con le care Madri e con te vicino. Speravo che avremmo vissuto sempre assieme anche quando siamo arrivate a Campremoldo dal nostro caro zio, sacerdote di Dio, ma il destino ci porta ora lontane l'una dall'altra perché tu dovrai badare al tuo sposo ed alla nuova famiglia che ti stai formando. Malgrado io capisca tutto questo, sento la tua mancanza come un peso insopportabile che grava sul mio cuore. Da principio speravo che col tempo avrei potuto abituarmi all'idea, ma ora capisco che questo non avverrà e che non potrò evitare un destino che mi era ignoto, ma in cui non speravo. Adesso non so che cosa farò, ma certamente chiederò a Dio di darmi la forza di superare questo momento triste, ma che spero sia per te gioioso. In attesa di poterti riabbracciare, ti mando un saluto che contiene tutto l'affetto che porto per te nel cuore. La tua affezionatissima sorella Caterina.” Giustina rimase a lungo a meditare le parole della lettera che rilesse più volte. Lacrime silenziose le bagnavano il viso e nella fissità del momento si sentì piena di un rimorso che non aveva ragione di esistere, ma che le appariva reale e doloroso. Le mosche ronzando le si posavano sulle braccia e sul viso, ma lei non le sentiva e non faceva nulla per scacciarle. Passarono un paio di giorni ed il mercoledì mattina Giustina pensò che non poteva più rimandare e che era venuto il momento di mettere in atto la decisione che aveva preso. Si alzò dal letto, si sciacquò il viso nel catino che era sul treppiede accanto alla finestra, indossò l'abito scuro e gli scarponcini di capretto. Scese adagio le scale e si trovò in soggiorno. Se avesse proseguito per la cucina, avrebbe potuto trovare persone premurose che le avevano senz'altro preparato la colazione. Invece, trovò la porta aperta ed uscì in cortile. Giulio era uscito dalla villa quando faceva ancora buio e si era recato alla stalla perché una mucca aveva partorito, ma al suo rientro aveva appreso la notizia che Giustina non si trovava più e non si sapeva dove poteva essere. Era rimasto esterrefatto alla notizia della scomparsa della sua giovane sposa ed ora era disperato. Con l'aiuto di tutti gli abitanti della villa iniziò subito le ricerche, prima in tutta la casa e poi nelle aie e nei cortili, lungo i sentieri che costeggiavano i fossi pieni d'acqua. Non trovava un motivo che potesse aver causato quel fatto e mal sopportava certi sguardi che gli erano indirizzati, come se lui potesse avere anche una minima, colpa in quello che era avvenuto. Era sicuro che si trattasse soltanto di un disguido, di una disattenzione di Giustina che presto avrebbe avuto una spiegazione innocente. Si diceva che tutto si sarebbe risolto per il meglio, ma la preoccupazione che provava faceva crescere in lui pensieri terribili. Qualche tempo dopo, saltò fuori che una bambina, figlia di contadini della tenuta di Villa Malaspina, aveva visto Giustina uscire dal portale del muro di recinzione e dirigersi a piedi sulla strada in direzione della chiesa. La bambina rispondeva a monosillabi alle domande ansiose che Giulio le poneva e quando le venne chiesto se le aveva detto qualcosa, disse che la signora l'aveva accarezzata sul capo dicendo che stava andando a casa. Cosa aveva voluto dire? A casa, dove? Questa adesso era la sua casa. Poteva aver pensato di tornare a Campremoldo? Così a piedi? Da sola? C'erano dieci miglia di strada da fare per arrivare fin là. Ma Giulio pensando al carattere della sua sposa, capì che forse aveva voluto davvero fare questo. Perché l'avrebbe fatto? Non era stata contenta di essersi sposata? Ma sopratutto, se avesse avuto questo desiderio, perché non glielo avrebbe detto? Se avesse voluto tornare da suo zio e da sua sorella, non poteva dirglielo? Lui l'avrebbe accontentata in tutto ed avrebbe potuto accompagnarla lui stesso, evitandole