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Luigi - Piccole Storie Dimenticate

“Racconto di Piero Zucconi”


Il giorno 20 Giugno 1799, mentre ancora faceva buio, alla casa Rossa si udirono battere dei colpi alla porta! Luigi si svegliò d'improvviso e rimase in ascolto. I colpi vennero ripetuti mentre una voce proveniente dal basso gridava: “Zucconi! Saltate giù dal letto. C'è un lavoro da fare!” Luigi riconobbe la voce di Don Baccini. Si alzò e si affacciò alla finestrella che dava sulla strada e guardò giù. Vide il prete con in mano una lucerna accompagnato da due militari in divisa bianca. Alla scarsa luce del lume le loro facce parevano spettrali e la loro presenza era inquietante. “Chi c'è?” sussurrò Angela che si era a sua volta svegliata. “C'è il prete assieme a due tedeschi” rispose Luigi. Poi rivolto a quegli uomini chiese: “Quale sarebbe il lavoro che dovrei fare?” “Venite giù, venite giù.” Si sentì rispondere. “Cosa vogliono?” gli chiese allarmata Angela. “Non so. Dicono che devono farmi fare un lavoro.” Brontolando, Luigi si infilò i calzoni e così, senza scarpe né camicia scese la scala che portava al piano inferiore, Angela si affacciò alla finestra e vide il marito uscire dalla porta e mettersi a parlare con il prete. Restarono così a discutere per un po', ma Angela non riusciva a sentire cosa stessero dicendo perché parlavano a voce bassa. Don Baccini aveva una voce pacata e confortante che contrastava con l'evidente impazienza dei due militari che aveva accompagnato fin lì. Alla fine Luigi rientrò in casa mentre il prete gli diceva: “E' un'opera di carità e per questo verrete ricompensato.” Tornato di sopra, Luigi spiegò ad Angela che quei militari avevano comandato a Don Baccini di trovargli dei carri con degli accompagnatori per andare a prendere dei feriti a Ponte Tidone e trasportarli all'Ospedale di Castel San Giovanni. C'era stata una battaglia, il giorno 17 ed evidentemente c'erano dei feriti che avevano bisogno di essere ricoverati, per cui il sacerdote, in base alle sue conoscenze, cercava in paese le persone adatte a quell'impegno. I militari non erano stati scortesi, ma il loro atteggiamento era stato perentorio. “Fino a Castello?” chiese Angela. “Quando tornerete?” “Non so” rispose Luigi incupito. “Ci mancava anche questa!” “Non vorrei che andaste nel pericolo. Con questa guerra ci saranno dei soldati che sparano da tutte le parti!” “Cosa vuoi che ci faccia?” Luigi incominciò a vestirsi. Si infilò una camicia e senza salutare la moglie scese nella stalla ed attaccò la Bigia al carro. “State attento!” gridò Angela. Ferdinando che aveva sentito tutto dalla sua stanza, si era alzato e quando si affacciò a sua volta alla finestrella vide suo padre che si allontanava con i due soldati seduti sul carro, mentre Don Baccini seguiva a piedi con in mano la lanterna che rischiarava debolmente la strada. In cielo l'alba incominciava ad apparire, rendendo visibili i contorni delle case ed un nuovo giorno iniziava. Luigi Zucconi, il mestiere di carrettiere lo aveva ereditato da suo padre, che si chiamava Alessandro e sperava che suo figlio Ferdinando avrebbe un giorno seguito le sue orme. Era un mestiere duro, d'estate per il caldo e d'inverno per il freddo e per il pericolo di uscire fuori strada per il gelo, ma Luigi lo riteneva un buon lavoro perché con quello riusciva a mantenere la famiglia. Un tempo Luigi aveva un carro a due ruote, ma per caricarlo si faceva molta fatica. Poi però aveva potuto cambiarlo con uno a quattro ruote, che era più basso e più comodo. Con quello, trasportava un po' di tutto: cereali, fieno e farina per il mulino, ma anche legna o letame. I carri li facevano a Gragnano. C'era un certo Fiorino che era molto bravo: era uno specialista e faceva anche le ruote. Luigi era geloso del suo lavoro e voleva fare le cose per bene: teneva sempre in ordine il carro e curava il suo cavallo, che era poi quello che doveva fare il lavoro più pesante. Lui, la sua Bigia la trattava bene, piuttosto faceva due viaggi, ma non la caricava mai troppo. Il sole era spuntato su di un'altra giornata calda e serena. Luigi percorreva di malumore la strada verso Ponte Tidone con la sensazione di aver perso un'altra giornata, perché, se aveva evitato guai in precedenza, ora quel lavoro gli era
stato imposto e la cosa non gli garbava affatto. Si voltò a guardare i due militari che lo accompagnavano e vide che si erano distesi sul pianale del carro e si erano messi a dormire su uno strato di fieno, l'uno con la testa sulla pancia dell'altro. Erano due soldati non più giovani, potevano avere quasi l'età di Luigi e lui a questo proposito si chiese cosa avrebbe provato se si fosse trovato al loro posto, a vivere senza una famiglia e senza un domani, ma anche a rischiare la vita in una terra sconosciuta. Forse il lungo periodo di servizio sotto le armi, che dovevano aver trascorso, aveva provocato in loro l'abitudine a tutto ciò. Adesso, dormivano tranquillamente senza far caso alla durezza del loro letto improvvisato ed agli scossoni del carro. Si erano tolti il cappello e i loro fucili erano abbandonati vicino alla sponda. Luigi pensò che avrebbe potuto fermare il carro, e liberarsi dei suoi guardiani, ma non si fidava di sé stesso. Non sapeva come quelle armi funzionavano e poi non poteva mica mettersi a sparare loro addosso! E se fosse riuscito soltanto a farli scendere e se ne fosse tornato a casa, quelli sapevano dove abitava e certamente non poteva prevedere come sarebbe andata a finire. D'altronde, si disse, si tratta solo di un trasporto come uno dei tanti che aveva fatto in vita sua e quando sarebbe arrivato a Castel San Giovanni il suo lavoro sarebbe finito. Il prete gli aveva detto che lo avrebbero pagato per quel servizio. Prima di sera sarebbe tornato a casa e tutto sarebbe tornato come prima. La Bigia andava senza fretta lungo la strada dritta e monotona. Era un viaggio tranquillo, ma non si vedeva nessuno nelle case sparse sul percorso e nei campi dove il giorno prima era in corso la mietitura. Alla volta di Centora, comparve un gruppo di soldati in marcia in senso a loro contrario. I due militari sul carro si svegliarono e salutarono i loro compagni con grida e sberleffi dei quali Luigi non capiva il motivo. Duecento metri più avanti, vide accanto a degli alberi di gelso un gruppo di persone, uomini e donne, che stavano guardando verso nord, come se stessero osservando qualcosa che stava succedendo lontano, laggiù. Lui cercò di capire che cosa stesse suscitando il loro interesse, ma non vide niente. I due soldati austriaci, ormai svegli del tutto, incominciarono a gridargli qualcosa, ma lui non capiva una parola di quello che stessero dicendo. Il più alto dei due, si avvicinò e mettendogli una mano sulla spalla gli disse: “Taliano, Ponte Titone, Ponte Titone!” Luigi annuì e quello venne a sedersi vicino a lui e sempre con fare confidenziale gli chiese: “Manciare! Tu manciare?” Ma Luigi non aveva niente da mangiare con sé. Non aveva proprio pensato a quello quando era partito quella mattina al buio ed era a digiuno anche la povera Bigia. Il soldato scoppiò a ridere e non pareva preoccupato della cosa, ma giunti nei pressi di Rottofreno, disse a Luigi di fermarsi ed entrò in una piccola bottega di vendita. Dentro vi erano altri militari che stavano servendosi di pane, formaggio e salume e quello vi entrò, seguito subito dal suo compare che scese dal carro con un balzo. “Tu fermo!” disse e Luigi pensò che anche lui non avrebbe disdegnato una scodella di latte con la polenta, ma non osò