penna

la Piacenza Neoclassica di Maria Luigia

“Racconto di Massimo Solari”

Piacenza, inutile negarlo, fu sempre qualcosa meno di Parma. Sarà il peccato originale della congiura di Pier Luigi? Può essere, ma è sempre stata considerata la città caserma, una guarnigione di frontiera. Forse il peccato originale è costituito dai 6000 coloni latini che la fondarono nel 218 avanti Cristo e che diedero inesorabilmente alla colonia Placentia l'aria del castrum romano, comunque rassegniamoci e diamo un'occhiata alla Piacenza neoclassica dei primi dell'ottocento. Rispetto all’immagine che abbiamo della nostra città, l’impianto generale è rimasto invariato (e non poteva che essere così), ma ci sono differenze di rilievo. Ho sotto gli occhi una mappa della Piacenza del 1861, e così di una dozzina di anni dopo la morte della duchessa. La prima cosa che noto è l’eccezionale spazio destinato al verde. Ovviamente la città comprendeva solo l’attuale centro storico, cinto ancora dalle mura farnesiane. Ma all’interno, soprattutto a ridosso delle mura, lo spazio verde è prevalente: tra viale Malta e via XXIV Maggio (uso, per comodità, la toponomastica attuale) le costruzioni sono pochissime, come tra lo Stradone Farnese e il Faxhall: dopo il convento di Sant’Agostino il verde domina fino alla fine della strada. Il sito dell’attuale nuovo ospedale? Campi e orti. Intorno a San Sisto? Orti e campi. Alla stazione lo stesso. E tra gli orti e i campi, ma anche sulle strade, corrono rivi di ogni forma e dimensione: via Giordani, via San Siro, via Prevostura, non parliamo di via Beverora, via Sopramuro, lo stesso Stradone Farnese sono solcati da rivi che, presumo, correvano ad un lato della strada, visto che non si trattava di Venezia. I rivi alimentavano i numerosi mulini ad acqua che erano serviti nei secoli precedenti per dare energia alle numerose attività artigianali che servivano a sfamare i nostri avi: i mulini (ne è un ricordo il vicolo Molineria Sant’Andrea) muovevano le mole che trasformavano il frumento e il mais in farina e davano ai falegnami e ai fabbri l’energia necessaria per far muovere i loro rudimentali ingranaggi. All’epoca di Maria Luigia stavano per essere sostituiti dall’energia del vapore, che renderà inutili i rivi i quali verranno poco alla volta interrati. Nel marzo del 1807 inizia l'illuminazione pubblica con trecento “fanali a riverbero” e nello stesso anno le macellerie, che erano riunite nel viottolo che da Piazza Cavalli conduceva a Sant'Ilario (Via Illica?) sono spostate nei locali del Carmine e cioè vicino all'attuale mercato coperto di Piazza Cittadella. Secondo l'Adorni (L'urbanistica in “Storia di Piacenza – l'Ottocento”) l'interesse del governo ducale alla strada verso Genova privilegia la parte sud della città, aumentando così il degrado delle zone a nord come Borghetto, Sant'Agnese e Cantarana. Una società di gentiluomini realizza sulle mura farnesiane, ormai inutilizzate, il Pubblico Passeggio ad imitazione (si dice, a me sembra una pia illusione) dei grandi Boulevards parigini. In Piazza Cavalli sorge il Palazzo del Governatore, su disegno sempre dell'architetto Lotario Tomba. Il foro boario, che era collocato da oltre due secoli in piazza della Torricella (oggi sembra impossibile, col traffico che l'avvolge) viene spostato fuori dalla porta San Raimondo, l’attuale Piazzale Genova. Nel periodo napoleonico le strade piacentine avevano assunto per la prima volta i numeri civici (con qualche difficoltà, sembrava un'innovazione troppo tecnologica) e una loro denominazione. Il Faxhall si chiama così “Corso Imperatrice Maria Luigia” e lo stradone Farnese “rue Friedland”, Piazza Cavalli è Piazza Napoleone e la chiesa di San Francesco viene dedicata ad un improbabile San Napoleone. Via Taverna diventa “rue de la Réunion”, visto che è vòlta verso la Francia e si progetta una monumentale colonna (che mi piacerebbe immaginare come quella di Place Vèndome a Parigi, fusa nel bronzo dei cannoni di Austerlitz) in onore di Bonaparte, che doveva sorgere all'inizio dello Stradone Farnese, dove oggi sorge il dolmen di William Xerra. Lotario Tomba progetta anche un fantastico arco di trionfo per l'ingresso solenne di Napoleone a Piacenza. L'Empereur non verrà mai e l'arco è rimasto allo stadio di progetto. Milano ci bagnerà il naso: edificherà in onore del grande còrso l'arco del Sempione, che pure Napoleone non vedrà mai: verrà inaugurato anni dopo dal suo nemico Francesco I in onore delle vittorie su Napoleone. Un grande lavoro del 1848, sull'onda dei moti che in quell'anno avevano sconvolto l’Europa, e per seguire un desiderio popolare antiaustriaco, è la demolizione del pentagonale castello farnesiano, le cui tracce si trovano oggi