un'azione sconsiderata. Non stette a pensarci su tanto. Prese il cavallo, lo attaccò al calesse e partì con furia all'inseguimento, cercando di rassicurare sua madre che lo guardava ansiosa mentre faceva schioccare la frusta. All'incrocio della strada per Borgonovo, Giulio vide Pietro, il vecchio fattore che stava sorvegliando l'acqua di un canale di irrigazione. Lì accanto vi era un mistadello sul quale vi era un'immagine della Vergine dipinta nell'atto di ricevere un canestro di frutta da un angioletto. Quando Giulio gli arrivò vicino, Pietro si tolse il cappello e lo salutò con l'amabilità di un vecchio compare. Il suo aspetto era dignitoso, quasi altero per la patina di saggezza che gli si era disegnata sul volto a causa dell'età. “Cosa fa il signorino in giro tutto solo a quest'ora?” chiese Pietro a Giulio. “Ho saputo che avete preso moglie.” “Si.. Adesso ho moglie!” Naturalmente non voleva raccontare particolari che potessero suscitare sospetti al suo interlocutore e buttare in giro una notizia che avrebbe potuto essere fraintesa. “E' una bella cosa” disse Pietro. “Una moglie, bene, bene.. La vostra giovane moglie starà magari dormendo a casa e voi gironzolate tutto solo in calesse. Che mondo bizzarro!” disse ridendo. Come se l'avessero stuzzicato sul vivo, Giulio sussultò ed arrossì. “Diavolo, lei non sta in casa!” disse perdendo ogni riservatezza. “Non c'è affatto! Non so dove sia ed io la sto cercando. Per caso, non l'avete vista passare di qui?” “No, non si è visto nessuno, né tantomeno una donna tutta sola. Magari sarà andata alla chiesa.. Vedrete che presto la ritroverete.” “No, alla chiesa non è andata. E' facile per voi dire queste cose, ma io ho paura che sia finita in disgrazia.” “Non state a pensar male. A volte alle femmine girano in testa certe idee che noi non si immagina. Non dovreste badarci, ma vedo che voi ne sentite già la mancanza!” “Come potrebbe essere diversamente? Mi sono sposato proprio tre giorni fà e lei se ne va via tutta sola! Io penso che sia tornata a casa sua a Campremoldo ma come può essere? Se ne parte tutta sola a piedi? Mi avesse detto: Vado a Campremoldo.. Torno domani... l'avrei accompagnata. Invece se ne è andata così, senza dire niente. Deve essere proprio tornata al suo paese perché non trovo un'altra spiegazione.” “Siete innamorato, è evidente..” disse Pietro. “Si, ma anche lei mi ama, io lo so. Mi ama, ma prima non mi voleva sposare! Un anno ho dovuto lottare con lei. L'avevo vista alla fiera di San Lorenzo e me ne ero subito innamorato, sarei entrato anche nel fuoco per lei! Lei stava a Campremoldo, quello di Sotto, a dieci miglia di distanza da casa mia e io non avevo nessuna possibilità. Non potevo vederla, potevo solo mandarle dei regali. Le ho offerto questo e quello, orecchini, boccellani e mezzo mastello di miele, ma lei, niente! Rifiutava di incontrarsi con me. E che dovevo fare allora? Sotto sotto pensavo di non essere adatto a lei. Lei è giovane e bella e io tra poco avrò trent'anni e bello, poi bah! Con questa faccia liscia come un melone, come posso fare paragoni con lei? Cosa sono queste terre e questa villa di fronte a lei? Ma anche suo zio che è prete ha della terra. Ha tre buoi e due lavoranti. Mi sono innamorato, caro Pietro, ho perso la testa. Non dormivo, non mangiavo e stavo come non avrei augurato a nessuno di stare. Ci credete? Tutte le settimane andavo a Campremoldo per rivederla, ma non mi ha mai voluto incontrare. Solo a Pasqua finalmente l'ho rivista. Lei stava vicino alla chiesa con sua sorella e sembrava la persona più felice del mondo! Mi sono così arrabbiato che l'ho chiamata in disparte e le ho parlato per un'ora intera. Le ho detto tante cose che.. non so come, lei: paf! Incomincia a volermi bene! Non mi aveva amato per un anno, ma dopo quelle parole ha incominciato a volermi