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il Castello di San Pietro in Cerro


lo stemma
Un paese-giardino, nella Val d’Arda, sorto accanto al maestoso cerro della pieve di San Pietro. Il suo maniero, dimora gentilizia d’impianto quattrocentesco, appartenne per cinque secoli alla stessa influente casata. Ospita trenta sale, una biblioteca storica con oltre duemila volumi ed il MIM – Museum in Motion con più di ottocento opere di maestri contemporanei, artisti del fantastico, italiani e stranieri, esposte a rotazione. Nel cuore della pianura piacentina, appena oltre il rinascimentale borgo di Cortemaggiore, in prossimità dei confini con le province di Parma e Cremona, c’è San Pietro in Cerro. E' un “paese-giardino”, attraversato com’è da viali alberati e verdeggianti parchi che si introducono con garbo nel centro abitato. Piante ed aree agricole circondano gli edifici più importanti e i monumenti, sicchè conserva ancora la tipica atmosfera delle borgate rurali. E' zona di produzione e stagionatura del formaggio Grana Padano, prodotto nei caseifici sparsi per la campagna. E' terra di lavorazione degli insaccati di maiale come la coppa, la pancetta e il salame, preparati ancora in modo artigianale, tipici di una secolare tradizione norcina. Si trova nella Val d’Arda, a poco più di un chilometro dalla sponda sinistra del torrente, nella fascia della pianura padana detta “bassa” o “irrigua” per distinguerla da quella “alta”, detta anche “asciutta”. Le due aree si differenziano non solo per l’altezza, ma anche per la natura dei terreni, il regime delle acque e la vegetazione. Le demarca il tracciato della via Emilia, la strada fatta costruire dal console romano Marco Emilio Lepido per collegare in linea retta Rimini con Piacenza. Pure le origini del paese fanno riferimento ai romani, che qui edificarono un castrum a difesa dai Galli. Il villaggio era ubicato lungo un antico percorso che collegava la via Postumia con la strada Francigena: la via a Bardum. Per primo, alla fine del IX secolo, ne parlò il vescovo e storico Liutprando di Cremona: “..Hannibalis viam, quam Bardum dicunt..È”. La Postumia è una via consolare romana fatta costruire nel 148 a.C. dal console Postumio Albino nei territori della Gallia Cisalpina, l’odierna pianura padana, per scopi prevalentemente militari. Congiungeva via terra i due principali porti romani del nord Italia, Genova e Aquileia, centro nevralgico dell’impero, sede di un grande porto fluviale accessibile dal mare Adriatico. La strada, lasciata Genova, proseguendo nel suo cammino giungeva a Placentia (Piacenza), dove si intersecava con la via Emilia e quindi a Cremona, Verona, Vicenza, Oderzo e, forse, Iulia Concordia (Concordia Sagittaria). Era l’unica via interamente terrestre che consentiva di arrivare da Roma al nord-est e al Trentino: il suo ponte a Verona era l’unico passaggio sull’Adige. La via Postumia, con qualche modifica e con alterne fortune, rimase in funzione almeno fino all’VIII secolo, sotto il controllo dei monaci della potente Abbazia di San Colombano di Bobbio, per poi cadere lentamente in disuso. La seconda, la “Francigena” (cioè, storicamente, il cammino che viene dalle “France”) non era propriamente una via ma, piuttosto, un fascio di vie, una “area di strada” con alquante varianti. La percorsero, già prima dell’anno Mille e da tutta l’Europa, migliaia di viatores, pellegrini, mercanti, sovrani ed ecclesiastici – che intrapresero lunghi e disagevoli viaggi per visitare le sepolture degli apostoli a Roma. Il pellegrinaggio “romeo”, cioè verso Roma, in visita alla tomba di Pietro, il primo dei discepoli di Cristo, fu nel medioevo una delle tre peregrinationes maiores insieme alla Terra Santa e a Santiago de Compostela, dove si trovano le spoglie dell’apostolo Giacomo.