seguirli. Intanto la Bigia aveva deviato dalla strada e si era messa a mangiare del fieno da un mucchio che si trovava a lato della bottega. Dalla porta del negozio si affacciò una donna che lo guardò con aria impaurita. “Da dove venite?” chiese a Luigi. “Da Campremoldo.” “Dove andate?” “A Ponte Tidone a caricare dei feriti.” Lei si fece il segno della croce ed esclamò: “Ci saranno anche dei morti! Il mio uomo ieri era sulla via Emilia e ha visto arrivare i Francesi e poi li ha visti tornare indietro. C'è stata una guerra qui vicino. Hanno sparato per tutto il giorno col cannone! E adesso non so dove sia. Ho paura che sia stato preso in mezzo.” E scoppiò a piangere. “Magari si è nascosto e non può tornare a casa” la confortò Luigi. “Io fossi in voi da quelle parti non ci andrei. C'è del pericolo e il mio uomo ci deve essere stato preso in mezzo perché stanotte non è tornato a casa. E adesso questi maledetti vengono qui a mangiare e bere senza pagare. Cosa sarà di noi? Voi adesso andate da quella parte. Se vedete il mio uomo, ditegli di venire a casa perché noi stiamo in pensiero. Si chiama Luigi Perdoni ed è un bell'uomo con i baffi e porta una camicia bianca e delle braghe al ginocchio.” “Anch'io mi chiamo Luigi, se lo vedo glielo dico.” La donna aveva un viso aperto che la smorfia di dolore non riusciva a rendere sgradevole. Si asciugò gli occhi e rientrò nella bottega. Soddisfatti della sosta, i due soldati austriaci tornarono al carro e si misero ad impartire ordini, come se volessero sveltire il viaggio. Forse erano stati sollecitati a fare più in fretta ed ora se la prendevano con Luigi. Questi spronò la Bigia e riprese la strada che, attraversando Rottofreno, portava a Ponte Tidone. Sempre più spesso incontravano colonne di soldati in marcia che, seguiti dai loro carriaggi, provenivano in senso opposto: segno questo che l'esercito Austro-Russo stava avanzando. Ad un certo punto, Luigi sentì uno dei due soldati che stavano con lui chiedere ad alta voce qualcosa ad un ufficiale Austriaco che stava sbarrando la strada con un gruppo di fucilieri. Questi indicò loro bruscamente di deviare verso una stradina che portava verso il fiume dove si scorgeva un accampamento militare. Avvicinandosi al luogo di raccolta dei feriti, Luigi vide che altri carri lo precedevano, anch'essi requisiti con i loro conducenti e scortati da soldati. C'erano carri lunghi e carri a due ruote, trainati da buoi o da cavalli in gioghi da due o perfino da quattro animali. Sperava di incontrare qualcuno di sua conoscenza per poter scambiare impressioni e per mitigare il senso di incertezza che lo aveva preso, ma non vide nessuno. Su di una spianata sotto degli alberi c'era una distesa di barelle allineate e gruppi di soldati seduti o coricati per terra, alcuni bendati alla bell'e meglio, tutti con lo sguardo perduto nel vuoto. Più in la, vicino al torrente, si vedeva una mucca
morta. Vennero caricati 4 feriti stesi su delle barelle, più altri 4 che presentavano ferite più leggere che si misero a sedere sulle sponde del carro. Un ufficiale che parlava a voce alta si avvicinò, diede indicazioni ai soldati di guardia e controllò che tutto fosse a posto. Non voleva che qualcuno si fingesse ferito per imboscarsi in un ospedale per evitare la guerra. Luigi guardò il suo carico. Degli uomini sulle barelle, ad uno era già stata amputato un piede ed un altro era pallidissimo e pareva morto. La Bigia si mosse procedendo a fatica per il peso del carico e quando incontrarono un canaletto che attraversava la stradina non riuscì più ad avanzare. Luigi disse ai due soldati che lo accompagnavano di andare dietro a spingere, altrimenti non sarebbero riusciti a venirne fuori. Questi lo guardarono perplessi, ma poi scesero ed uno di costoro prese un bastone trovato lì per lì e si mise a picchiare sul dorso della cavalla per farla avanzare. Allora, dal carro scese con un balzo uno dei feriti, un giovane robusto che aveva la testa fasciata. Tolse di mano il bastone al soldato e sgridandolo si mise a spingere una ruota prendendola per un raggio. Con quell'aiuto il carro si mosse e ripartì. Il giovane che parlava italiano proseguì il viaggio a piedi camminando di fianco al sedile di Luigi. “Brutte bestie!” disse all'indirizzo dei due soldati. “A noi ci sparano addosso e loro fanno fatica a spingere un carro!” “Siete italiano?” chiese Luigi. “Come mai siete con i Tedeschi?” “Cercavano degli uomini e hanno preso su anche me.” “Di dove siete?” “Di Borgo San Donnino. Io non ho i genitori, ma avevo una casa e facevo l'agricoltore. I Francesi mi mi hanno portato via i buoi quando sono arrivati su da Napoli. Siccome ho cercato di difendermi e ho dato un pugno a uno di loro, mi hanno picchiato e bruciato la casa, così non sapevo più come campare. Allora quando sono arrivati gli Austriaci mi sono messo a ruolo con loro, così almeno due pasti al giorno li
potevo fare. Ma la sfortuna si è ancora accanita contro di me. Guardate qui cosa mi è successo!” Scoprì la benda che gli circondava la testa e mostrò la sua ferita. Luigi voltò la testa inorridito: al posto dell'occhio sinistro c'era un buco bluastro dal quale colava sangue. “E mi è andata bene”proseguì il giovane “potevo restarci secco!” “Cosa vi è successo?” “Una palla di fucile mi ha colpito proprio lì. Se mi trapassava la testa ero morto.” “Quando è stato?” “Subito, il primo giorno della battaglia. Ci eravamo appena messi in formazione perché i Francesi avanzavano e subito è incominciata una sparatoria. Io non ho nemmeno fatto in tempo a caricare il mio fucile che ho sentito come un pugno in faccia. Sono caduto a terra e il mio occhio non c'era più!” “E adesso cosa farete?” “Cosa farò? Mi porteranno all'ospedale. Dove vi hanno detto di andare?” “A Castel San Giovanni.” “Eh, bene. Starò là finché sarò guarito, poi si vedrà.” Rivolse uno sguardo sarcastico a Luigi. “Ho detto si vedrà, ma io vedrò da orbo. Eh! Così almeno di guerre non ne vedrò più. Ci sono tante persone che gli manca un occhio e continuano a vivere.. Farò così anch'io. Potrei fare qualsiasi lavoro, persino il carrettiere! Intanto il mio occhio mi farà avere una pensione e poi ci metterò su una benda nera e via!” Lentamente ripartirono. Il viaggio in quelle condizioni non era agevole, la strada pareva lunghissima. Furono raggiunti da altri trasporti più veloci, pariglie e carri trainati da muli o da coppie di buoi, tutti intenti a trasportare feriti. I conducenti si misero a parlare tra di loro, a chiedere informazioni ed a scambiarsi impressioni ed i soldati feriti chiedevano l'un l'altro dove li stavano portando e se la strada era ancora lunga. Si sentivano lamenti ed imprecazioni ed il sole batteva sulle loro teste. Poi incominciarono ad incrociare colonne di truppe in marcia in senso opposto, grossi gruppi armati che marciavano sudati con lo zaino in spalla e che lanciavano occhiate preoccupate ai carri dei feriti, da un lato sperando che quella non fosse la loro sorte e dall'altro invidiandoli perché per loro la guerra era finita. A meno che non dovessero perdere un occhio o una gamba. Le truppe erano seguite da colonne di carriaggi e da pezzi di artiglieria trainati da buoi. Al loro passaggio volavano gli ordini dei comandanti che chiedevano di farsi da parte per lasciar libero il passaggio ed allora ecco le grida, i cori ed i saluti che i sani lanciavano ai feriti. Verso mezzogiorno arrivarono a Castel San Giovanni. Il carro di Luigi fu fermato davanti alla porta che chiudeva le vecchie mura. Un ufficiale austriaco alzò la mano e i due soldati che avevano accompagnato il viaggio saltarono giù ed andarono a parlare con lui. Questi impartì loro degli ordini e poco dopo uno di essi tornò da Luigi e gli disse di scendere dal carro. L'altro prese le redini e tirò in avanti la Bigia che si avviò trainando carro e feriti. Luigi rimase ad aspettare pensando che non appena quei poveri diavoli sarebbero stati scaricati e portati nell'ospedale, il carro sarebbe stato riportato indietro e lui avrebbe potuto tornarsene a casa. Invece l'ufficiale gli fece il gesto di andarsene! Incredulo, Luigi a gesti cercò di far capire all'ufficiale che lui