bene!” “E quali parole?” “Quali parole? Chi se le ricorda? Mi scorrevano in testa come l'acqua che scende dalle grondaie e gliele ho dette tutte senza riprendere fiato! Dio me le ha ispirate perché adesso non sarei capace di dirne nemmeno una. Si, si è decisa a sposarmi! Ci siamo sposati tre giorni fa e lei era felice. Ma adesso è scomparsa e io non posso lasciarla andare. Non posso stare senza di lei. Non posso! Più ci penso e più sono convinto che è tornata da suo zio, a Campremoldo. E da sua sorella. Lei ha una sorella bella come lei a cui è molto affezionata. Vorrei che lei mi amasse soltanto la metà di quanto ama sua sorella e suo zio! A piedi si è messa in viaggio, a piedi! E' andata via in un momento che nessuno l'ha potuta vedere, ma adesso ho deciso: la vado a riprendere con il calesse.” Salì, prese la frusta e la fece schioccare. Mentre il calesse si stava avviando, Pietro gli gridò dietro: “La frusta tenetela per lei!” Giustina camminava in fretta sulla strada diritta contornata da alberi di gelso. Chiusa nei suoi pensieri teneva lo sguardo fisso al suolo cercando di evitare i sassi e le buche del terreno. Non sapeva se quella era la strada giusta per arrivare a Campremoldo, sapeva soltanto che quando era arrivata a Villa Malaspina dopo le nozze, aveva viaggiato verso il calar del sole, per cui ora per tornare da dove era partita doveva viaggiare verso il sorgere del sole. Poi avrebbe trovato qualcuno a cui chiedere quale fosse la strada giusta. La campagna era silenziosa, si sentiva soltanto il rumore dei suoi passi ed il cinguettio dei passeri appollaiati sui rami. Quando si era avviata su quella strada, suonava la messa ad una chiesa lontana. Giustina incominciò a mormorare una preghiera del mattino, ma perse presto la concentrazione a causa della testarda idea che la animava. Tutto stava accadendo senza che lei ci avesse pensato bene. O meglio, non aveva considerato tutti i risvolti della faccenda. Naturalmente stava pensando al suo matrimonio e a tutto il resto. Aveva tralasciato una cosa importante, ma non voleva pensare che fosse stato uno sbaglio, perché di sbagli non ne aveva fatti. Era libera come prima, infatti adesso stava andando dove doveva andare senza che nessuno potesse impedirglielo. Era stata soltanto distratta e sentiva l'urgenza di dover parlare a Caterina e dirle quello che sentiva nel cuore. Nessuno poteva criticarla per questo e in realtà nessuno lo avrebbe fatto perché non stava facendo niente di male. Stava soltanto andando da sua sorella perché era libera di farlo e perché ne sentiva il dovere. Caterina, in quella lettera che le aveva scritto e che le aveva consegnato al momento della sua partenza, esprimeva un dolore sommesso per quel distacco che sentiva definitivo e Giustina pensava che le sue parole contenessero una richiesta non espressa di aiuto che le aveva scosso l'anima. Sul momento l'aveva considerata come un normale biglietto d'auguri e non l'aveva letta subito, ma quando quella mattina era stata colpita da una strana malinconia, si era ricordata della sorella e della lettera. L'aveva aperta e l'aveva letta rimanendo scossa dal tono contenuto in quelle frasi che l'avevano commossa. Aveva capito che Caterina aveva espresso con le sue parole un sentimento importante che non avrebbe saputo confidarle a voce. In quella lettera aveva messo a nudo la sua intima fragilità offrendosi inerme alla sua comprensione. Sua sorella soffriva nel doversi separare da lei e glielo aveva voluto dire. Avrebbe voluto che loro due rimanessero per sempre insieme, cullandosi in un mondo tutto suo che rifiutava ogni cambiamento. Avrebbe voluto rimanere sempre in collegio con la sorella e con le suore, in quell'ambiente artefatto e rigido in cui era vissuta fin da piccola, senza sperare altro. Quello per lei era il modo di vivere più bello