Il cerro maestoso: la quercia di San Pietro.
In questo contesto, pure il nostro villaggio era parte di un territorio di transito, come dimostra anche la presenza, nella vicina frazione di Polignano, di una chiesa romanica documentata intorno all’anno Mille e dedicata a san Donato. La commemorazione liturgica del santo aretino, considerato il protettore degli epilettici per la guarigione miracolosa di un bimbo, ricorre il 7 agosto. Tra i casi portentosi che la leggenda devozionale gli attribuisce il più noto è quello del calice, per il quale avrebbe subito il martirio, nell’anno 304 o 362 d.C.. Durante la celebrazione della messa, uomini pagani entrati nel tempio mandarono in frantumi con violenza il calice di vetro. Donato, raccolti i cocci, li rimise insieme, ma ne mancava uno. Noncurante di ciò, vi avrebbe versato il vino servendolo ai fedeli senza che ne cadesse dal fondo neppure una goccia. I pagani, per il fatto prodigioso, si sarebbero convertiti al cristianesimo, ma Donato fu arrestato dal prefetto di Arezzo e decapitato. Pressappoco coeva alla chiesa di Polignano, nel 996, sorse accanto a un maestoso cerro – così si narra – una pieve dedicata a san Pietro. Per tutto il Medioevo il paese gravitò attorno ad essa. La presenza di una chiesa plebana (dal latino plebs, popolo), dove si svolgevano le cerimonie più importanti come i battesimi e i matrimoni, denota l’esistenza di un agglomerato urbano, poichè alle pievi facevano capo numerose cappelle sparse nella campagna. L’origine del toponimo “in Cerro” si spiega con la consistente presenza in quella zona di una varietà di quercia, il cerro appunto, nome comune dell’albero Quercus cerris.

La dote di Maddalena: possessioni, case e acque.
Oltre alla Pieve si trova citata nei più antichi documenti anche una torre difensiva, che servì per contrastare le incursioni dei cremonesi nel territorio piacentino. C’è chi ritiene che il mastio del castello quattrocentesco ancora oggi esistente si sovrappose a quella originaria struttura. La località, divenuta in seguito un avamposto militare dello Stato Pallavicino, passò sotto il dominio di diverse e potenti casate: feudo nel 1466 della famiglia dei conti Barattieri, di cui si conservano tuttora il castello cui si è accennato e il palazzo seicentesco, conobbe in precedenza la signoria dei Malaspina e dei Landi. Nel 1395 “possessioni, case ed acque … nella villa e territorio di San Pietro in Cerro … con tutto quello che si trova sopra detti beni” erano assegnate a Urbano Dolzani. All’epoca il castello non esisteva ancora. I Dolzani, una delle più antiche famiglie piacentine, le cui origini risalgono agli inizi del XII secolo, esercitavano l’attività di cambiavalute nei mercati francesi. Il loro giro d’affari era secondo solo a quello degli Scotti: avevano ottenuto l’autorizzazione regia per operare nelle fiere di Champagne e di Bar e contavano tra i loro clienti il duca di Borgogna. Per il prestigio economico e sociale raggiunto, nel 1355 Castellino Dolzani conseguì l’investitura a cavaliere (miles). Nel 1421, in occasione del suo matrimonio con Bartolomeo Barattieri, Maddalena Dolzani portò in dote i beni aviti di San Pietro in Cerro. Il patto dotale disponeva che i fratelli di Maddalena, Raffaellino e Castellino Dolzani, cedessero allo sposo Bartolomeo Barattieri tutti gli edifici, i terreni, gli affitti, le “decime”, i diritti di caccia e pesca, gli onori e le giurisdizioni posseduti ed esercitati nei territori di San Pietro in Cerro, Polignano, Chiavenna Landi, San Nazzaro e Cortemaggiore.

Dadi, monete e baratti: chi azzarda il sogno d’un castello?
Bartolomeo, esperto di diritto civile e canonico, discendeva da una famiglia di giuristi che parteciparono attivamente al governo di Piacenza. Erano membri del Collegio dei Dottori e dei Giudici: la corporazione che nel tessuto sociale della città medievale occupava il primo posto nella scala gerarchica dei gradi accademici. Il cognome è attestato in città fin dagli inizi del XIII secolo, ma non è dimostrato se l’origine sia locale o forestiera. Per alcuni studiosi i Barattieri arrivarono a Piacenza da Genova o da Venezia. Marin Sanudo (1466-1536) famoso per i diari, nei quali annotava gli avvenimenti importanti per Venezia, ha scritto nella Vita dei Dogi che un Nicolò Starattoni o Barattieri, ingegnere, eresse nella città lagunare le due colonne in Piazza San Marco e costruì nel 1181 un ponte di barche che fu il primo passaggio sul Canal Grande. Per altri genealogisti i Barattieri giunsero a Piacenza da diversi luoghi, in seguito a espulsioni loro comminate perchè dediti all’esercizio della baratteria. In età medievale il termine “barattiere” indicava il biscazziere che teneva un banco di gioco nei mercati o nelle piazze, e, per estensione, chi faceva mercato di pubblici uffici per proprio lucro. Dante Alighieri, nel XXI canto dell’Inferno, giunto nella quinta bolgia mostra “come in una bogliente pegola si puniscano i barattieri”. Truffatori vissuti di inganni e raggiri, approfittatori della posizione politica e delle cariche pubbliche sono tuffati nella pece bollente, mentre i diavoli che li sorvegliano impediscono loro di uscirne, pronti ad afferrarli coi loro uncini. Nello stemma originario dei Barattieri spiccano tre dadi. Ricorderebbero il fatto che Nicolò Barattieri ottenne dal doge di Venezia, Sebastiano Ziani, di poter gestire un banco di giochi d’azzardo – all’epoca praticati essenzialmente con i dadi – ai piedi delle colonne da lui innalzate. In origine le colonne portate a Venezia dall’Oriente erano tre, ma una, caduta in acqua durante le manovre di scarico, non fu più recuperata. Le altre due furono lasciate in abbandono sulla piazzetta perchè i veneziani non riuscivano a issarle. Fu il Barattieri che si impegnò a metterle in assetto, esigendo dal Senato non del denaro ma la possibilità di allestire tra di esse una sala per il gioco d’azzardo. Con il passare degli anni il blasone di alcuni rami della famiglia si discostò da quello originale e al posto dei dadi comparvero tre triangoli. Forse ciò avvenne per la volontà di disconoscere le radici della famiglia nel mondo dubbio del gioco e ingentilirle, invece, con allusioni velate: i triangoli ricorderebbero la Trinità.