aspettava di poter riprendere il suo carro ed il suo cavallo, ma quello con fare indisponente gli gridò: “Via! Via! Andare!” Andare dove? Non potevano trattarlo così! Lui aveva effettuato il servizio che gli avevano richiesto. Adesso non volevano pagarlo? Volevano prendersi tutto? D'impeto si mise a rincorrere il suo carro, ma l'ufficiale lo fermò gridandogli qualcosa che lui non capì. Luigi insistette e prese ad insultarlo, ma quello gli diede uno spintone che lo rimandò indietro, poi con il volto pieno d'ira estrasse la sua sciabola dal fodero e gli diede un colpo di piatto che lo colpì alla spalla. Luigi indietreggiò dolorante fissando con stupore ed odio l'ufficiale che con il volto paonazzo minacciava di infilzarlo se non se ne fosse andato. Non gli restò che allontanarsi, ma dopo pochi passi si fermò e si mise al riparo del tronco di un grosso tiglio. Da lì, vide l'ufficiale allontanarsi in direzione dell'ospedale mentre altri soldati vennero a sbarrare la strada in attesa di altri carichi di feriti che sarebbero arrivati. Luigi si accorse di stare piangendo. Il colpo che aveva subito non era niente di fronte alla prospettiva di aver perso carro e cavallo, senza sapere se avrebbe mai potuto riaverli. Il sole del mezzogiorno lo colpiva in viso bruciando le sue lacrime. Che cosa poteva fare adesso? Si guardò intorno senza trovare nessuno a cui rivolgersi. C'era una casa a dieci metri dalla strada che pareva abbandonata. Luigi andò a sedersi all'ombra, appoggiando la schiena al muro. Si sentiva stanchissimo, aveva sete e gli doleva il collo. Non sapeva assolutamente che cosa fare e se ne stette lì come intontito a guardare davanti a sé con gli occhi nel vuoto. Sulla strada passavano truppe con lo zaino in spalla seguiti da una fila di carri di vettovaglie che sollevavano polvere e gruppi di cavalleggeri con cavalli sciolti a rimorchio, ma anche persone comuni, uomini e donne dall'aria ansiosa che erano diretti chissà dove. Più in là, in direzione opposta, arrivò un tiro di buoi che trainava un carro carico di fieno. Lo guidava un vecchio con la barba bianca che gli lanciò uno sguardo indifferente e proseguì oltre. Poi sulla strada passò un uomo che trainava cinque o sei capre legate per il collo con una corda e si udirono le grida di un gruppo di ragazzetti che stavano inseguendo un cane. Ad un tratto, sentì un fischio. Da dietro l'angolo della casa spuntò la figura di un uomo con la camicia aperta sul petto che gli fece cenno di avvicinarsi. Luigi lo riconobbe subito. Era Andrea Cornelli, suo compaesano di Campremoldo che era anche un pò suo parente in quanto aveva sposato una cugina di sua moglie. La sorpresa per lui fu tanta nel vedere in quel momento un volto amico. Si alzò e gli corse incontro, quasi abbracciandolo ed assieme si sedettero all'ombra della casa. “Cosa fate qui?” gli chiese Andrea. “Sapeste! Mi hanno comandato di portare con il mio carro dei feriti all'ospedale e quando sono arrivato qui, mi hanno portato via cavallo e carro! In più mi hanno dato un colpo di spada perché stavo protestando.” “Anche voi? A me è accaduta la stessa cosa nemmeno un'ora fa. Mi hanno svegliato stamattina e mi hanno fatto fare un carico di farina di melica fin qui.. Io non ci ho rimesso le bestie perché i buoi erano del Console, ma mi hanno portato via il carro e tutti i sacchi di farina che ci avevo sopra. E ho dovuto anche scappar via alla svelta o se no mi davano anche delle bastonate.” “Guardate a me cos'hanno fatto” replicò Luigi mostrando il segno della piattonata che aveva subito. “Sanguina?” chiese. “No, ma avete un segno più nero che rosso.” “Ma cosa sono quelli lì. Delle bestie? Cosa abbiamo fatto noi di male per trattarci così? Ho più rabbia che capelli in testa. Guardate qui: sono stato depredato di tutto quello che avevo, sono a piedi, senza un soldo e lontano da casa. Cosa posso fare adesso?” “Io mi sono nascosto lì dietro ed aspettavo che mi ridassero almeno il mio carro. La farina potevano anche tenersela, ma senza il mio carro, cosa faccio? Aspettavo che arrivasse qualcuno con cui poter parlare, qualcuno di cui fidarsi.” “Non ci sarà nessuno che possa andare a parlare con quelli là? Che possa dire una parola buona per noi?” “Non credete. Quelli non guardano in faccia nessuno.” “Se passasse almeno qualcuno che conosciamo.. Magari potremmo chiedergli che cosa possiamo fare.” “Chi volete che ci conosca, qui?” Luigi e Andrea stettero a parlare con disperazione della loro situazione, ma erano contenti di essersi incontrati e di avere un amico che condividesse le loro disgrazie. Dopo alcuni minuti, comparve sulla strada un gruppo di persone che stavano allontanandosi da Castel San Giovanni. C'era un mulo che trainava un piccolo carretto pieno di masserizie e fagotti scortato da tre uomini ed una donna che aveva un fazzoletto bianco in testa. Un piccolo bambino dormiva in una cesta sul carretto. Il mulo era tenuto per le briglie da un giovane robusto ed era seguito dagli altri componenti della comitiva che camminavano in fretta senza guardarsi attorno. Luigi e Andrea andarono loro incontro decidendo di rivolgersi a quello che pareva il principale. Era un uomo sulla cinquantina dal viso quadrato senza barba che portava una borsa di cuoio a tracolla. Indossava un corpetto ricamato sopra la camicia aperta, calze bianche e dei pantaloni aderenti, lunghi fino al ginocchio. Ai piedi portava delle scarpette nere e teneva a tracolla una borsa di cuoio che proteggeva con entrambe le mani. Quando questi li vide avvicinarsi, si fermò e li guardò con sospetto. Chiese loro chi erano e che cosa volevano. Luigi gli spiegò la loro situazione. Loro erano due paesani di Campremoldo che erano stati derubati dai soldati dei loro carri e delle bestie dopo aver portato a Castel San Giovanni feriti e farina sotto loro ordine. L'uomo si tranquillizzò e si mostrò disponibile a parlare con loro che lo seguirono sulla scia del gruppo e del carretto che non si era fermato. “Bene, disse l'uomo, mi dispiace per voi, ma vedete? Mostrò la borsa. Ecco: io sono il signore Angelo Della Via, fino a ieri possidente di una bella casa confortevole che sta sulla strada per Voghera e di una tenuta coltivata dal mio fittabile che adesso sta portando il mulo. Quella donna è la sua moglie e sono dovuti fuggire con il loro figliolo che non ha nemmeno un anno. L'altro uomo che vedete, quello più anziano, è Giovanni,