che potesse esistere. Ma il collegio serviva come educazione per la vita, per entrare nell'età adulta, nel mondo, mentre lei vedeva quella realtà come l'unica possibile e tutto il resto la impauriva. Giustina però non la voleva criticare, anzi la capiva. La capiva talmente bene che stava allontanandosi dal suo sposo e dalla sua nuova casa per correre da lei. Che cosa le avrebbe detto? Le avrebbe detto che nessun uomo, nessun matrimonio vale quanto il profondo legame che univa loro due e questo a costo di sembrare pazza e di scandalizzare il mondo. Se poi avrebbe dovuto per questo rinunciare al matrimonio, sarebbe stata pronta a farlo e Dio l'avrebbe perdonata. La giornata era calda e Giustina incominciava a sentire la stanchezza di quel camminare. Passò accanto ad un campo dove due buoi, guidati da alcuni contadini stavano trascinando un tronco d'albero divelto. Poi, ancora da lontano, vide una fila, di mietitori con le falci in mano che si fermarono nel loro lavoro e rimasero ad osservare quella donna solitaria camminare su quella strada. Vedendola passare, uno di loro lanciò un fischio, forse chiedendosi chi fosse. Più oltre, Giustina vide avanzare un carro pieno di erba. Sopra vi era sdraiato un uomo insonnolito e lei si ritrasse dalla strada per dargli il passaggio. Il carro le passò accanto e i fili pungenti la sfiorarono come uno scopino. Ma poi davanti a sé trovava ancora strada ed ancora campi e lei alzò la testa per capire quanto alto fosse il sole. Era partita verso le nove del mattino e non sapeva per quanto tempo aveva camminato. Non sapeva quanta strada le rimanesse, né sapeva se fosse quella giusta. Pensò: "Sarebbe il caso di riposare un pò", ma ad ogni punto della strada in cui poteva fermarsi, ne notava un altro che le pareva fosse migliore. Passò fra un gruppo di case dove c'erano due bambini che smisero di fare i loro giochi e si misero ad osservarla. La bambina più grande teneva per la mano quello più piccolo, rosso in viso e scarmigliato. Portavano entrambi dei grembiulini cuciti con la stessa stoffa ed ai piedi avevano degli zoccoletti di legno. I loro sguardi inespressivi erano fissi su di lei e Giustina sorrise loro. Si fermò e chiese: “Bambini, sapete da che parte si va per andare a Campremoldo?” Quelli non risposero, nemmeno la bambina più grande che poteva avere sei o sette anni. Il suo modo di parlare ìn italiano ed il suo accento vagamente lombardo erano per loro incomprensibili, abituati com'erano al dialetto. Da dietro una casa apparve un cane dal pelo marrone chiaro che forse voleva abbaiarle, ma si fermò e si mise a fissarla con indifferenza come se non la ritenesse degna di nota. Caterina riprese la strada accorgendosi che il cane la stava seguendo dieci passi dietro di lei. Ma ecco che sentì il suono di una campana che suonava il mezzogiorno e voltando la testa vide il campanile di una chiesa che si alzava dietro un filare d'alberi. Raggiunse così un piccolo paese dove, davanti alla chiesa, c'era una pompa dell'acqua con la quale una donna, facendo andare avanti e indietro la maniglia, stava riempiendo due pentole. Caterina si avvicinò e le chiese da bere. Premurosamente la donna prese un mestolo e glielo porse, incuriosita e sorridente. “C'è ancora un bel caldo” disse la donna. “Dove sta andando questa bella signorina?” “A Campremoldo. C'è ancora molta strada da fare?” “Fino a Campremoldo? E' un posto che ho sentito nominare, ma non so bene dove sia, ma se va in chiesa troverà il prete che lo sa di sicuro. Come mai una bella signora se ne va in giro tutta da sola e a piedi?” Caterina finì di bere e si asciugò le labbra con il dorso della mano. “Devo andare a casa di mio zio che è il parroco di quel paese. Si chiama Don Azio Boselli ed anch'io mi chiamo Boselli.” “Venite” disse la donna, “che vi accompagno dal prete. Ma