Blasonati dalla legge, tra scienze e diritto.
I Barattieri ricoprirono vari incarichi con il governo pontificio, con i Farnese e i Borbone. Un membro della stirpe, di nome Guido, fu consigliere del podestà di Bologna nel 1206 e podestà di Milano dal 1207 al 1209. Un altro Guido, canonico di Bruges, nel 1342 fu procuratore presso la curia papale ad Avignone e come lui suo nipote Alberico. A Piacenza costruì e dedicò a Sant’Orsola una cappella nella chiesa dei santi Nazario e Celso. Ma la genealogia certa della famiglia sembra avere inizio con il giurista Traiano, nella seconda metà del Trecento. Suo figlio Antonio, anch’egli esperto di diritto, fu docente all’università di Piacenza dal 1398 e nel 1417 podestà di Cremona. Padre di cinque figli, partoriti dalle mogli Caterina Anguissola e Antonia Dulzani, lasciò l’intero patrimonio al primogenito Bartolomeo, che portò avanti la consuetudine familiare della professione in campo giuridico. Dopo Bartolomeo, nei secoli successivi la dinastia esprimerà altre personalità di rilievo. Ne ricordiamo solo alcune: un altro Bartolomeo, figlio di Francesco, ambasciatore nel 1512 presso il papa Giulio II della Rovere; Francesco, podestà di Milano nel 1542 e nel 1559 ambasciatore del duca Ottavio Farnese a Venezia; l’ingegnere Giovanni Battista, autore nel 1699 del famoso trattato Architettura d’acque. E, ancora, l’astronomo Gianfrancesco, costruttore dell’orologio solare a calendario perpetuo che dal 1793 è sulla facciata del Palazzo del Governatore a Piacenza. Nonché Dionigi, che nei primi tre decenni del Novecento diede l’avvio, con due “berline di gala” del XVIII secolo e quattro “da viaggio” del XIX, alla collezione di carrozze d’epoca esposta nei Musei di Palazzo Farnese. Anche Bartolomeo Barattieri intraprese con successo la carriera giuridica. Dopo la laurea, conseguita a Pavia nel 1423 in utroque iure – vale a dire nel diritto sia civile, sia canonico – si indirizzò nel decennio 1439-1448 all’insegnamento universitario. Dedicò al duca Filippo Maria Visconti il trattato Libellus feudorum, che aveva composto nel 1441 per dare una sistemazione organica al diritto feudale e agli scritti farraginosi, pur se autorevoli, di Oberto dell’Orto, giurisperito milanese del XII secolo. Nella lettera dedicatoria esplicitò che il suo lavoro era per l’appunto inteso a rendere più agevole agli allievi la comprensione e lo studio della materia. Il duca di Milano dovette, evidentemente, apprezzare il riassetto di quel settore della scienza giuridica, che era alla base della politica feudale viscontea. Raccomandò, infatti, l’adozione del testo al rettore dell’Universitas scholarium e al priore del Collegio dei dottori giuristi di Pavia. E pochi anni dopo al Barattieri fu assegnato l’insegnamento della dottrina feudale.