il mio servitore. Proprio stanotte i soldati austriaci sono entrati come furie nella mia casa senza chiedere il permesso e hanno messo tutto a soqquadro. Hanno asportato provviste, capi di vestiario, biancheria, due letti, uno con materasso di lana nostrana e l'altro di penna, un anello di diamanti legato in oro con altri due cerchietti d'oro da mano, mentre io assistevo terrorizzato allo scempio: mobili squarciati, quadri bruciati e specchi ridotti in minuti pezzi e resi affatto inservibili. Poi mi hanno cacciato di casa sotto minaccia delle armi ed io sono fuggito con il mio fittabile che stava dormendo nella sua casa con la sua famiglia. Di tutto quello che avevo non mi sono rimaste che le poche cose che ho potuto portar via e quello che tengo in questa borsa. Ora mi sto recando a chiedere assistenza e rifugio a mio fratello, il signore Rubio Dalla Via che possiede una masserizia alla Cascina Berlasca, sperando che almeno lui si sia salvato dall'invasione di queste truppe che sono venute nelle nostre città per depredarle di tutto. Quanto a voi, vi consiglio di fuggire al più presto, perché questo posto non è più sicuro. Guardatevi! In questo momento di furore anche la vostra vita è a rischio. Allontanatevi dai luoghi dove possono vedervi e magari costringervi a servirli o mettervi in carcere. Quando sarà passata la buriana penserete ai vostri carri ed ai vostri cavalli. Ho sentito dire che questi austriaci se ne impossessano e poi, quando a loro non servono più, li rivendono, guadagnando del frutto delle loro rapine. Ecco, forse nei prossimi giorni potrete tornare a ricomprare le vostre bestie, ma adesso vi consiglio vivamente di allontanarvi per strade non trafficate dagli eserciti per evitare ulteriori pericoli. Voi mi dite che siete di Campremoldo, vero? Vi conviene venire assieme a noi fino a Cascina Berlasca passando per Villa Caramello e poi, per altre strade che voi conoscerete o attraverso i campi, raggiungere il vostro paese.” Luigi, per il suo mestiere, conosceva bene le strade, ma sapeva anche che avrebbe dovuto guadare il il Tidone fino a prendere la strada del Longore di Sopra che l'avrebbe portato a Campremoldo. Anche Andrea Cornelli era d'accordo nel seguire il signor
Dalla Via, perché era più prudente non seguire la strada per Borgonovo che sarebbe stata usata dalle truppe in avvicinamento a Gragnano. Che altra soluzione avrebbero potuto adottare? Così si accodarono al carretto ed iniziarono il viaggio di ritorno assieme alla famigliola del fittabile e dal signor Dalla Via che si lamentava in continuazione col suo servitore delle sue scarpe, più adatte ad un ricevimento che ad un viaggio a piedi per strade di campagna. Questi durante il percorso spiegò a Luigi ed al suo amico che gli camminavano accanto che suo fratello, il signore Rubio, era stato previdente ed ai primi accenni dell'avanzata dell'esercito austro-russo aveva lasciato la sua casa e si era rifugiato con la famiglia nelle sue terre di campagna, ma lui non lo aveva voluto imitare per fatalismo. Lui non aveva famiglia. Sua moglie era morta tre anni prima e non aveva un posto dove rifugiarsi. Aveva sperato di poter restare senza danni nella sua tenuta, ma le cose erano andate altrimenti. Non gli era restato che rassegnarsi al suo destino e cercare aiuto da suo fratello che era più pratico e più saggio certamente di lui. La giornata era bella e il sole del mezzogiorno era caldo. La strada era costeggiata da filari di gelsi che davano un po' d'ombra. Luigi scese a bere un po' d'acqua in un canale che scorreva sulla destra e vi si sciacquò il viso inginocchiandosi sulla sua sponda. Si avvicinò anche Andrea per imitarlo e dai rami dell'albero i passeri volarono via. Tutto intorno si stendevano campi di erba medica e di trifoglio. In mezz'ora arrivarono a Villa Caramello, ma non apprezzarono la sua bellezza per i troppi pensieri che occupavano le loro menti. Questa era una costruzione sorta nel 1739 su progetto del Bibbiena di proprietà dei Marchesi Paveri Fontana. Il gruppo la oltrepassò ed in capo ad un'altra ora arrivarono alla cascina Berlasca, dove furono accolti con sorpresa, come si può fare quando ci si trova davanti degli ospiti inattesi. Lì non potevano sapere quello che era successo ed il signor Dalla Via, dopo aver abbracciato il fratello che era intento a desinare con tutta la sua famiglia, prese a raccontare tutte le disgrazie che gli erano capitate. Tutti furono fatti sedere a tavola nella grande sala buia della cascina e furono serviti di una minestra di cavoli con pezzi di salsiccia, pane e bicchieri di mezzo vino. Il racconto del signor Angelo impressionò il fratello e sua moglie, la signora Maria Teresa, che continuava a mettersi le mani sugli occhi, quasi a non voler vedere le scene che le erano raccontate dal cognato. Il signor Rubio assillava il fratello con continue domande per sapere quello che stava succedendo in campo militare. Era anche assalito dall'apprensione perché, pur trovandosi momentaneamente in salvo, temeva che i fatti accaduti a Castel San Giovanni potessero accadere anche a lui e alla sua famiglia. Temeva che da un momento all'altro la cascina Berlasca potesse cadere sotto le mire di qualche gruppo di armati in vena di saccheggio. Sua moglie, al sentire queste parole perse la forza di continuare il pranzo e mise a farsi dei grandi segni di croce. Invece il giovane fattore che aveva guidato il mulo mangiava di gusto, momentaneamente soddisfatto di aver trovato una nuova casa dove avrebbe potuto rimanere con la sua famiglia e d'ogni tanto lanciava una occhiata rassicurante alla sua sposa che si era messa in disparte in un angolo della sala ad allattare il loro bambino. Infatti il signor Rubio aveva già trovato un posto per loro sul solaio della villa che era “ampio ed illuminato” ed a cui si poteva accedere comodamente con una scala a pioli. Nessuno poteva sapere per quanto tempo sarebbero stati costretti in quella situazione. Forse sarebbero stati giorni, magari settimane, perché non era possibile capire come sarebbe andata avanti la guerra. I fratelli Dalla Via si misero a fare considerazioni di ogni tipo e, pensando al loro possibile destino, cercavano di trovare la soluzione migliore; l'uno per salvarsi e l'altro per poter superare il difficile momento. Luigi ed Andrea si sentivano estraniati da quelle considerazioni e, finito di desinare, ripresero il loro viaggio verso casa. Salutarono i signori Dalla Via ringraziandoli vivamente dell'aiuto che era stato loro dato. Si erano resi conto che quei signori appartenevano ad una società molto più altolocata della loro e che nella vita comune non avrebbero mai potuto avere da loro una tale confidenza, constatando così che a volte le disgrazie accomunano le persone. Di questo parlarono i due amici mentre camminavano per le strade che li portavano verso casa. Rare erano le persone al lavoro nei campi e quelle che si vedevano qua e là spuntare dalle cascine o dalle case che si trovavano sul loro percorso lanciavano loro occhiate sospettose e scomparivano. Luigi ed Andrea ormai avevano assorbito con rassegnazione la loro situazione considerando che presto sarebbero arrivati a Campremoldo. Andrea Cornelli, trovò perfino la voglia di cantare una canzone. Aveva una bella voce che in quel pomeriggio risuonò nella pace dei campi: L'è finì April, l'è rivè Mazz. Deintar in sta casleina ghé una bella spuseina. Se la sarà brèva, la m' darà i òv dla galeina grisa: E s'lè mia grisa cla sia bianca, basta cla canta. Bell venga Mazz e la galeina 'c fa i òv l'è mia po' una pulastra. E la donna cla fa l'amur le mia po' una ragassa. Tutt il donn i fan al so bugà e gnarà al sul ad Mazz c'al farà sugà. Bell venga Mazz: scioppa la ciòssa con tutt i so ciussei! “ Toh!” disse rivolto ai suoi invisibili aggressori e sputò per terra. Sulla stradina che portava verso il Tidone, incrociarono un carro trainato da un paio di buoi. Si scostarono dalla carreggiata per farlo passare, ma il conducente si fermò e chiese loro da dove venivano e se avevano incontrato segni della guerra sul loro percorso. Luigi gli spiegò che venivano da Castel San Giovanni