guarda! Venite da molto lontano?” “Oh, si. Da lontano.” La donna si diresse di filato verso una porta che era aperta sul retro della chiesa e chiamò a voce alta: “Don Pietro, Don Pietro!” Poco dopo sulla soglia apparve il prete che stava già pranzando e lo si capiva dal fatto che aveva un tovagliolo infilato nel colletto. Era un uomo dal viso largo ed espressivo, non più giovane, ma nemmeno tanto vecchio. Aveva occhi chiari, sopracciglia pronunciate e un'espressione di sorpresa sul viso. “Don Pietro” disse la donna. “C'è qui una giovane signora che vorrebbe sapere la strada da fare..” “Sto andando a Campremoldo da mio zio parroco” intervenne Giustina, “ma non conosco bene la strada. Mi saprebbe dare l'indicazione?” “Si, si” rispose il prete. “Conosco, conosco. Bene. Adesso vi trovate nel paese di Berlasco e c'è ancora un po' di strada da fare per arrivare a Campremoldo. Bisogna che andiate avanti per questa parte ancora per un po' e al prossimo bivio giriate verso destra fino ad arrivare a Mottaziana. Poi, proseguendo ancora verso sinistra, arriverete a Campremoldo. Ma non c'è nessuno che vi possa accompagnare?” “Non vi preoccupate per me. Le cose sono andate in questo modo e non c'è motivo per cambiarle.” “Se avvisavate Don Azio, avrebbe potuto venirvi a prendere. Lo conosco bene. E' una persona pacifica e un sant'uomo.” Don Pietro era incuriosito dall'agire di Giustina. “Da dove venite? Come mai siete in viaggio a questo modo per arrivare dal vostro zio?” “Preferisco non dirlo, anche se non sto facendo nulla di male.” “State scappando? Qualcuno vi insegue?” “No, nessuno mi insegue. Sto facendo questo viaggio di mia spontanea volontà. Vi ringrazio dell'indicazione e mi scuso per il disturbo che vi ho arrecato.” Giustina si girò e si allontanò in fretta. “Pregherò per voi!” le gridò il prete. Quando riprese la strada, Giustina vide che il cane marrone la stava ancora seguendo. La donna che aveva dato da bere a Giustina la guardò allontanarsi e disse all'indirizzo di Don Pietro: “E adesso, dove andrà? Voi ci avete capito delle sue intenzioni? Ve lo dico in confidenza: a me mi pare un po' matta!” Ma Don Pietro non la stava a sentire. Era già rientrato in canonica ed aveva ripreso il suo pranzo così bruscamente interrotto. Quando Giustina giunse al bivio per Mottaziana, proseguì verso destra come le aveva indicato Don Pietro e presto sentì che dietro di lei stava sopraggiungendo una barra trainata da un cavallo e guidata da un giovane carrettiere dall'aspetto estroso. Portava una camicia senza maniche ed aveva in testa un cappello a tricorno ornato da una piuma di pavone. Giustina, che ormai era uscita dal suo naturale stato di riserbo, si piazzò in mezzo alla strada e fece fermare il carro. “Mi potete portare a Campremoldo?” gridò al conducente. Questi tirò le redini e si fermò guardando divertito quella donna che le faceva una proposta così inusuale. “Mi potete portare a Campremoldo?” ripeté Giustina e quello si mise a fare un suo discorsetto. “O bella signora, rivolgendomi la parola onorate chi lavora! Volentieri vi farei salire, ma non ho cuscini né tappeti per potervi accogliere nel mio modesto veicolo!” “Non m'importa dei cuscini. Salgo dietro.” Il carro era vuoto e Giustina fece un piccolo salto per salire, ma il pianale era troppo alto perché potesse riuscirvi. Allora il carrettiere con un balzo scese dal carro, gli girò intorno e disse: “Al vostro servizio, ma seduta quassù vi sporcherete il bel vestito che indossate!” Si tolse dal collo un fazzoletto rosso, lo stese sul pianale e, dopo aver fatto una buffa riverenza, prese Giustina per la vita e la issò a sedere con le gambe che le penzolavano nel vuoto. “In verità vi dico che mi sembrate una principessa sul trono e vi assicuro che questa modesta barra non ha mai portato merce più preziosa! Dove volete che