1466-1993. Dall’investitura dei Barattieri all'attuale proprietà.
Fu dunque nel 1421, con l’illustre cattedratico Bartolomeo, che la famiglia entrò in possesso di una parte del territorio di San Pietro in Cerro. Ma l’infeudazione giunse solo in seguito, dopo oltre quarant’anni. Un documento del 1426 elenca i beni dotali: una domus murata con aia e giardino, una casa a più piani di legno (palcata) con cortile e terreni adiacenti, un’altra casa palcata con una cascina, un orto e vari casamenti. Forse, nella casa in muratura è possibile identificare il primitivo nucleo della struttura su cui alla fine del XV secolo si costruì il castello di San Pietro. In ogni caso, per tutta la seconda metà del secolo i Barattieri, comprando sistematicamente appezzamenti di terreno “prativo” (da pascolo) e “lavorativo” (da coltivare), predisposero con zelo le rendite su cui poggiare il futuro nucleo feudale. Il dato emerge – lampante – dalle carte d’archivio del fondo “Barattieri di San Pietro in Cerro”, in deposito presso l’Archivio di Stato di Piacenza. L’8 marzo 1466 morì per un attacco di idropisia nel Palazzo dell’Arengo, nella “camera del cane”, il duca di Milano Francesco Sforza. Gli subentrò il figlio Galeazzo Maria, assistito dal ministro in carica Cicco Simonetta. In attesa del ritorno dalla Francia del nuovo duca, la vedova Bianca Maria Visconti assunse il governo del ducato. Tra l’ottobre del 1466 e la fine del 1467 molti dazi ed entrate della Camera ducale furono alienati per ripianare i debiti di Francesco Sforza e per riarmare l’esercito. Fu imposto un prestito forzoso ai feudatari e la manovra fece scoppiare un diffuso malcontento nello stato sforzesco. É in questa fase che avvenne l’investitura: i Barattieri furono creati signori del luogo, con il privilegio di tramandare il feudo ai discendenti maschi. La data è fissata nella storia: 4 novembre 1466, quando, tramite fedeli incaricati, Bianca e Galeazzo misero in vendita le entrate dei dazi che riscuotevano nel territorio di San Pietro in Cerro. Li acquistò, al prezzo di 1792 lire di Milano, Francesco figlio ed erede di Bartolomeo, dell’augusta famiglia dei Barattieri. Si trattava dei dazi minori (del pane, del vino, delle carni, degli imbottati di vino, delle biade e del fieno), poichè i duchi si riservavano i gettiti fiscali più importanti, quelli della “mercanzia” e della “ferrarezza”, la “gabella del sale”, le tasse sull’alloggiamento dei cavalli e sulle acque. Dopo il 1466 i Barattieri inanellarono altri titoli. Riconosciuti patrizi nel 1546 dai Farnese, qualche anno dopo furono creati cittadini milanesi da Carlo V. Nel 1678, per i particolari servizi resi allo Stato Farnesiano, con “lettera patente” del 28 ottobre il duca Ranuccio II nominò conti Ercole e Paolo Barattieri. Da allora la dignità comitale è stata prerogativa dei discendenti della casata, che hanno mantenuto la proprietà del castello per oltre mezzo millennio, finchè nel 1993 è stato acquisito dalla famiglia Spaggiari, che ne ha curato attentamente il restauro conservativo.