e andavano a Campremoldo, ma che finora su quella strada non avevano incontrato nessuno. L'uomo che guidava il carro era scuro di pelle, aveva la testa coperta da un logoro cappello di paglia ed era preso dalla fretta di tornare alla sua cascina perché in quei giorni si incontravano pericoli dappertutto ed era meglio non farsi vedere in giro. Da un momento all'altro ci si poteva trovare in mezzo a due eserciti che si sparavano addosso ed anche ora si sentivano colpi di cannone rimbombare dalla parte di Gragnano. Dopo l'incontro con l'uomo del carro con i buoi, Luigi ed Andrea ripresero la strada. Sotto il caldo sole del pomeriggio dovettero guadare il Tidone con l'acqua che arrivava al ginocchio, ma giunti sull'altra sponda, si sentivano ormai vicini a casa. La strada che portava al paese era un angolo del loro cuore. Luigi conosceva una per una le case e le cascine che apparivano al di là dei campi ed i volti delle persone che vi abitavano: gli uomini, le loro mogli e le loro madri, i bambini curiosi e soli, i vecchi che d'inverno stavano seduti nell'angolo accanto al camino o a godere d'estate del fresco respiro dei muri di pietra. Arrivarono a Campremoldo dalla strada del Longore verso le quattro del pomeriggio. In paese, tutto era tranquillo. Poco dopo Ferdinando e le sue sorelle, che stavano giocando con due gattini in cortile, udirono un grido provenire dall'interno della casa. Era il grido di disperazione di Angela che stava ascoltando i primi resoconti del viaggio del marito. Il 20 Giugno, a tarda notte, nell'osteria di Gariòn erano rimasti quattro Cosacchi che, alla luce delle lampade, in una atmosfera cupa e fumosa continuavano a pretendere di bere vino senza discernimento, ubriachi com'erano. L'illuminazione a quei tempi era costituita da lampade a petrolio che, nelle case, venivano poste in cucina o nella stalla, ma si usavano anche le candele di cera o lumi ad olio che avevano la fiamma riparata da vetri così che si potessero usare anche all'esterno senza il timore che si spegnessero. I Cosacchi parlavano tra di loro ad alta voce, e d'ogni tanto uno di loro si metteva a gridare contro qualcuno o qualcosa presente soltanto nella sua testa; un altro si alzava in piedi e si metteva a declamare versi con voce sgraziata e rauca, finendo per ricadere su se stesso per lo stordimento che provava. Poi, tutti assieme intonarono una canzone triste e stonata, mettendosi poi a ridere ed a darsi grandi pacche sulle spalle prima di finirla. Gariòn cercava di rabbonirli e di indurli ad andarsene dicendo che era molto tardi e che sino a quel momento avevano consumato 22 boccali di vino senza pagare, ma naturalmente quelli non capivano una parola, come lui non intendeva la loro lingua. Quando, con gesti evidenti, provò a spiegare che pretendeva il pagamento di tutto quel vino da loro consumato, ricevette uno spintone che lo fece sbattere contro la parete. Anzi, uno di loro, che aveva la giubba ricamata e forse era il più alto in grado, fece l'atto di sfoderare la sciabola che teneva appoggiata sulla panca, minacciando il povero oste per la sua pretesa. Era un uomo alto con i capelli lunghi, scuro in viso che gli puntava addosso due occhi neri e minacciosi e dalla cui bocca sdentata uscivano spruzzi di saliva mista a vino. Gariòn si prese una bella paura e non insistette più nel suo tentativo di presentare loro il conto. Sarebbe bella, si diceva, che oltre a bere a sbafo mi facessero anche del male! Mi converrà far finta di niente ed assecondarli, ma domani stesso presenterò la lista dei danni subiti al Comitato perché non è giusto che io debba rimetterci e se esiste una giustizia dovrò essere ripagato! Ad un certo punto la lampada principale del locale si spense, forse per esaurimento dell'olio che la alimentava e nel locale restarono accese soltanto tre candele: due sul bancone e una sul tavolo dei russi. Questi incominciarono ad imprecare, ma Camilon staccò la lampada dalla trave e mostrò che non faceva più luce perché non c'era più olio. Il loro capo si alzò a guardare, ma perse l'equilibrio e si
riversò sul tavolo facendo cadere bicchieri e piatti. Gli altri cosacchi si misero a ridere, ma questo non fece piacere al caporione che afferrò uno di loro per il bavero e si mise a scuoterlo. Poi, con voce minacciosa si mise a gridare qualcosa ed i tre si alzarono e, raccattando i loro cappelli, uscirono senza fretta dall'osteria. Gariòn trasse un respiro di sollievo, ma non poté tirarlo del tutto perché quel cosacco si rimise a sedere ed a finire di bere quello che gli era rimasto nel boccale. Adesso il suo umore era diventato cupo: se ne stava seduto quasi al buio a rimuginare i suoi pensieri. Fuori dall'osteria, estromessi dalla presenza degli invasori, alcuni uomini seduti su di un mucchio di ghiaia, parlavano tra di loro sottovoce come un gruppo di cospiratori. Videro uscire i tre cosacchi, prendere i cavalli ed avviarsi verso il loro accampamento che era situato all'incrocio della strada per Mottaziana. Le loro voci erano voci d'ubriachi e le loro parole incomprensibili. Sbuffavano contro le loro bestie colpevoli di non fare quello che loro pretendevano e quando si furono allontanati, come ombre nell'ombra, rimase l'eco delle loro sgangherate risate. Dalle finestre dell'osteria trapelava una fioca luce proveniente dalle candele. Nell'osteria era rimasto ancora un cosacco. La notte era serena e c'era la luna che la rischiarava. Si intravedeva la striscia bianca della strada e le macchie scure delle case e degli alberi. Oltre a Luigi, nel gruppo che se ne stava al buio, invisibile a tutti, c'erano Andrea Cornelli, Pietro Gandini, casante fuggito da Castelbosco e i fratelli Domenico e Costante Mussi. Tutti loro in quei giorni avevano subìto i danni provocati dalla guerra e si raccontavano l'un l'altro le loro storie e le loro disgrazie, riportando anche notizie ascoltate in giro di fatti accaduti un po' dappertutto. Erano racconti di prepotenze, furti, spogliazioni e persino di uccisioni commesse dagli eserciti in guerra che avevano invaso quella terra come un vento che tutto abbatte e tutto distrugge. Luigi aveva raccontato quello che gli era capitato nel suo forzato viaggio a Castel San Giovanni, mentre Pietro Gandini descrisse il saccheggio di Castelbosco al quale aveva assistito. La cosiddetta Rocca era stata spogliata di letti, mobili, biancherie e di tutto quello che era appartenuto a ben dodici famiglie ed il Marchese era stato depredato di farina di frumento e di mistura, melica, fagioli e ceci, biade, orzo, vino buono e mezzovino, una cavalla ed un'asina col suo puledrino e di una sedia a due posti quasi nuova. L'alfiere Cagnani, fittabile alla Bergamina che gestiva le stalle e la produzione del formaggio grana, aveva subito un danno rilevantissimo. Oltre alle solite farine, gli erano stati sottratti ben 64 carri di fieno, tre carri, due cavalli e uno sterzino, sette paia di buoi, due cavalle ed un puledro, 19 vacche e altre 19 tra manzi e manzole. Ancora: 48 suini, tra cui 16 magroni, 18 savarnaroli, 14 piccoli e 13 pecore. Gli vennero rubati ben 757 pesi di formaggio grana oltre a biancheria e mobili. Poi fu la volta di Costante Mussi, che di professione faceva il cavalcante, raccontare la sua avventura. Egli stesso, in compagnia del Console Francesco Spelta e di soldati Francesi, era stato oggetto di requisizione di due buoi e due rolanti per andare alla Trebbia a caricare feriti per portarli altrove, ma erano stati raggiunti da Tedeschi e Russi che facevano man bassa di tutto ciò che credevano fosse appartenuto al nemico. Costoro avevano cominciato a far fuoco ed a percuotere lo stesso Console, per cui erano stati costretti a fuggire