vi porti?” “A Campremoldo.” “Quale Campremoldo? Di Sotto, spero!” “Si, Campremoldo di Sotto. Sapete dov'è?” “Certamente, mia signora. Quello è il mio paese! Mi chiamo Zucconi e la mia famiglia vive lì da tre generazioni. Mio nonno si chiamava Luigi, mio padre si chiama Ferdinando Zucconi e mia madre Maggi Teresa. Ho sette fratelli e sorelle: Luigi, Maria Rosa, Camillo, Francesco, Marianna, Giovannina Maria e Carlo. E con me, che mi chiamo Giuseppe, fanno otto. Io sono il più piccolo di questa bella brigata.” “Dove abitate?” “Alla Casa Rossa, ed io sto andando proprio là!” “Bene, Zucconi. Non potevo trovare miglior aiuto! Mio zio Don Azio è il parroco del paese ed io sto andando da lui.” “Don Azio è vostro zio? Ma si! Voi siete la nipote del prete! Dovevo capirlo subito! Io vi ho già visto qualche volta in paese, e voi siete quella bella signora che tutti dicono essere il più bel fiore di Campremoldo, ma vedendovi così per strada non vi avevo riconosciuto. Come mai ve ne andate tutta sola per questa strada così lontana da casa vostra? Vi è successo qualche inconveniente?” “Si” rispose Giustina con fare misterioso. “Ma, se non vi dispiace, non ve lo posso spiegare. Anzi, vi sarei grata se non lo diceste a nessuno che mi avete incontrata.” “Beninteso. La vostra parola per me è un ordine.” “Vi ringrazio per questo e voglio dirvi che voi siete molto espressivo e che parlate in modo ricercato per essere un carrettiere. Voi saprete che i carrettieri sono famosi per avere un linguaggio scurrile, ma voi contraddicete questa nomea.” “Oh, no. Io non sono un carrettiere. Io sono un muratore e se mi vedete alla guida di questa barra è per il fatto che noi muratori la usiamo per il trasporto dei materiali da costruzione. Mio nonno faceva il carrettiere, ma poi, quando gli è morto il cavallo, non ha più voluto saperne di fare quel mestiere ed ha incominciato a fare il muratore che non è un mestiere comodo, ma ci vuole cervello per farlo. Mio nonno si chiamava Luigi Zucconi e mio padre, che si chiama Ferdinando, gli è andato dietro e adesso è capo mastro e noi che siamo i suoi figli lavoriamo con lui. Il mondo ha bisogno di muratori e per noi, lavoro ce ne sarà sempre. E adesso possiamo andare!” “ Se vi piace partire, vi ringrazio, ma quando saremo per arrivare a Campremoldo, vi prego di lasciarmi a terra un tratto di strada prima, perché non vorrei che mi vedessero arrivare in paese a questo modo.” “Beninteso, beninteso..” “A meno che” continuò Giustina, “la cosa vi disturbi.” “Signora!” esclamò il muratore. “Non abbiate questo scrupolo. Il qui presente Giuseppe Zucconi è al vostro servizio! Con licenza parlando, se permettete, vi porterei anche all'inferno!” Nello stesso momento, Giulio stava percorrendo con fare guardingo la strada carrabile che da Borgonovo portava alla Mottaziana. Stava facendo all'incontrario la stessa via che aveva seguito il corteo degli sposi, dopo il matrimonio, per arrivare a Villa Malaspina. Dal calesse continuava a buttare lo sguardo a destra e a sinistra sperando in questo modo di veder apparire da un momento all'altro in lontananza Giustina, o da qualche stradina laterale o lungo la linea dei filari degli alberi che costeggiavano la strada. In cuor suo però temeva che la sua ricerca fosse inutile, perché si sentiva schiacciato da un destino trppo grande contro il quale era impossibile lottare. Incominciò a dubitare che Giustina fosse davvero diretta a Campremoldo per tornare dallo zio prete. Perché avrebbe dovuto farlo? Non era stato un bel matrimonio il loro? Lei era stata felice di sposarlo, ne era sicuro e non trovava un solo motivo che potesse giustificare un suo allontanamento volontario. Non era stata trattata più che bene? Se ci fosse stato un motivo che avesse causato la sua infelicità, non avrebbe potuto parlargliene? Aveva giurato