Il castello nel parco alberato diviene residenza gentilizia.
Gli studi condotti sino ad oggi non hanno potuto appurare la data del primitivo incastellamento della località di San Pietro, che nel Medioevo dovette costituire senz’altro un avamposto militare piacentino contro le incursioni dei cremonesi. Si pensa che prima della fabbrica rinascimentale del castello, dalla compatta fisionomia quadrilatera ancora oggi apprezzabile, esistesse un torrione del XIII-XIV secolo, oltre ad un rivellino in mattoni. Di questo, ora parzialmente interrato, permangono tracce nel fossato in corrispondenza dell’accesso. L’edificazione del castello sui resti dell’edificio più antico si deve a Bartolomeo Barattieri, figlio di Francesco, eminente studioso di discipline giuridiche che nel 1512 fu ambasciatore della città di Piacenza presso il pontefice e che morì nel 1514, pugnalato nel sonno da un servo, a sua volta decapitato. Un’epigrafe murata nel cortile tramanda che portò a compimento l’immobile nel 1491 “ab fundamentis”, dalle fondamenta. Il primo documento cartaceo in cui la costruzione è nominata espressamente come “castello” è una divisione testamentaria del 1503. Rispetto all’abitato di San Pietro è ubicata in posizione leggermente decentrata, tale da controllare l’agglomerato urbano ma anche per poter spaziare con lo sguardo sui poderi circostanti. Per quanto riguarda l’orientamento, si dispone secondo l’asse nord-nordovest, con l’ingresso a sud-sudest rivolto verso il paese. Questa disposizione ricalca le direzioni del cardo e del decumanus nella centuriazione romana dell’agro piacentino, cioè nella suddivisione delle proprietà terriere in “centurie”, ancora oggi distinguibile in buona parte del reticolo stradale a maglie quadrate che si dirama dalla via Emilia. Nei secoli il castello, del quale le cronache non riportano vicende belliche, non ha subito sostanziali modifiche, mantenendosi, al contrario, pressochè intatto. Perciò oggi, attorniato da un vasto parco alberato, offre un autorevole esempio della tipologia residenziale gentilizia quattrocentesca nel territorio della provincia di Piacenza. E' formato da quattro corpi di fabbrica articolati su un impianto rettangolare, da cui sporgono il mastio d’ingresso, che fuoriesce dalla linea della cortina muraria, e due cilindrici torrioni angolari posti a difesa del lato settentrionale. Esternamente appare compatto ed austero, ingentilito solo da una serie di finestre disposte su tre livelli, mentre all’interno si apre in una raffinata corte quadrata, a doppio ordine di arcate, dall’elegante disegno. A difendere il lato meridionale era la torre-mastio posta al centro del corpo di fabbrica e dotata di ingresso con ponte levatoio. Il fossato che lo circondava, colmato alla fine dell’Ottocento, è ora del tutto scomparso. Le cortine murarie esterne presentano un coronamento finestrato privo di apparato a sporgere, con merli resi riconoscibili, nel profilo a coda di rondine, da una cornice presente anche nella rocca di Monticelli d’Ongina. Interessante è la sequenza delle “ventiere” negli spazi tra i merli, che servivano a ridurre al minimo l’esposizione dei difensori. La scarpa del basamento, scarsamente inclinata, sporge appena dal livello del terreno con cui il fossato è stato riempito.


veduta di fine 800

Lo scenario unico di un castello quattrocentesco.
Si entra nel castello dal mastio, la torre che difendeva l’ingresso e la cortina muraria del lato meridionale, in cui si notano sui lati due feritoie archibugiere. Una botola nel pavimento si apre sulla ghiacciaia, ricavata nelle fondamenta della torre. Entrando nel cortile d’onore, è spontaneo mettere a confronto l’aspetto severo e imponente dell’esterno con l’interno arioso e raffinato. Il portico e il soprastante loggiato di gusto rinascimentale, aperti su tre lati, qualificano il castello come una sontuosa residenza. Il quarto lato, non porticato, fa comprendere l’esatta dimensione dell’antica torre di difesa. Vi si trovano, infatti, due fessure verticali che dividono nettamente a scomparti la muratura. In una lapide d’arenaria, presso la finestra, è scolpito lo stemma della famiglia Barattieri. Gli araldisti lo descrivono così: “fasciato d’azzurro e d’argento di quattro pezzi, nel due caricato di due dadi, nel quattro caricato di un dado, col capo d’argento caricato di una bandiera di rosso alla croce d’argento fluttuante a sinistra, attaccata ad un’asta d’oro posta in banda”. Completano l’insegna araldica un elmo ornato di svolazzi e medaglia e un cimiero con “un orso rampante portante una bandiera di rosso crociata d’argento”. Sotto il blasone, un’iscrizione ricorda che nel 1491 il giureconsulto Bartolomeo Barattieri e i fratelli Alberico e Giovanni Maria portarono a termine la costruzione del castello come loro dimora. Più palazzo che castello, dunque. Di fronte all’ingresso si trova un’uscita verso l’esterno, detta porta del soccorso. La via di fuga per abbandonare il maniero, qualora fosse caduto nelle mani del nemico, è difesa da due postazioni ricavate tra il pavimento del primo piano e il soffitto del piano terreno. Nell’angolo a nord-est del cortile, una porta conduce proprio alle sale delpiano terreno.

La sala delle armi con il camino.
Ospita due cannoni navali del Seicento, molto simili a quelli impiegati nel secolo precedente per la difesa del castello e parti di armature di diverse epoche, rinvenute all’interno del maniero. Inoltre, spicca un piccolo forziere cinquecentesco, usato per riporre i tributi riscossi nel feudo e proteggerli dall’attacco dei briganti. Al centro della sala è un camino, ora chiuso, dove si cucinava per i soldati. La doppia porta d’angolo, originale, immette all’unica prigione del castello, posta nella torre a nord-est. Entrando si vedono i ceppi cui si incatenavano i prigionieri e le archibugiere, ora murate, con cui si tenevano sotto tiro le cortine murarie settentrionale ed orientale.