abbandonando tutto. Suo fratello Domenico raccontava un episodio agghiacciante: una giovane donna era stata rapita dalla sua villa di Campremoldo ed era stata trascinata nel campo dei Cosacchi, dove fecero scempio su di lei mentre era svenuta. Tutti questi racconti provocavano costernazione in quegli uomini, duri nell'affrontare la vita, ma in fondo semplici ed ingenui del fatto che potessero avvenire cose così fuori dal loro mondo. Trovavano consolazione nel poter raccontare agli amici i soprusi subiti e nel renderseli compagni di disgrazia, ma provavano anche una rabbia sorda verso coloro che li avevano causati. Quelli che li avevano costretti a trasportare feriti e si erano
impossessati dei loro carri e dei loro animali, quelli che li avevano picchiati e scherniti minacciando la loro vita, quelli che in nome di un potere e di un ideale avevano rubato, depredato, distrutto e bruciato le loro case. La guerra aveva messo il paese in ginocchio per i danni provocati alle persone ed ai loro beni. Gli eserciti avevano
spadroneggiato sulla popolazione inerme, la cui unica colpa era quella di trovarsi sul loro passaggio. Le continue razzie avevano portato a depredare il paese di Campremoldo Sotto di una gran quantità di beni che, sotto la dicitura di “somministrazioni”, ovvero di quelli che avrebbero dovuto essere conferimenti compensati, nascondevano la natura di veri e propri furti perché coloro che erano stati obbligati a conferire non sarebbero stati mai più ripagati. Ed in una comunità relativamente ristretta come poteva essere quella di un paese di 400 anime le sottrazioni erano state veramente imponenti. Da una nota che riguardava le somministrazioni conferite alle Imperiali Armate Austro-Russe si potevano leggere queste cifre: Vino boccali 25.632, Castrati e pecore: 33, Bovi e vacche: 18, Maiali: 65, Salame, lardo, strutto: pesi 29,4, Sale: pesi 31,12, Olio e candele: libre 156, Frumenti: staja 76, Melica e fava: staja 343, Riso: pesi 1,12, Fieno: pesi 2,575, Fascine: numero 350, Biada: staja 6, Carri perduti: 10, Cavalli e muli perduti: 9. In tutto i danneggiati a Campremoldo Sottano dal 18 al 25 giugno furono 44 per un valore di lire 17.742. Per commemorare questo avvenimento venne scritta una strofa in dialetto da Pietro Sforza Fogliani (1851-1877): In dal mill e settseint novantanoeuv Quand gniss zo i Russ col car sior Sovaroff Par fa i padron in ca nossa e rompann j'oeuv in dla Trebbia as nandè sol in d'un boff. Tutt quel che ai calson ross costé tant vitt: ma ag manchèva al razdor: l'ero in Egitt. Descriv la confusion me an ta sarev, Ac pariva ch' fiss vegn la fein dal mond, parchè i n'erann conteint 'd mangià e bev, Ma a tutt qull gh'avma ad mei ig vdivn al fond: Ciocc sti ladron giravn in zà e in là, Dsonorand donn, roband brusand il cà. Sicchè, tant par salvè qull poc c'ass gh'ava, Dai sgriff di lòv mandà zò che in pastura In d'un ort, o un zardein, o un camp ad fava,Scond il sachett sott terra ogneuin procura, Che possà sti brutt teimp, onestameint 'L godrà qull poc muccià a furia da steint. Mentre suo marito Luigi era fuori di casa a parlare con gli altri uomini nella notte buia, Angela era andata a letto spossata ed impaurita dal racconto della tragica odissea vissuta dal marito. Aveva messo a letto i figli rassicurandoli del ritorno del padre, ma Ferdinando non aveva voluto addormentarsi, scosso dalla notizia della perdita della Bigia. Non si capacitava che la loro cavalla non fosse rientrata nella stalla, quando suo padre era tornato, e stava quasi addebitando a lui la colpa della sparizione di quell'animale che gli era tanto caro. Così aveva addosso una smania che non lo faceva acquietare e avrebbe voluto andare a cercare la sua Bigia ovunque fosse. Lacrime amare scendevano dai suoi occhi e si nascondeva per non farsi vedere piangere né dalla madre, né tanto meno dalle sue sorelle. Scese dal letto, si aggrappò al legno della finestra e si calò sull'albero di fichi che si trovava nel cortile e che faceva da scala per la sua fuga. Si sedette ai piedi del tronco, sempre singhiozzando. Attorno a lui stava la notte buia ed i suoi pensieri erano senza speranza. Ferdinando sapeva dove poteva essere suo padre. Era certamente seduto assieme ai suoi amici sulla catasta di tronchi vicino alla bottega di Bertino o sul mucchio di ghiaia vicino all'osteria. Cosa si stavano dicendo? Cosa stavano facendo? Piano, piano uscì dal cortile e prese a camminare nella strada che portava al centro del paese. Quando sentì avvicinarsi degli uomini a cavallo, si gettò a terra nel fosso e li lasciò passare. La notte era fonda, ma Luigi ed i suoi amici non intendevano tornare alle loro case. Cosa avrebbero potuto raccontare alle loro famiglie? Non era meglio che almeno alle loro mogli ed ai loro figli le atrocità di cui erano venuti a conoscenza fossero risparmiate? Non era meglio sentirsi tra compagni, tra amici, che starsene nei loro letti ad occhi aperti ad aspettare l'alba? Tre cosacchi avevano lasciato l'osteria ed erano tornati al loro bivacco e finalmente anche il quarto uscì. Il suo cavallo l'aspettava legato alla sbarra e mosse un passo quando l'uomo gli si avvicinò barcollando e biascicando parole sconosciute. Alla luce della luna pareva un mostro, una creatura del male, ma era soltanto un ubriaco incapace perfino di montare in sella. Gli uomini lo videro allontanarsi dal suo cavallo e girare dietro l'angolo dell'osteria per orinare. Si guardarono in faccia e tutti ebbero una sola idea. “Masumal!” Ammaziamolo! sussurrò Andrea Cornelli. I fratelli Mussi scattarono assieme ed attraversarono la strada dirigendosi in fretta verso l'osteria che distava cinquanta passi da loro. Subito Luigi li seguì e dall'ombra una figura passò dietro gli alberi che costeggiavano la strada. Era Ferdinando che, non visto, correva a vedere quello che sarebbe successo. Le cose si svolsero in fretta: il cosacco non si avvide di niente. Uno dei fratelli Mussi, Costante, comparve alle sue spalle armato di un forcone per raccogliere il fieno e lo colpì con un solo colpo. Le punte dell'attrezzo si piantarono nel corpo del cosacco ed il suo aggressore ve le spinse a fondo. Il russo fece appena un gesto con la mano per toccarsi la schiena e poi cadde in ginocchio senza un lamento. Allora Domenico Mussi scostò il fratello, afferrò il manico del forcone e facendo leva con un piede sulla schiena del cosacco lo sfilò dal corpo e glielo piantò nella nuca. Ferdinando vide tutto, nascosto dietro la staccionata sul retro. Sentì al piano di sopra dell'osteria aprirsi una finestrella e vide apparire Marietta, la madre di Gariòn con una lanterna accesa in mano. Il corpo del cosacco giaceva proprio sotto di lei, rannicchiato e scomposto. Per un momento si udì ancora il suo respiro, ma ben presto tutto fu silenzio. Quando vide cos'era successo, Marietta sputò dall'alto sopra il morto. Ferdinando corse subito a casa per precedere il ritorno di suo padre. Angela, nel sonno, pensò di aver sentito un grido. Pensò che era stato un urlo a svegliarla. Ma forse, no. Si rigirò nel letto e tutte le sue paure tornarono. Forse era solo la sua irrequietezza che alla fine l'aveva svegliata nella notte. O era stato l'abbaiare lontano di un cane a svegliarla? Nell'oscurità guardò il riquadro della finestra aperta e pensò di accendere il lume, ma anche se il lume fosse stato acceso, che cosa avrebbe potuto vedere? Il lenzuolo le pesava addosso. Lo gettò