davanti a Dio di voler vivere con lui. perché avrebbe dovuto abbandonarlo dopo soli tre giorni di matrimonio? Cosa poteva essere successo? Così, pensò che lei non avesse voluto lasciarlo, ma che fosse capitata una disgrazia. Che fosse caduta in un pozzo o in un canale e che fosse annegata! Immaginò anche che fosse stata rapita da una masnada di filibustieri per fini imprecisabili. Lei era così bella e fine nel portamento che poteva far gola a chiunque. Ma forse, se fosse tornato a casa, l'avrebbe trovata là, tranquilla e serena come sempre. Lei gli avrebbe spiegato che era stata a fare una passeggiata fra i campi e tutto sarebbe tornato a posto. Ah! Se quella mattina non si fosse allontanato per andare alla stalla, adesso sarebbe ancora con lei! Si sentiva colpevole per questo ed il rimorso gli fece piangere lacrime amare e disperate. Caterina si trovava a Campremoldo da un anno e, dopo i primi momenti di disagio, aveva trovato soddisfazione nell'organizzare quel piccolo ritrovo per i bambini del paese che, a piacimento dei loro genitori, accoglieva nella sala della canonica per insegnare loro il catechismo, ma anche la lingua italiana e qualche nozione di geografia e di aritmetica. Le loro mamme, che in principio avevano nutrito una certa diffidenza verso quella forma di istruzione temendo che potesse far crescere dei bambini viziati, presero a benvolerla, considerando il suo impegno. Caterina quel giorno, come era solita fare, era salita in camera sua dopo il pranzo e si era stesa vestita com'era sul letto a riposare. Erano quasi le due del pomeriggio quando sentì arrivare un calesse trainato da un cavallo nel cortile davanti alla canonica. Lo sentì fermarsi ed udì qualcuno scendere e bussare alla porta da basso. Sentì Domenica andare ad aprire e la voce di Giulio chiedere se poteva parlare con Don Azio. Vi furono dei passi affrettati poi un breve dialogo concitato. Al prete che chiedeva il motivo della sua visita, Giulio incominciò a spiegare che stava cercando Giustina perché era sparita di casa. Don Azio lo zittì, poi lo condusse nella saletta del suo studio chiudendosi la porta alle spalle. Caterina si alzò dal letto e scese le scale trovando Domenica muta e bianca in volto ferma fuori dalla stanza dove si trovavano i due uomini. Le chiese che cosa fosse successo. Domenica si mise la mani sul volto e le rispose che credeva di aver capito che si trattasse di qualcosa che aveva combinato Giustina, ma non aveva afferrato in pieno il senso del discorso. Al di là della porta, si sentiva la voce di Giulio farsi più circospetta, poi prese a parlare Don Azio con tono pacato come quando dal pulpito rassicurava i fedeli ad aver fede in Dio ed affidarsi alla sua misericordia. Passò così un bel po' di tempo senza che ci fosse una spiegazione ed ora pareva che il prete facesse una serie di domande a Giulio, quasi stesse amministrando il sacramento della Confessione. Caterina e Domenica si guardavano negli occhi quasi a cercare l'una nell'altra la verità, poi la ragazza si rese conto della inopportunità della sua presenza in quella situazione ed uscì di casa. Il cavallo che aveva portato il calesse, per la fretta non era stato fermato ed ora vagava per il cortile adagio adagio, fermandosi poi a bere alla vasca dell'acqua. Caterina si diresse verso l'entrata della chiesa e vi entrò. Il locale era fresco e buio: solo una candela era accesa davanti al tabernacolo del Santissimo Sacramento. Caterina si sedette nell'ultima panca e si mise a riflettere. Ormai era passata una mezz'ora dall'arrivo di Giulio, quando si sentì un grido. Domenica stava urlando che aveva visto Giustina sbucare da dietro la siepe oltre il cortile e stava arrivando! Alla porta della canonica apparve Giulio esterrefatto, seguito da uno stupito Don Azio. Giulio vedendo la moglie arrivare a quel modo, le