Preghiere votive nella piccola cappella.
Nella stanza successiva non ci sono elementi d’arredo originali. Malgrado ciò si ritiene sia sempre stata adibita a luogo di culto del castello. Nel soffitto si notano i voltini “a unghia”, presenti in tutto il piano terreno, ma qui più numerosi. Forse per conferire maggiore decoro all’ambiente, dal momento che al pianterreno vi erano i locali di servizio al castello, non abitati dalla famiglia. Una carrucola, a sinistra sulla volta, doveva servire per sorreggere una lampada votiva. Nella pavimentazione in cotto si nota una ripartizione, quasi a voler suggerire uno spazio più raccolto nella porzione posata a lisca di pesce e uno di passaggio sull’asse delle porte. Gli arredi sacri oggi conservati risalgono all’Ottocento, ad eccezione di alcuni pezzi più antichi come i candelabri del Seicento.

Dipinti d’autore nella Sala da pranzo.
Fu solo nel XIX secolo che i Barattieri abitarono anche questo piano e destinarono l’ambiente a sala da pranzo, per un fattore di comodità: adiacente alla sala si trova infatti la cucina. L’arredo è di gusto rinascimentale. Oltre alla Natura morta del pittore piacentino Luciano Ricchetti (1897-1977) e alla Marina con pesci e granchi, firmata Charles André Igounet de Villiers (1881-1994), è da notare il quadro appeso alla parete meridionale, che raffigura una scena corale all’interno della Basilica di S. Pietro: è la riproduzione di una tela di Gian Paolo Panini (Piacenza 1691 – Roma 1765), considerato il maggior pittore vedutista della sua epoca (l’originale non è esposto per motivi di sicurezza). L’artista non ha avuto relazioni con la famiglia Barattieri, ma la presenza della tela vuole ricordare un episodio legato a un membro della famiglia. Bartolomeo Barattieri oltre a lavorare presso la corte ducale dei Farnese, divenne anche ambasciatore presso la corte di Giulio II Della Rovere, che fu papa dal 1503 al 1513. Proseguendo oltre le scale, si arriva alla cucina.

Rame in cucina, vini in cantina.
Questa era una delle due cucine originali del castello. All’angolo tra le due finestre si trova ancora il lavatoio in laterizio, con il piano leggermente in pendenza per scolare l’acqua direttamente nel fossato, servito da un pozzo che era collocato dietro le ante in legno, ora chiuso. Da notare la pregevole collezione di oggetti in rame del XIX secolo alle pareti. La cantina, nei castelli medievali, era solitamente ubicata nei sotterranei. In questo caso, invece, si trova negli ampi spazi del piano inferiore seminterrato. Da qui, usciti nuovamente nel cortile, si oltrepassa la porta in fondo a destra per salire le scale che portano al piano nobile.

La vita dei conti al piano nobile.
Il piano nobile era adibito alla residenza della famiglia Barattieri. Tutte le stanze, in epoca rinascimentale, erano state affrescate secondo un elegante gusto classico, con una grande quantità di decorazioni “a grottesche”.

Alcova appartata: la Sala d’angolo.
Data la sua posizione appartata, si ritiene probabile che questa stanza fosse una camera da letto: ha un accesso riservato sulle scale e non si affaccia sul loggiato. Il grande dipinto alla parete raffigura La benedizione delle acque, del pittore d’origine russa Emil Benediktoff Hirschfeld (1867-1922). Sotto la specchiera è un cassone nuziale della fine del Cinquecento, decorato con festoni di frutta, teste e zampe leonine.

Ovali nella Sala delle sculture.
Al centro della sala è una tela che rappresenta Santa Francesca Romana, dipinta nel 1609 da Stefano Fiorini. Ai lati sono due cassettoni in stile Impero, mentre i seggioloni in cuoio con dorature appartengono al XVI secolo. Alle pareti si può ammirare una collezione di ritratti ovali della fine del Seicento.

La Passione di Cristo nella Sala dei dipinti.
La denominazione di questa sala si deve a tre grandi dipinti che raffigurano altrettanti episodi della Passione di Cristo: a destra L’incoronazione di spine, al centro La condanna e a sinistra La lavanda dei piedi. Non se ne conosce l’autore, ma il cartiglio visibile nella tela di sinistra, in basso, riporta la data 1598 e informa che i quadri furono commissionati dai fratelli Emilio e Michele Mandraca. Agli angoli sono due angoliere-reliquiari del Settecento: contenevano reliquie di santi e sono dipinti anche internamente. La specchiera dorata è invece dell’Ottocento.