indietro, fece scivolare le gambe giù dal letto, si affacciò alla finestra e guardò fuori. Da lontano sentì lo scalpitio di un gruppo di cavalli che venivano nella sua direzione. Si ritrasse immediatamente dalla finestra e li vide passare. Erano cavalieri sconosciuti, che parlavano tra di loro in un linguaggio astruso. Erano i tre cosacchi che stavano passando e si allontanavano lungo la strada. Uomini maledetti, canaglie venuti da chissà dove per portare angoscia fin dentro a casa sua. Luigi era là fuori, da qualche parte con altri uomini del paese. Pover'uomo! Per aver fatto il suo lavoro si è preso botte ed insulti e gli erano stati rubati il carro ed il cavallo. Cosa ne sarebbe stato di loro? Si sedette nel letto ed incominciò a recitare le sue preghiere. Ferdinando rientrò di soppiatto alla sua casa ed al suo letto facendo il percorso inverso rispetto all'andata, quando in quella notte piena di misteri e così diversa da tutte le altre, aveva sentito la bramosia di andare a vedere cosa succedeva in paese, in quel mondo una volta quieto ed ora sconvolto da tragici avvenimenti. Per lui era un gioco scalare la pianta del fico che sorgeva contro il muro di casa, sotto la finestra della sua camera. Lui conosceva bene i passi che doveva fare ed anche al buio in due balzi entrò. Non si era fidato ad entrare dalla porta perché sua madre l'avrebbe senz'altro sentito aprire l'uscio e salire le scale. E poi l'uscio per precauzione poteva essere chiuso dal catenaccio, anche se suo padre era ancora fuori: quando sarebbe rientrato, sua moglie gli avrebbe aperto. Comunque il movimento di Ferdinando non passò inosservato alle sorelle che dormivano nella camera assieme a lui, se non per il rumore dei suoi passi, per l'ansimare del suo respiro e per il crocchiare del paiòn, il materasso di foglie di granoturco. Ferdinando non fece in tempo a stendersi che subito sua sorella Caterina, che aveva sei anni, gli chiese dov'era stato. “Da nessuna parte, rispose” ma nel frattempo anche l'altra sua sorellina più piccola, Giovannina, che aveva cinque anni, si era svegliata e incominciò a chiedere che cosa stava succedendo. “Niente” fu la risposta di Ferdinando. Non valeva la pena spiegare cose da grandi a quelle due stupidine. “Dormite, vah!” disse loro, ma Caterina ormai era sveglia del tutto e si lamentò: “Non posso dormire quando vai fuori di notte. Mi prende la paura.” “Dai dai..” “Quando c'è buio e tu non ci sei, ho paura..” “Di che cosa?” “Quando oggi nostro padre è tornato a casa e parlava con la mamma, lei piangeva e io avevo paura.” “Ma no, non è successo niente.. Adesso viene a casa anche il papà.” Lui era il più grande ed in fondo sentiva la responsabilità di dover badare alle sorelle e di tranquillizzarle. Ma Caterina proseguiva nel suo discorso. “E poi.. stasera il papà è uscito e mi ha detto che andava a cercare la Bigia. Io gli ho domandato dov'era e lui mi ha detto che era andata a pescare le rane, ma io non ci ho mica creduto. Neh, Nanù, perché la Bigia non è tornata nella stalla?” “Magari è vero che è andata a pescare le rane.” "Ma io non sono tanto stupida da crederci.” “Come fa a pescare le rane?” chiese Giovannina. “Le prende con la coda e se le butta in bocca.” “E le butta giù vive?” “No, prima le fa friggere nel padellino..” A sentire quelle parole le due sorelle risero ed anche Ferdinando le seguì nella risata, soddisfatto della sua battuta. "Insomma” disse Caterina, “stanotte nessuno dorme. Il papà non è ancora tornato, la mamma non dorme neanche lei perché ho sentito che si è alzata due o tre volte e una volta ha anche acceso la lampada..” “Aspetterà il papà per aprirgli il catenaccio..” “Tu torni a casa entrando dalla finestra..” “E la Bigia è andata a pescare le rane..” aggiunse Giovannina continuando a ridere. “E voi due continuate a chiacchierare. Cominciate a dormire voi.” Per un po' ci fu silenzio, ma Caterina non poteva non esprimere il suo stato d'animo: “Perché c'è la guerra?” chiese più a sé stessa che al fratello. “Io li ho visti passare i soldati. Quanti! Erano tanti..” Fece una pausa ed aggiunse: “Quando sei grande, ci vai anche tu in guerra?” L'immagine dei soldati in marcia si formò nella mente di Ferdinando, ma un'altra immagine subito gli apparve. Quella di qualcuno che piantava un forcone nella schiena di quel cosacco. Era stata una scena terribile che aveva però riempito di gioia il cuore di Ferdinando. Una gioia crudele e selvaggia che lo
aveva elettrizzato. Non aveva mai visto uccidere un uomo e per lui quello era stato un vero spettacolo. C'era buio, ma aveva visto quell'ombra scura che si era per un attimo stagliata contro il muro dell'osteria ed aveva sentito il colpo secco. Poi aveva visto illuminarsi la finestra a cui era apparsa la madre di Gariòn e la scena era comparsa nella sua interezza. Il volto di suo padre era terreo, quando si sentì quella donna sputare giù. Il corpo del cosacco venne portato nel campo dei morti e seppellito in gran fretta. Il suo cavallo fu preso da Pietro Gandini e portato lontano perché non se ne trovasse traccia. Il mattino seguente Angela si alzò più stanca che mai e corse alla finestra con apprensione, temendo di scoprire, soltanto aprendo le imposte, chissà quale sconvolgimento potesse essere in atto. Invece, tutto intorno era tranquillo e scoprì la serenità di una nuova giornata estiva. Così si apprestò a vivere un nuovo giorno, scendendo a preparare la colazione per tutti, rincuorata e fiduciosa. Giovannina continuava a chiedere al padre dove fosse la Bigia e se era vero che era andata a pescare le rane nella Luretta. Luigi rispondeva in modo evasivo lanciando occhiate preoccupate ora ad Angela, ora a Ferdinando, venendogli il sospetto che fosse stato proprio suo figlio ad allarmare le sorelle. Alla fine della colazione, uscì di casa e lo chiamò col pretesto di dovergli far vedere un lavoro che doveva fare. Ferdinando lo seguì taciturno, mentre Angela osservava in silenzio quella manovra di cui non capiva il significato. Quando furono sotto il portico dietro casa, Luigi disse al figlio che la Bigia gli era stata rubata dai soldati quando lo avevano costretto ad andare a Castel San Giovanni, ma che sperava di poterla riavere ricomprandola da chi gliela aveva rubata. Sarebbe andato al mercato con Andrea Cornelli per vedere quello che si poteva fare, sperando di potersi procurare i soldi necessari. Mentre gli parlava, Luigi vedeva Ferdinando stranamente attento e preoccupato e dal suo sguardo capì che non aveva più a che fare con un bambino. Era capitato qualcosa che lo aveva maturato. Allora gli venne il sospetto che potesse sapere qualcosa sull'ammazzamento del cosacco e gli chiese che cosa avesse fatto la sera precedente. “Niente, rispose Ferdinando.” “Sei stato in giro?” “No..” “Dimmelo. Mi sei venuto dietro quando sono andato in piazza?” Ferdinando non rispose e Luigi capì. “Questi sono brutti tempi, disse infine.” Poi non disse più niente. L'uccisione del cosacco, che Ferdinando ricordava con crudele soddisfazione, era un fatto che non vedeva l'ora di poter raccontare a Gepù, il solo amico con cui poteva confidarsi. Il segreto che portava con sé voleva a tutti i costi uscire allo scoperto. Corse da lui e lo trovò che stava zappando nell'orto dietro casa. Subito gli chiese con fare misterioso se non aveva mai visto un morto. “Perché, tu l'hai visto?” gli chiese Gepù ed allora Ferdinando gli raccontò tutto, di come suo padre ed i fratelli Mussi avessero accoppato quel russo e l'avessero seppellito. Gepù restò a bocca aperta nell'udire quel fatto e Ferdinando