verso viale Malta, all'interno dell'Arsenale dell'esercito. Nel 1836, in piena età marialuigina, la città è divisa in sette quartieri: Castello, Stradone, Cattedrale, Sant'Eufemia, Campagna, San Sisto e San Savino. La popolazione è di circa trentamila persone (un terzo delle attuali ma, se consideriamo che allora Piacenza era formata solo dal centro storico, la densità di popolazione doveva essere simile). Le fasce più povere sono nei quartieri settentrionali, quelle appena più agiate (il trend non era positivo neppure allora) in quelli a sud di piazza Cavalli. Nel 1842 inizia la ferrovia, osteggiata dagli austriaci che non vedevano di buon occhio la facilità di spostamento tra i vari stati italiani. La prima tratta, comunque, è la Piacenza-Alessandria, mentre la Piacenza-Parma non vedrà la luce sotto Maria Luigia. Ancora nel 1856 oltre il 70% dei piacentini è analfabeta, il 5,4 % è semianalfabeta. Nei quartieri di San Sisto e San Savino oltre l'80% dei cittadini sono analfabeti. Il piacentino Pietro Salvatico, incaricato di stendere nel 1836 alcune“notizie statistiche intorno la città e il comune di Piacenza” ci dà un quadro sconfortante della situazione: “Le malattie dominanti nel nostro paese sono la tubercolosi, le scrofolosi, le rachitidi. Non si saprebbe assegnar loro una causa ripetibile dal nostro clima e dalle nostre particolari condizioni. Ma non sarà fuori di luogo il chiamar l'attenzione... sovra parecchie case della nostra città: le quali, senza cortile, o con cortile ridotto a mondezzaio, con pian di terra senza ombra di pavimento, non vuoto al di sotto e sensibilmente più basso della via, colle soffitte per dove passa liberamente la pioggia e la neve disciolta e abitate... da gente mal nutrita e peggio vestita...” Piacenza ridotta dunque ad una gigantesca corte dei miracoli, piena di gente cenciosa abitante in catapecchie? Probabilmente sì. Capitano anche spesso epidemie di colera. Le peggiori sono quelle del 1836 e quella del 1855. Nel 1836 i decessi sono 631 su 955 contagiati e il focolaio è nella zona più insalubre della città, le casupole di Cantarana. L'epidemia “in un momento vuota d'inquilini quelle orride stamberghe”. Nel 1855 i contagiati sono 782 e i morti 565. Si darà luogo ad un regolamento di pulizia urbana solo dopo l'unità d'Italia, nel 1861. Nel novembre del 1821 Maria Luigia invita a corte il visconte de Chateaubriand, inviato di Luigi XVIII di Francia. Il celebre scrittore annota sul suo diario: “La corte di Maria Luisa aveva un’aria di rovina e di vecchiume, si salvava soltanto Neipperg, un uomo garbato. Per attraversare il Po a Piacenza c’era una sola imbarcazione, malamente dipinta e sormontata da uno sconnesso padiglione imperiale. Alcuni dragoni in divisa, con in testa berretti da poliziotti, abbeveravano i loro cavalli nel fiume. Ben altro esercito Maria Luisa aveva avuto al suo servizio quando imperava sui francesi!” Insomma, Piacenza non sembrava una città piacevole: epidemie, analfabetismo, casupole, però alcune strade sono praticamente identiche ad oggi: se percorriamo via Chiapponi, il primo tratto di via Scalabrini, via San Giovanni, il primo tratto del Corso Vittorio Emanuele, le strade di Maria Luigia sono identiche alle attuali. Anche gran parte dello Stradone Farnese è identico, come via Giordani e via Santa Franca. Piazza Cavalli è differente solo nella parte di San Francesco, dove non esistevano, ovviamente, i palazzi attuali. Se osserviamo le stampe dell'epoca troviamo gustosi scampoli di vita quotidiana: piccole rivendite di generi coloniali, alcuni locali pubblici che somigliavano più a bettole che agli attuali bar. Le strade erano selciate e nel centro correvano quei trottatoi di pietra che oggi ci infastidiscono tanto quando passiamo in automobile. Di notte una sommaria illuminazione rompeva il buio opprimente ma, nell'insieme, le impressioni più stridenti sarebbero state la grande differenza tra i palazzi nobiliari e le casupole che li fiancheggiavano e l'animazione delle strade che erano piene di carretti di fruttivendoli, merciai, cestai, acquaioli, pescivendoli, stracciaioli, che risuonavano delle grida degli spazzacamini, dei “muleta” che affilavano i coltelli, degli aggiustatori di ombrelli, dei calderai che stagnavano le pentole. Una città dunque pittoresca, piena di “colore” ma agricola, addormentata, lontana dai fermenti del Risorgimento e che riuscirà a riscattarsi pochi decenni più tardi, quando diventerà la Primogenita dell'Unità d'Italia, molto probabilmente per merito di un ristretto gruppo di intellettuali liberali, di maggiorenti lontani dal grosso della popolazione.
“Tratto da Le Regine di Piacenza di Massimo Solari edizioni Lir 2010”



il Fodesta - archivio milani