Bartolomeo e Bianca sposi, il Salone d’onore di ponente.
Il cosiddetto Salone Rosa è il primo dei due saloni d’onore della residenza fatta costruire da Bartolomeo Barattieri nel tardo Quattrocento. Vi si trovano il suo stemma e quello della moglie Bianca Scotti, scolpiti e dipinti sulle mensole delle travi maestre, tutte di disegno diverso. La fascia parietale monocroma è caratterizzata da un gioco di motivi ornamentali di gusto rinascimentale. Tra le armature e la panoplia (il trofeo ornamentale fatto di armi), datati al XIX secolo, è il bel camino rinascimentale di pietra grigia. Il mobile all’angolo, tra le finestre, è una cassaforte del Seicento, di legno rinforzato con lastre di metallo inchiodate. Dalla porta situata di fronte ad esso si scende all’ingresso.

Dal loggiato alla biblioteca di oltre 2.000 volumi.
Usciti sul loggiato si può osservare, nel mastio, la netta separazione tra la tessitura muraria del corpo centrale rispetto a quelli laterali, uniti architettonicamente dai grandi archi che si intravedono di fianco. Sono visibili le interessanti buche pontaie, che servivano per alloggiarvi le travi delle impalcature per la costruzione e la manutenzione degli edifici. In origine la torre era più alta ed è stata tagliata alla sommità per uniformarla al resto del castello. La porta al centro del lato meridionale conduce alla Biblioteca, che riveste un grande interesse storico. La raccolta conta duemila volumi a stampa, pubblicati in gran parte nella città di Piacenza a partire dal 1490: agli albori, quindi, dell’arte della stampa. Vi sono poi diverse edizioni “cinquecentine”, anche se la maggior parte del patrimonio posseduto consta di edizioni dei secoli dal XVII ad oggi e libri d’arte. Notevole è il nucleo di opere su Piacenza e il suo territorio, molte delle quali sono ormai introvabili in commercio. Anche se si tratta di una biblioteca privata, è prevista la consultazione delle opere previo appuntamento. Nel lato orientale del loggiato si apre la porta che immette al Salone d’onore di levante.

La contessa pittrice: il Salone d’onore di levante.
Se due saloni d’onore sono una presenza anomala, qui dovuta alla disposizione del castello sull’asse nord-sud, due saloni spazialmente opposti hanno il vantaggio di sfruttare in modo migliore la luce naturale, poiché uno é sempre illuminato e riscaldato dai raggi solari. Inoltre, ciò semplificò la divisione del castello tra il ramo principale e il ramo cadetto della famiglia, nel 1557 circa. Le travi maestre hanno mensole lignee intagliate a foglie d’acanto, che incorniciano la parte alta delle pareti. Qui sono dipinte scene cavalleresche e paesaggi campestri nel gusto neogotico che si diffuse a Piacenza dalla metà del XIX secolo: “il mondo evocato non è più quello oscuro ed enigmatico del Medioevo delle cattedrali e dei monasteri (..) ma quello raffinato, colto e festoso delle corti della fine del XIV secolo, rivissuto in un’atmosfera fiabesca..” (Rota Jemmi, 1984). Quanto all’autore, sulle briglie dei cavalli, sopra la prima finestra a sinistra, si legge una firma: “Leonardo Hernani Magu”, forse uno pseudonimo. A. Coccioli Mastroviti ha ricondotto l’episodio pittorico a un pittore piacentino formatosi dal Gazzola oppure – per l’ideazione e parte dell’esecuzione – alla pittrice dilettante Maria Teresa Zangrandi (1855-1941), moglie di Alberico Barattieri di San Pietro. Allieva di Stefano Bruzzi, la contessa si dedicò fin dall’adolescenza alla natura morta a olio ed acquerello; sue opere si conservano in raccolte private piacentine e alla Galleria d’arte moderna Ricci Oddi. Un’altra ipotesi è che al ciclo pittorico, databile tra il primo e il secondo decennio del Novecento, abbia lavorato il figlio Guido Barattieri di San Pietro (n. 1875), anch’esso pittore, forse in collaborazione con un artista locale. Il salotto, costituito da divani e poltrone tappezzati di rosso, è della metà del Settecento; il lampadario in ferro battuto è del Cinquecento, successivamente ammodernato. I ritratti ovali sono riproduzioni di originali settecenteschi, che non vengono esposti per motivi di sicurezza. Da questo ambiente, attraverso la porta a sinistra del camino si arriva nella Sala da pranzo.

Succhi d’erbe sulla tela. La Sala da pranzo.
La grande tela alla parete, attribuita alla scuola del Tiepolo (inizio ‘700), è dipinta con la tecnica dei succhi d’erbe, in cui il colore, steso direttamente sulla tela, della quale si vede la trama data dalla tessitura a telaio, la fa assomigliare a un arazzo. Raffigura Angeli in adorazione dell’Agnello mistico. Gli altri dipinti sono ritratti nobiliari del Seicento d’area francese; la pendola del 1838 appartenne al conte Paolo Emilio Barattieri. Da qui, attraverso la porta in fondo a sinistra si entra nella Sala Cinese.