si sentiva importante per esserne stato testimone. Dopo quel primo momento di stupore, Gepù lanciò un grido di soddisfazione e abbracciò l'amico mettendosi a gridare: “Hanno fatto bene! Dovevano ammazzarli tutti e quattro, quei puzzoni!” Alla porta della cucina si aprì una tenda ed apparve la madre di Gepù, attratta da quelle grida. Era una donna alta dall'aspetto severo, alla quale Ferdinando non era simpatico perché distoglieva suo figlio dal lavoro che stava facendo. Indossava un grembiule grigio, aveva le maniche rimboccate e teneva nelle mani un tegame ed un cucchiaio di legno perché stava preparando una marmellata di ciliegie. “Va a cà, Nanù! Vé mia seimpar ché a fè perd dal teimp!”gridò e, senza aspettare un esito alle proprie parole, rientrò in casa. “Tò mèr lé seimpar rabì! Oh! Dig mia gnint, veh?” raccomandò Ferdinando. Gepù a sua volta raccontò che il giorno prima erano venuti a casa sua due soldati con un carretto trainato da un mulo chiedendo di mangiare, ma continuando a guardare verso il pollaio. “Mio fratello appena li ha visti è corso nei campi dove mio padre stava tagliando l'erba. Quei due avevano gli stivali neri alti fin sopra il ginocchio, lo schioppo sulla spalla e la spada che gli ballava sulla pancia. Avevano delle brutte facce con i baffi ed un cappello alto in testa. Uno diceva che voleva qualcosa da mangiare facendo il gesto di mettersi del cibo in bocca e l'altro girava per il cortile per vedere se poteva portarsi via una gallina. Mio padre, quando è arrivato ha capito subito che non c'era da scherzare. E' andato nel pollaio, ha tirato il collo a due galline e gliele ha date. Quelli hanno preso anche un sacco di patate ed uno di mele, li hanno messi sul carretto e finalmente se ne sono andati. Mio padre ha detto: Quei pieni di merda lì arrivano qui, spaccano tutto e poi vanno in giro a rubare galline! Oh, mio padre l'ha detto!” Dopo una settimana dal suo inizio, la guerra si spostò verso est e le truppe straniere si fecero sempre meno presenti in paese. Ma il giorno 23 giugno un gruppo di armati russi passò a Campremoldo e vi sostò. Facevano parte delle truppe di retroguardia che rastrellavano il territorio conquistato in battaglia. Erano sicuri di sé ed esaltati perché, avendo campo libero, potevano permettersi tutto senza rischiare niente. Quel gruppo era formato da una ventina di soldati che presero d'assalto l'osteria e, come era successo in precedenza, si misero a pretendere di poter mangiare e bere senza dover pagare. Due di costoro, lasciarono l'osteria di Gariòn e, dopo essersi guardati attorno, puntarono decisamente verso la chiesa, pensando che al suo interno vi si trovassero chissà quali tesori. La chiesa di Campremoldo a quell'epoca era abbastanza piccola, vecchia di duecento anni e priva di ogni elemento decorativo che potesse esternare lussi o magnificenze. Costruita in una sola navata, era illuminata da poche candele che venivano subito spente dopo le funzioni. Il suo campanile consisteva non altro che in una torretta che sporgeva dal tetto ed aveva una sola campana di bronzo che veniva suonata all'alba ed al vespro per richiamare i fedeli alle sacre funzioni. L'altare maggiore era di pietra arenaria, decorata da alcuni semplici bassorilievi e ricoperta da una tovaglia ricamata. Il tabernacolo era di legno dipinto ed il calice che serviva per
la Messa era di rame lucido, mentre quello dorato, l'ostensorio d'argento, la pisside e gli altri oggetti preziosi erano stati nascosti in un vano segreto della sacrestia per timore che venissero depredati, come infatti pensavano di fare quei due soldati russi. Loro avrebbero saputo bene come fare a farli saltar fuori, perché anche i preti erano uomini ed un paio di sciabolate potevano convincerli a rivelare dove tenevano quell'oro che qualche fedele credulone aveva certamente donato alla chiesa sperando così di salvarsi l'anima. Prima ancora che i due russi entrassero in chiesa si parò davanti a loro Maretti, il sacrestano, che, intuendo le loro intenzioni, cercava di respingerli. Aveva le braccia strette davanti al petto, gli occhi strabuzzati. Maretti incominciò a gridare: “Via, via! Santissimo Sacramento, casa di Dio!” Quell'uomo magro e tremante non fece impressione ai soldati: uno di loro lo prese per un braccio e lo tirò verso di sé; l'altro sghignazzando gli diede un ceffone sul collo ed il povero Maretti si sbilanciò, fece qualche passo sgraziato e cadde sui gradini del sagrato, battè la testa e rimase senza vita. Il giorno dopo, quando anche l'ultimo dei soldati lasciò il paese, ci fu il funerale di Maretti. Il suo corpo venne richiuso in una semplice cassa di legno, caricato su di un carro e portato al camposanto dove una buca scavata di fresco l'attendeva. Accanto alla tomba c'erano molti paesani che stavano muti ad osservare la cerimonia pensando al triste destino di quell'uomo tanto semplice e mite da poter essere considerato poco intelligente. Ferdinando dava la mano a suo padre e non sapeva formulare dentro di sé un pensiero compiuto. Quando scorse fra la gente Gepù gli rivolse un gesto di saluto, tornando poi a guardare il prete che leggeva da un libro di preghiere rilegato in pelle. Da qualche parte proveniva il pianto sommesso di una donna e nel cielo chiaro che sovrastava il camposanto si sentì lo strepito di un uccello che sovrastò la voce sommessa di Don Andrea. Questi terminò le preghiere e benedì la salma con l'aspersorio mentre tutti si facevano il segno della croce. Poi la bara fu calata e gli spalatori incominciarono a coprirla. Mentre la gente cominciava ad allontanarsi, Ferdinando stava pensando a quante volte lui ed i suoi amici avevano canzonato il povero Maretti dandogli del“sumèr” ed ora avrebbe voluto chiedergli scusa.La sua mente vagava a passi incerti nel mistero della morte paragonando quella di Moretti a quella del cosacco russo, trovandovi tutte le differenze che i due casi comportavano. Anche se entrambe erano state morti violente trovava l'una ingiusta e l'altra sacrosanta per le motivazioni che le avevano causate, ma ora, sia l'una che l'altra non avevano più senso. Il giorno seguente, alla funzione serale, dopo la benedizione, Don Baccini parlò ai suoi parrocchiani che non erano mai stati tanto numerosi. La pace era temporaneamente tornata su quelle terre e tutti speravano di poter dimenticare i lutti e di tornare a vivere. Don Andrea fece un consuntivo di quei terribili giorni passati, esortò a sperare in Dio ed auspicò che con la fine di un secolo tanto burrascoso, nell'800 si aprisse un' era di pace e di benessere materiale e spirituale.Il suo pensiero corse a coloro che avevano perso la vita ed al dolore dei loro familiari, esortando le anime buone ad assistere i più bisognosi. La sua preghiera sarebbe stata sempre indirizzata verso di loro ma anche agli autori di quella guerra, ai sopraffattori ed ai carnefici, come aveva insegnato Gesù Cristo dicendo di amare i nostri nemici. Per loro ci sarebbe stato il giudizio di Dio.“E alla fine del mondo i buoni saliranno in paradiso; i cattivi, invece, bruceranno nel fuoco eterno. Dio dirà: tu non hai fatto del male a nessuno, allora vieni alla mia destra, qui c'è il Paradiso. Ma agli autori del male che abbiamo subìto dirà: Voi andate laggiù, nell'Inferno!” All'uscita della funzione, incominciò a piovere e piovve per tutta la notte.A Luglio, Luigi Zucconi ed Andrea Cornelli andarono al mercato del bestiame di Castel San Giovanni. Luigi ritrovò la sua Bigia e la ricomprò. La riportò a casa, ma dopo pochi giorni la cavalla morì.
“Piero Zucconi 2010”