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il Maresciallo e il "Vidon"

di giorgio vecchi


Un altro indimenticabile personaggio che frequentava il "Roma" in quei lontani anni cinquanta era il maresciallo Pisati, uno dei capi claque del loggione al Teatro Municipale nonché gran pigmalione dei giovani talenti della lirica di quegli anni. Era un amico di papà, uno dei primi tra quelli della “vecchia guardia”, non so a quale arma appartenesse né ricordo il suo nome di battesimo. Tra i “pëssgatt” del Roma era noto come “Al marescial”, tout court, e godeva di una solida e meritata fama di gran mangiatore che condivideva con il “Gion". Era anche noto per l’interminabile querelle con un famoso tenore locale che accusava di ingratitudine nei suoi confronti dopo che ne era stato, a suo dire, il più valido protettore non avendogli lesinato mezzi e appoggio per facilitargli la promettente carriera. Quella storia ebbe vari sviluppi alcuni anche tragicomici. Non so quanto di vero ci fosse nelle pretese del maresciallo ma è certo che il tenore in questione non si comportò bene nei suoi confronti meritandosi il nomignolo di “vidon”, (vale a dire: vite grossa, arrugginita che non si smuove) che qualcuno, forse il Pisati stesso, gli appioppò. Soleva arrivare il maresciallo nella sala dei “pëssgatt” di prima mattina per bersi un caffè corretto col grappino tanto per iniziare al meglio la giornata e subito qualcuno dei frequentatori così lo apostrofava: “E alura, marescial, m’la mattumia col vidon?”, al che l’interessato rispondeva con brontolii eloquenti.


il maresciallo pisati a tavola al centro della foto

Fra gli appassionati del bel canto che frequentavano assiduamente il Roma, c’erano oltre a lui il barbiere Gerra, Gino Boselli, zio Gino, Vanettu Ferrari, l'inventore Legati, Savino Ferranti, e tanti altri. Come ho già detto il nostro hotel era diventato col tempo una specie di succursale della Filolirica, l’associazione cittadina che promuoveva e organizzava le recite. Al Roma, venivano soprattutto durante la stagione lirica poiché era facile incontrare molti artisti che spesso alloggiavano nel nostro albergo. Questi fanatici appassionati loggionisti erano gli eredi della grande tradizione piacentina dell’opera che aveva reso la nostra città uno dei palcoscenici più temuti insieme a Parma, per i cantanti nel primo novecento. Ne parla tra gli altri anche Hemingway in "Addio alle armi", raccontando di un cantante che tremava al pensiero di esibirsi su quella piazza difficile. I frequentatori del Loggione erano i più temuti dai cantanti: prodighi di elogi con i più valenti e spietati con i mediocri a cui in teatro non lesinavano fischi, disapprovazioni e sberleffi. Sono rimaste famose alcune battute che si udirono in loggione durante certe rappresentazioni infelici, come quando nella "Cavalleria" di Mascagni Turiddu dice nel recitativo:“Troppo bicchieri ho tracannato, vado fuori all’aperto”, e nel silenzio della sala una voce dal Loggione gli gridò “To so la cârta” (portati la carta).O quando, in un’altra opera (credo la Turandot di Puccini), il tenore deve prendere tra le sue braccia la soprano e condurla fuori palcoscenico. In quell’occasione la donna era, come spesso accade per le cantanti piuttosto ben messa, e uno spiritoso gridò dal loggione al piccolo ed esile tenore (c’è chi giura fosse Labò) “Fa dü vias!”.


un gruppo di pëssgatt loggionisti al Roma

Al termine delle rappresentazioni Pisati e i suoi amici erano soliti, dopo uno spuntino nottambulo, attendere in sala l'arrivo dei cantanti per congratularsi con loro sempre nel caso che la recita avesse davvero soddisfatto quei critici esigenti.


la soprano moffo e il tenore gigli

Un giorno il Pisati si presentò in albergo verso l’ora di pranzo e rivolgendosi a mio padre in italiano -che utilizzava ogni qualvolta aveva qualcosa di solenne da dire- “Mario,-gli comunicò raggiante,-ha pagato!”, tendendogli un assegno compilato da quel tenore per un importo notevole. “Voglio festeggiare la cosa con un pranzo dalla A alla Z, -aggiunse sedendosi a un tavolo della sala ristorante. –“Se non ti dispiace gradirei che qualcuno andasse a riscuoterlo per me mentre mangio, così mi darai il resto dopo esserti trattenuto l’importo del conto”. Papà che era correntista della vicina Banca Nazionale del Lavoro in Piazza Cavalli, si offrì di andare lui stesso a cambiarlo. Una volta lì gli dissero però che l’assegno, emesso da una banca ispanoamericana, non era valido poiché quell’istituto aveva da tempo chiuso i battenti. Non gli restò che tornare dal maresciallo per informarlo della cosa. Vi lascio immaginare lo sconcerto e la rabbia del brav’uomo che si sentiva crudelmente beffato dal perfido tenore. Andò a finire che, come spesso accadeva, a farne le spese fu mio padre che gli abbonò quel pranzo luculliano, per non avvilire ulteriormente l’amico. Dopo quell’affronto il Pisati chiuse ogni rapporto con quel sadico burlone, concentrando ogni suo sforzo su un nuovo talento che pareva in grado di dargli maggiori soddisfazioni. Il suo nuovo pupillo, da lui soprannominato il “tenore vendetta”, avrebbe oscurato, a suo dire, la fama dell’ingrato vendicandolo delle passate umiliazioni. Purtroppo anche questi, poco dopo, finì per voltare le spalle al suo mentore. Delle due l’una: o le pretese del maresciallo erano eccessive o davvero i due artisti non furono sul piano umano all’altezza della loro fama. Di uno di essi, avendolo conosciuto abbastanza, posso dire che la riconoscenza non era una delle sue doti precipue, dell'altro non saprei dire. Fatto sta che il povero Pisati ebbe a rammaricarsi in varie occasioni con gli amici dell’umana ingratitudine. (al solit profesur).


la soprano stella - alla sua destra mio padre