corse incontro pieno di gioia dicendole: “Brava, brava! Sei arrivata! Sono così contento!” ma Giustina lo guardò negli occhi e lo zittì. Poi gli comandò di entrare in casa e di tacere. Giulio, sorridente e finalmente tranquillo, obbedì subito. Giustina aveva il vestito impolverato, era rossa in viso ed era sudata, ma dal suo volto traspariva la determinazione di chi sa di compiere un suo dovere. Salutò lo zio e Domenica ed entrò a sua volta in casa chiedendo dove fosse sua sorella. Caterina sentì i passi di Giustina avvicinarsi, sentì il fruscio della sua gonna e la vide sedersi vicino a lei nella panca. Era colma di gioia per l'arrivo della sorella, ma anche spaventata e le sorrise soltanto. Giustina le prese le mani e gliele baciò. “Ho letto la tua lettera” le disse. “Ti chiedo scusa per non averlo fatto subito.” “Per questo sei tornata?” “Ti pare per poco?” “Non dovevi farlo, se la mia lettera ne è stata la causa.” “Sono stata una sciocca. Non avevo capito niente di te.” “Cosa c'è da capire?” “Che due sorelle come noi sono unite da un legame che non può essere troncato così da un giorno all'altro. Che il nostro è un legame troppo forte e dovrà durare fin quando vivremo.” “Ma tu adesso sei sposata e sei legata a tuo marito. Non badare a me. In qualche modo me ne farò una ragione.” “No. Ho capito che noi dobbiamo continuare il nostro cammino nella vita assieme perché io posso stare senza marito, ma non senza di te.” “Non dire così. Hai giurato davanti a Dio di seguirlo.” “Ho giurato davanti a Dio di amarlo e di onorarlo ed è questo che farò. Ma sarà lui che dovrà seguire me, non io lui!” Caterina non potette trattenere uno sbuffo di riso. “Cosa vorresti fare?” “Voglio che mio marito venga a vivere qui a Campremoldo, non che debba essere io ad andare a casa sua. Io là non ci sto bene. Mi sento fuori posto. Non posso vivere con delle persone, bravissime peraltro come sono i miei suoceri, che non conosco, lontana da mia sorella e dal nostro caro zio. Io voglio poter vivere con quelli che amo ed il mio cuore è tanto grande che ci possono entrare tutti.” A sentire quelle parole, Caterina si commosse a tal punto che le spuntarono le lacrime. “Cara Giustina! - disse - Non potrei avere una sorella migliore di te! Come sei arrivata fin qui?” “A piedi.” “Da sola? Ma è tanta strada!” “Non ho fatto fatica a farla.” “Non potevi farti accompagnare dal tuo sposo?” “No. Era una cosa mia, una cosa che dovevo fare io.” “Ti ricordi” proseguì Giustina, “quando eravamo nel collegio ed alla sera ci trovavamo vicine a parlare della giornata che avevamo trascorsa e ci sentivamo contente nell'esprimere i nostri sentimenti e le nostre speranze? Noi siamo più di due sorelle, noi siamo una cosa sola che è cresciuta silenziosa come una pianta d'edera attaccata al ricordo della nostra cara mamma che troppo presto ci ha lasciato. Il matrimonio mi aveva stordito e me lo aveva fatto dimenticare, ma quando ho letto la tua lettera è stato come se davanti agli occhi mi passassero davanti tutti quei giorni vissuti assieme e mi chiamassero da te.” Dopo questo avvenimento, Don Azio fece costruire vicino alla chiesa un caseggiato dove Giulio e Giustina andarono a vivere. La coppia ebbe quattro figli che nacquero tutti in quella casa: Carlo nel 1857, Teresa nel 60, Emilia nel 66 e Luigi nel 67. I lavori di costruzione della casa furono affidati a dei muratori che si chiamavano Zucconi. Tra questi vi era anche Giuseppe, il guidatore del carro che aveva portato Giustina a Campremoldo quando era tornata dalla sorella dopo solo tre giorni di matrimonio. Un figlio di Giuseppe, Angelo sposerà nel 1883 Teresa, figlia di Giustina. Caterina nel 1859 andò a vivere a Milano presso uno zio, Osvaldo Boselli. La sua vita fu dedicata all'insegnamento nella scuola del nuovo regno d'Italia.
“Piero Zucconi, 2010”