Esotismi nella Sala cinese.
Nel Settecento e nell’Ottocento molte famiglie nobili svilupparono il gusto per gli oggetti esotici e per le cosiddette “cineserie”, creando nelle proprie residenze dei salotti a tema. I conti Barattieri non si sottrassero a questa moda, perciò la saletta presenta non solo arredi di paesi lontani, ma anche dipinti parietali che intendono riecheggiare lo stile decorativo cinese. Da qui, ritornati nel salone d’onore di levante, si procede verso l’appartamento a sud.

Camera con vista. L’appartamento a sud.
Queste tre stanze sono una parte importante del castello, nata come appartamento degli ospiti. Quando la famiglia Barattieri si divise in due rami distinti, diventò proprietà di uno dei discendenti del ramo cadetto. Si compone di una “zona giorno”, costituita dalla stanza con il camino – unico riscaldamento nei lunghi mesi invernali – e di una “zona notte” ubicata nel mastio, cui si accede passando attraverso la piccola camera intermedia con la porta verso il loggiato. La camera da letto è esattamente sopra l’ingresso principale del castello, nell’antica torre medievale di difesa. In origine questa era una stanza per le guardie e lo spessore del muro supera il metro. Vi si trovano alte pareti e un soffitto con la volta a crociera. Con l’apertura delle due grandi finestre, la struttura militare della casa-torre è stata trasformata in residenza; é così diventata un luogo privilegiato del castello, che può godere della vista sia verso l’interno – grazie all’unica finestra aperta sul cortile, mentre tutte le altre stanze del piano prendono luce da finestre poste lungo il perimetro esterno – sia verso l’esterno, sul viale alberato, grazie a una finestra aperta in un secondo tempo là dove c’era il ponte levatoio.

Suggestioni contemporanee nello spazio rubato ai secoli.
All’ultimo piano il castello di San Pietro in Cerro ospita un Museo d’Arte Contemporanea. Lo spazio museale si sviluppa lungo tutto il sottotetto, nell’antico camminamento di ronda e nel granaio. Su tutto il perimetro esterno, come chiusura esterna delle finestre si trovano le antiche “ventiere”: sono pannelli di legno basculanti appoggiati direttamente alla muratura, usati un tempo come scudo di protezione. Sotto di esse, a distanza regolare, sono tuttora visibili le “troniere”, da cui si difendeva il castello con le armi pesanti. Il nome del museo è mim - Museum in Motion; é stato pensato dall’illustre critico d’arte Pierre Restany (1930-2003), che ha sostenuto il progetto e ne ha seguito con passione la preparazione e la nascita. Ha quindi assunto la responsabilità scientifica del volume che documenta la collezione con cui il Museo si è presentato al pubblico, nel 2001. Queste le sue parole: “Il titolo Museum in Motion, testimonia l’ambizione di farne uno strumento di dinamica operativa, aperta a tutti gli sviluppi della creatività contemporanea.. conosco bene alcuni artisti.. sono i protagonisti e i testimoni di un’attività in espansione sempre più allargata ai problemi della nostra cultura globale” (dal catalogo, ed. Mazzotta, 2001). Il museo si apre con una vasta sala dedicata a pittori e scultori piacentini. Sono presenti gran parte degli artisti del fantastico: da Luciano Spazzali ad Armodio (Vilmore Schenardi), da Carlo Bertè a Gustavo Foppiani, da Cinello Losi passando per Ludovico Mosconi, gli ultimi lavori di Alberto Gallerati e William Xerra, le sculture di Francesco Perotti, Sergio Brizzolesi e Giorgio Groppi. La torretta è riservata ai lavori di BOT (pseudonimo di Osvaldo Barbieri “Terribile”, 1895-1958), importante futurista piacentino. Il percorso prosegue alla scoperta di autori italiani e stranieri con cui Franco Spaggiari ha stretto rapporti personali, conoscendoli da vicino, visitando i loro studi, ospitandoli alle rassegne d’arte che si tengono presso l’Antico Palazzo della Pretura di Castell’Arquato, supportate da Copromet s.p.a. e organizzate dalla Fondazione D’Ars - Oscar Signorini onlus. La Collezione conta, ad oggi, più di 800 opere di pittura, scultura, fotografia, disegni e installazioni; i lavori sono esposti a rotazione, per dar vita a una realtà unica in continuo movimento.
Castello di San Pietro, via Roma 19 San Pietro in Cerro, tel. +39.0523.839056
mail: info@locandareguerriero.it


dama e cavaliere